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Montale: L’arte è la forma di vita di chi propriamente non vive
Montale: L’arte è la forma di vita di chi propriamente non vive
Montale: L’arte è la forma di vita di chi propriamente non vive
E-book524 pagine8 ore

Montale: L’arte è la forma di vita di chi propriamente non vive

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Info su questo ebook

Questo non è un libro per specialisti, ma per i tanti appassionati della figura e dell’opera del massimo poeta del Novecento. Per questo presenta una sintesi totalizzante, che getta uno sguardo complessivo e unificante sui problemi biografico-espressivi montaliani. In genere la critica diffida altamente delle congiunzioni vita-opera, che invece sono la ragione stessa di questo lavoro, nella convinzione che il vissuto di un autore, cioè quanto del semplice accadere biografico è entrato nell’immaginario e nel fantasmatico, è determinante per cogliere le radici da cui si è nutrita l’opera. Il libro si apre con l'incontro dei due personaggi-simbolo del romanzo e della poesia italiana del secolo scorso, Svevo e Montale, il commerciante di vernici triestino che aveva scritto qualche capolavoro del tutto ignorato e il giovane aspirante poeta che ne aveva intuito la grandezza e per conto suo aveva già scritto la raccolta poetica destinata col tempo a diventare leggendaria, Ossi di seppia. Entrambi erano artisti «involontari», obbedienti solo a un demone che li spingeva irresistibilmente all’espressione. Entrambi rappresentavano a loro modo il profondo disagio dell’artista nella modernità novecentesca, che trae la necessità dell'opera dal «male di vivere». I primi capitoli esplorano la formazione degli stampi immaginativi del poeta proprio a partire dalla difficoltà di affidarsi all’esistenza, fino all'edizione della prima raccolta. In seguito il libro alterna e congiunge tra loro, giovandosi di una grande messe di testimonianze, il difficile vissuto con il progressivo approfondirsi del discorso poetico, testimoniato dalle grandi raccolte successive, fino a quelle della vecchiaia. Determinante in Montale è il tema del femminino, a cui questo lavoro dedica largo spazio, perché qui si è al centro di tutte le inibizioni e ossessioni del poeta e di qui nascono le liriche più alte.
LinguaItaliano
EditoreJaca Book
Data di uscita24 apr 2021
ISBN9788816802261
Montale: L’arte è la forma di vita di chi propriamente non vive
Autore

Elio Gioanola

Elio Gioanola è nato a San Salvatore Monferrato (AL) nel 1934. Ha insegnato per trent’anni Letteratura italiana presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Genova. Con Jaca Book ha pubblicato, tra gli altri, i saggi Fenoglio. Il «libro grosso» in frantumi (2017); Manzoni. La prosa del mondo (2015, finalista al Premio Viareggio e vincitore del premio della critica); Montale. L’arte è la forma di vita di chi propriamente non vive (2011); Svevo’s story. Io non sono colui che visse, ma colui che descrissi (2009); Pirandello’s story. La vita o si vive o si scrive (2007); Psicanalisi e interpretazione letteraria (2005, ult. ed. 2017); Carlo Emilio Gadda. Topazi e altre gioie familiari (2004); Cesare Pavese. La realtà. l’altrove, il silenzio (2003); Giovanni Pascoli. Sentimenti filiali di un parricida (2000); Leopardi. La malinconia (1995, nuova ed. 2015), e i romanzi La malattia dell’altrove (2013); Giallo al Dipartimento di Psichiatria (2006); Martino De Nava ha visto la Madonna (2002); Ma l'amore no (2021). Sua anche La letteratura italiana (2016, in due tomi).

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    Anteprima del libro

    Montale - Elio Gioanola

    Capitolo primo

    IL SENTORE DI TREMENTINA

    Il 27 febbraio 1926 è un sabato, a Milano un bel sabato di fine inverno, con il sole. Per questo giorno Italo Svevo aveva scritto al suo primo vero critico, Eugenio Montale, che sarebbe stato nella capitale lombarda e gli sarebbe piaciuto incontrarlo di persona. Lo scrittore veniva dall’Inghilterra dove, a Charlton, dirigeva la fabbrica di vernici sottomarine della ditta di famiglia. Qui aveva potuto leggere, con qualche ritardo, i due «magnifici articoli» scritti sulla propria opera dal giovane poeta nelle riviste milanesi «L’esame» e il «Quindicinale», rispettivamente nel numero di novembre-dicembre 1925 e 30 gennaio 1926, articoli che anticipavano quelli del «Navire d’argent» (1° febbraio 1926), di Valery Larbaud e Benjamin Crémieux, i due italianisti francesi per merito dei quali, sollecitante James Joyce, avrebbe preso inizio la fama europea di Svevo. La presenza di Montale a Milano non era soltanto dovuta alla prospettiva di quell’incontro, ma all’intenzione di trovare qui un qualsiasi impiego che lo liberasse dalle strettoie genovesi, familiari e ambientali, sentite ormai come non più sopportabili.

    Sulle modalità della diretta conoscenza avvenuta, nella circostanza, tra lo scrittore e il suo critico abbiamo la testimonianza dello stesso protagonista:

    Sul finire dell’inverno del ’26, in un mattino già quasi primaverile, un signore piuttosto anziano, non alto, alquanto corpulento ma elegante, si era fermato dinanzi all’ingresso del Teatro alla Scala, per leggere il manifesto del Lohengrin. Era con lui una signora di parecchi anni più giovane, che doveva essere stata, ai suoi tempi, molto bella. Il signore anziano somigliava stranamente a un ritratto dell’industriale triestino Ettore Schmitz, da me visto poco prima sulle «Nouvelles littéraires». In compagnia di un amico seguii per qualche tratto di via Manzoni la coppia, poi mi feci coraggio e arrischiai la domanda: «Il signor Schmitz?». Non mi ero sbagliato. Avevo davanti a me il romanziere Italo Svevo, l’uomo che mi aveva scritto due mesi prima [in realtà solo una decina di giorni prima], da Londra, per ringraziarmi di un articolo con cui avevo precorso (modesta staffetta) lo scoppio della sua improvvisa celebrità. Il signor Schmitz (tale restò sempre per me) ci invitò a sedere con lui a un caffè e mi tempestò di domande non precisamente letterarie. Il mio nome aveva destato la sua curiosità. Un importatore di resine e d’acquaragia che si chiamava come me gli aveva venduto merce per anni e anni, con molta sua soddisfazione; era forse un mio parente? Ammisi che si trattava di mio padre, senza supporre che acquistavo un titolo di benemerenza ai suoi occhi, come avvenne in realtà. E da allora un sentore di trementina restò sempre nei nostri rapporti, che non riuscii mai a portare a lungo sul piano della letteratura.

    Chi abbia conosciuto Montale e abbia avuto l’occasione di intrattenere qualche rapporto con lui sa che, se non ci si voleva trovare di fronte a un muro di silenzio, non bisognava parlare di poesia e di cose letterarie. Il poveretto che si fosse arrischiato a interpellarlo come ‘poeta’ o come ‘maestro’ avrebbe avuto in cambio una gelida occhiata, tacito invito ad allontanarsi senza indugio. «Quale domanda la infastidisce di più?», gli chiede un intervistatore e la risposta è: «Quella che vuole notizie sulla mia produzione poetica». Sono innumerevoli le occasioni in cui Montale ha demolito, in prosa e in versi, con stizza e con ironia, il personaggio-poeta come figura istituzionale, portatore di chissà quali valori e privilegi, o anche solo come detentore di un mestiere socialmente riconosciuto (non ha mai lesinato – in privato almeno – pungenti sarcasmi contro ‘colleghi’ illustri, anche per altri versi ammirati, come Saba e Ungaretti, molto convinti del loro ruolo di poeti-poeti). Scrivere versi è sempre stato per lui un’attività secondaria e quasi involontaria, da relegare ai margini delle occupazioni ‘vere’, quelle che si esprimono nel lavoro di tutti i giorni: «Ho sentito alquanto intollerabile il nome di poeta […], io sono un giornalista e mi manca il tempo per scrivere cose mie». Quante volte ha ribadito, non senza qualche civetteria, la sua indisponibilità a darsi strumenti capaci di qualificarlo come professionista delle lettere: mai avuta una scrivania, tempi riservati alla scrittura, supporti cartacei degni dei versi da consegnare ad essi. «Io scrivevo su foglietti di carta che mettevo nel taschino del gilè. A volte li ritrovavo, altre volte la cameriera li gettava via, come spazzatura. Questo anche perché non ho mai avuto fogli di carta […] Il direttore di Brera, il professor Molaioli, impietosito del mio caso, mi mandò un pacco di carta bellissima. Ma quella è troppo bella. Deve essere ancora lì. Bisognerebbe scriverci sopra degli autografi immortali. Allora, dunque, scrivevo su questi foglietti di carta, a volte perfino sui biglietti del tram».

    Ecco allora il senso di quel sentore di trementina: il più grande romanziere e il più grande poeta del Novecento rifiutano i discorsi di letteratura, o li confinano in un ruolo secondario, perché sono ugualmente convinti che scrivere non è un lavoro e le persone serie sono quelle che, borghesemente, si occupano del mestiere scelto o incontrato, di industriale, di impiegato o di giornalista. Quel sentore rimasto per sempre ad aleggiare nei rapporti tra i due è garanzia di un dilettantismo puro e alto: la scrittura è obbedienza, riluttante e irresistibile, a impulsi profondi, che non tollerano trucchi o espedienti espressivi, non conoscono le procedure e i compromessi della professione letteraria. Svevo ha alle spalle tre romanzi pubblicati a proprie spese e ignorati dalla critica, troppo nuovi e originali per essere capiti dalla media dell’ufficialità letteraria, Montale viene dall’avere appena pubblicato, senza troppa fiducia nei propri mezzi, gli Ossi di seppia, che stanno incontrando un’accoglienza molto contrastata, ma testimoniano di un’urgenza espressiva senza riguardi per le richieste dell’attualità lirica («Io non vado alla ricerca della poesia, aspetto di esserne visitato»).

    L’incontro milanese tra i due personaggi è incontro di due mentalità formatesi in ambienti singolarmente affini, perché Genova e Trieste sono città senza una vera tradizione letteraria, lontane dai centri culturali più accreditati (Firenze, Milano, Roma), essenzialmente votate ai commerci e ai traffici. Scrive Montale della sua città: «Era un alveare di scagni, di uffici commerciali. Nello scagno di mio padre, il telefono venne tardi ed era a manovella. Il copialettere era a torchio, non esisteva la macchina da scrivere. […] I miei fratelli andavano allo scagno, l’unica mia sorella frequentò l’università, per me non era il caso di parlarne. In molte famiglie esisteva il tacito accordo che il cadetto fosse dispensato dal tenere alto il buon nome della famiglia». «Nella Genova di fine Ottocento ogni forma espressiva che non avesse immediato riscontro con il profitto era considerata inutile. La letteratura ingombro dell’animo e assolutamente inutile in rapporto al solido […] non godeva della minima attenzione» (G. Marcenaro). La Trieste dello stesso giro di anni è anche più affaristica e commerciale di Genova, rappresentando con il suo porto lo sbocco al mare di tutti i traffici dell’impero asburgico. Che da due microcosmi privilegiati dell’universo borghese del denaro siano venuti, nel momento dello loro massima fioritura, tanti e tanto grandi addetti all’infruttuoso commercio con la penna è un problema che meriterebbe adeguato approfondimento (intanto esponenti di primissimo livello della letteratura primonovecentesca, da Kafka ai due Mann, da Stefan Zweig a Pirandello a Svevo sono figli infedeli di padri commercianti e industriali). Dice Montale del romanziere triestino che «portava il suo mondo con sé come una chiocciola […] e richiamava in modo irresistibile a una città e a un focolare», rappresentando al meglio altre figure triestine di «mezzi mercanti e mezzi artisti, espressi da un ambiente che era nuovo anche per me, anche per il figlio di un uomo che aveva profumato di lacrime di pino gli operosi recessi di villa Veneziani» (il sentore di trementina che viene nella casa di Svevo dalla vicina fabbrica delle vernici).

    C’è una generazione di mezzo tra Svevo e Montale ma è pressoché identico il mondo familiare e ambientale da cui vengono fuori. Su Schmitz padre le cose raccontate da Elio, fratello minore di Ettore, sono rivelatrici: «Nell’educazione egli era di una severità unica» e ai figli diceva: «Voi dovete studiare molto, diventare bravi giovani per potermi aiutare nei miei affari e fare bella figura. Un buon commerciante deve superficialmente almeno conoscere 4 lingue. Onde conseguire ciò voi studierete, in un collegio, il tedesco». Studiare sì, ma in vista dell’attività commerciale di famiglia, per cui qualunque concessione alla letteratura non è sentita solo come inutile ma come peccaminosa: «Se io rimanessi alzato una notte onde studiare, tutti mi tratterebbero da pazzo, papà mi osteggerebbe e me lo proibirebbe, come lo ha già fatto con Ettore». In tale situazione di famiglia la decisione da parte di un figlio di mettersi a scrivere, come fa Ettore di nascosto, equivale a un vero e proprio atto di insubordinazione. Viene da pensare – ma ho approfondito l’argomento in altra sede – che questa decisione, presa «nonostante il severo divieto paterno», sia stata determinata proprio da questo divieto. Ma intanto, se clandestinamente il giovane Schmitz legge e scrive di letteratura, prende il suo diploma di scuola commerciale in obbedienza alle direttive paterne e diventa impiegato di banca (nel frattempo il padre ha fatto fallimento). Parallelamente il sottomesso, timido e valetudinario Eugenio fa quello che la famiglia ha deciso che faccia, studia all’istituto tecnico e diventa ragioniere, nella prospettiva, aborrita fino al tormento, di insediarsi nello ‘scagno’ paterno. Sul carattere di Montale padre abbiamo queste brevi notazioni della figlia Marianna: «Quando papà si inquieta fa paura»; «È molto nervoso. […] A volte succede che per una cosa da nulla si riscalda e allora non vede più nulla. […] In quei momenti sarebbe anche capace di farmi del male [e io ] rimango impaurita, istupidita». «Papà pensa soltanto a scoprire immaginari sintomi di malattie e a rimproverare la Mamma che si spende troppo. […] I ragazzi avrebbero bisogno di calma e di trovare una famiglia […]. Non si sentono apprezzati dal loro babbo, ma considerati come monelli da strapazzare e basta». A parte il nervosismo, Domingo Montale è, per l’epoca e per l’ambiente, un normale padre di famiglia ma, da «buon borghese inteso alla moneta», mette gli affari al di sopra di ogni altro valore e fa dello ‘scagno’ il cuore dei suoi interessi, a cui tutta la famiglia è tenuta ad essere devota. Ovviamente per la letteratura non c’è spazio né considerazione: quando escono gli Ossi di seppia li ignora completamente e si rifiuta di comprarne una copia nella seconda edizione, che considera troppo cara.

    Ecco come, in due luoghi deputati della sua affermazione, la famiglia borghese generi gli emblemi del proprio scacco: padri che usano la penna solo per fare dei conti, si ritrovano per casa figli che sanno usare la penna solo per scrivere sogni. È un caso che tanto fervore commerciale abbia partorito, insieme con tanti soldi, tanta letteratura? Forse si tratta soltanto del risultato di un’opposizione di forze contrastanti, da un lato l’etica del lavoro efficace, senza distrazioni e divagazioni (solo quel tanto di relax che corrobori le istanze del dovere: in casa Montale si frequenta molto il teatro d’opera), dall’altro la sofferenza per l’inibita vocazione al gratuito dell’estetica, una sofferenza che arriva quasi sempre al tormento delle nevrosi. Quanto più le esigenze di un cultura della razionalità e della concretezza, con il corredo delle regole e dei comportamenti trascinati con sé, fanno sentire il loro dominio, tanto più si affermano le pulsioni dell’irrazionale creativo, fertile terreno della modernità artistica. La generazione degli scrittori di primo Novecento esibisce esemplari che recano i segni della loro formazione ambientale e, insieme, quelli della ribellione ad essa, comportamenti intonati alle regole trasmesse e libertà immaginativa senza limitazioni. Se Svevo e Montale non amano parlare di letteratura, tra di loro e con gli altri, restando affezionati al sentore di trementina, è perché rimangono dei buoni borghesi che mettono in subordine l’attività letteraria rispetto agli obblighi di un lavoro socialmente rispettabile.

    Il caso di Svevo è esemplare: per molti anni è un modesto travet che fa di malavoglia il lavoro del bancario, non senza qualche tentazione di maledettismo e di bohème, poi sposa Livia Veneziani e diventa prima collaboratore e poi dirigente nell’industria dei suoceri, abbandonando per un ventennio la letteratura, fino allo scoppio, propiziato dall’epoché bellica, dell’irresistibile romanzo di Zeno. È ben noto il tagliente giudizio di Bobi Bazlen sullo scrittore amico, e debitamente apprezzato, «Non aveva che genio, nient’altro. Del resto era stupido, egoista, opportunista, gauche, calcolatore», con una vita «dedicata unicamente – a parte i tre romanzi – a far soldi» (Montale dice: «Un uomo geniale che fu sempre up to date senza volerlo e senza saperlo»). Di sé lo scrittore ha detto: «Io non sono colui che visse, ma colui che descrissi», dichiarando così una scissione totale tra la vita realmente vissuta come marito e padre e buon imprenditore e la propria scrittura. Il vero me stesso, dice con questa frase, è Alfonso Nitti, Emilio Brentani, Zeno Cosini: chi vuole sapere chi sono veramente, nell’intimo e nel profondo, vada a cercarmi nei miei libri. Qualche critico, opponendo i primi due personaggi al terzo, ha parlato di ‘guarigione’, come se l’inettitudine di quelli si fosse trasformata nell’intraprendenza di questi, nel dileguarsi di ogni traccia di nevrosi. Non è così, nessuna guarigione, Zeno ha soltanto sviluppato una serie di compromessi con il reale, adattandosi alle circostanze. La sua ultima, grande creatura fa dell’inettitudine un’ironica e sapiente strategia di sopravvivenza, mettendo in ridicolo quel «bestione» dello psicanalista, che intenderebbe guarirlo di un male a cui deve la sua originale diversità.

    Quando Bobi Bazlen ha inviato a Montale i primi due introvabili romanzi di Svevo, mai stati davvero in circolazione e mandati a gravare sulla soffitta di villa Veneziani, questi si è subito accorto della grandezza dello scrittore non tanto per una particolare finezza del suo fiuto critico, ma perché si è personalmente sentito coinvolto in quei libri, invecchiati di qualche decennio e nuovissimi. Alfonso Nitti ed Emilio Brentani sono due personaggi esemplari della fauna letteraria novecentesca che ha modificato per sempre la mappa psicologica dell’eroe – ma ora antieroe – romanzesco, e in essi il giovane poeta si è pienamente riconosciuto. «Montale vedeva in Alfonso se stesso», dice Giorgio Zampa, «un romantico fanciullo incapace di vivere e di decidere». Mario Praz, a cui l’amico genovese ha suggerito di leggere Senilità, è pronto a dichiarare che «certo Svevo è something big», ma bada a lavorare, replica al mittente, e «non fare l’Emilio Brentani». Per parte sua Edoardo Sanguineti vede in Montale l’incarnazione stessa della «mitologia dell’inetto» inaugurata da Svevo: «Inettitudine, impotenza, indifferenza, sono categorie che possono aiutarci a comprendere le ragioni profonde, e non necessariamente consce […], che motivarono certi interessi culturali, e vitali proprio, del ‘ragazzo col ciuffo’». Da Firenze, dove ha trovato un magro impiego presso l’editore Bemporad, Montale scrive a Svevo della desolazione di quel lavoro che gli toglie tempo e lena per dedicarsi ai più veri interessi letterari e da Trieste il romanziere, che ha intravisto le analogie col protagonista del suo primo libro, risponde: «Da tutto quello ch’ella mi dice eccola preparata a sentire meglio di ogni altro Una vita: Impiego male retribuito e impiego che ruba la vita. Eccomi tutt’egoismo a pensare all’opera mia anche quando lei mi parla dei dolori Suoi».

    Fin da subito Montale ha avvertito, pur nella piena incertezza del proprio valore e nella stessa inadeguatezza a partecipare alla vita letteraria del suo tempo e del suo ambiente, la ristrettezza provinciale della patria ligure. Non ha mai cessato di dichiarare i suoi debiti di riconoscenza e la sua ammirazione per scrittori locali come Boine e Sbarbaro, e anche per altri minori, ma rapidamente ha mirato in alto, cercando un’aria meglio ossigenata di quella piuttosto asfittica respirata al caffè degli intellettuali genovesi, in galleria Mazzini. La prima ventata vivificante gli è venuta da Trieste, nella persona di Roberto Bazlen, capitato avventurosamente a Genova nel ’23 per un impiego presso una compagnia petrolifera prima, e poi come ‘giovane di studio’ nella ditta di coloniali e caffè del triestino Giulio Morpurgo, padre di quella Lucia sposata Rodocanachi destinata ad avere un ruolo molto importante per il Montale degli anni trenta. Appena ventenne, Bazlen possedeva una prodigiosa conoscenza diretta della migliore letteratura europea contemporanea e spandeva con una generosità quasi patologica, a chi ne facesse richiesta, il frutto delle sue letture in lingua originale. All’amico poeta incontrato a Genova, che con altri aveva vagamente progettato la pubblicazione di una rivista, scriverà due anni più tardi: «Io sono una persona per bene che passa quasi tutto il suo tempo a letto, fumando e leggendo, e che esce ogni tanto per fare qualche visita o per andare al cinematografo. [… ] Se avete bisogno di indicazioni, scoperte, bibliografie, ecc. vi aiuterò molto volentieri». Non è negli incontri del primo soggiorno genovese che Bazlen fa leggere a Montale Una vita e Senilità, questo avverrà solo nel ’25, ma di sicuro il travaso di ghiotte notizie letterarie all’acerbo e avido nuovo amico, che a sua volta gli faceva leggere le poesie destinate agli Ossi, dev’essere stato alquanto ricco. Montale possedeva per conto suo una formidabile capacità di aggiornamento, intuendo quasi rabdomanticamente le cose degne di essere conosciute e per lui Trieste, tramite Bazlen, gli spalancava un orizzonte più ampio di quello delimitato dai localismi indigeni, avanguardistici, vociani, rondeschi, romani o fiorentini. Nel ’25, «possiede un compasso di tale ampiezza – istinto e cultura – da potersi spingere fino a Trieste con la freschezza e pertinenza d’intuizione che sappiamo» (G. Lonardi).

    Montale e Bazlen saranno legati per tutta la vita da una profonda amicizia e alta reciproca stima: con nessun altro il poeta avrà la confidenza riservata all’intellettuale (ma si sarebbe offeso di tale qualifica) che ha letto tutti i libri e aborrito dallo scriverne uno di propria mano. Alla sua morte Montale scrive sul «Corriere»: «È stato l’ultimo e più singolare rappresentante dell’intelligenza triestina dei cosiddetti anni Trenta (o Venti). […] Fu a partire dal ’24 ch’egli cominciò a portare fuori Trieste il tesoro della sua sapienza e delle sue inquietudini. […] Quando venne a trovarmi, nell’inverno ’23-’24, mandatomi non so da chi, egli fu per me una finestra spalancata su un mondo nuovo. Ci vedevamo ogni giorno in un caffè sotterraneo presso il teatro Carlo Felice. […] Tra il ’25 e il ’30 diventai anche io quasi un triestino d’elezione e allora non prevedevo che un giorno avrei sposato una donna di origine triestina che Svevo fece in tempo a conoscere [è Drusilla Tanzi, la Mosca]. […] Era semplicemente un uomo a cui piaceva vivere negli interstizi della cultura […], impareggiabile suggeritore e suscitatore di sempre nuove inquietudini intellettuali e morali».

    Trieste, da dove Montale dice che «la nostra cultura deriva ultimamente insperato, e forse vano, lusso di fermenti», «porto dell’uomo moderno, abbandonato a tutti i contrasti e schiavo della propria implacabile lucidità», diventa subito per il genovese bisognoso di un’aria culturale più respirabile la «patria ideale» e addirittura «la mia passione». La prima volta che vede la città giuliana è nel ’19 quando, da militare e in compagnia del fratello Salvatore, ha la possibilità di entrare in quel luogo simbolo dell’irredentismo finalmente esaudito. È il primo di quelli che lui chiama «i miei innumerevoli pellegrinaggi triestini», a cui la conoscenza e poi l’amicizia con Ettore Schmitz fornisce l’occasione migliore. Dopo l’incontro di Milano comincia una corrispondenza fitta tra lo scrittore e il suo critico, subito accompagnata da un invito di Svevo a Trieste: «Voglio esprimerle, caro Maestro e Amico», scrive Montale, «tutta la mia soddisfazione per il nostro incontro milanese, che mi lasciò un’impressione squisita. […] Di alcune figure di Una vita sono ancora sorpreso ora, e credo lo rimarrò per sempre». Si è parlato ben poco di cose letterarie in quell’occasione, con reciproco sollievo, ma tra anime profondamente affini conta più ciò di cui si tace di ciò di cui si parla: il sentore della trementina ha funzionato da perfetto schermo al pudore delle confidenze, per due gentiluomini che sapevano quanto la letteratura fosse per loro una necessità fisiologica da non confondere con un mestiere.

    La visita a villa Veneziani segue di un paio di mesi quel primo incontro e anche lì dev’essere andata più o meno come a Milano, senza troppa letteratura, se Montale nella circostanza è diventato subito, per i nipoti dell’ospite, «lo zio Eusebio» e se, tornato a casa, si premura soprattutto di ringraziare «per le molte cortesie che mi ebbi a Trieste da Lei e dai Suoi». A Giacomo Debenedetti, che si era mostrato tiepido nei confronti dell’autore di Senilità, l’amico poeta scrive subito dopo la visita al «Maestro e Amico»: «Credo che la lettura di tutto Svevo dissiperà molti tuoi dubbi. Anch’io ne ho avuti, figurati! Ma oggi non ne ho più. […] Ho passati due giorni con Schmitz. Joyce non si è sbagliato». A Trieste Montale ha potuto avvertire davvero, questa volta, come non aveva potuto fare nel ’19, l’aria della grande internazionale letteraria che spira insieme alla bora. Da questo momento gli sembrerà ristretto persino il respiro della sua prima raccolta poetica, tanto da salire parecchio di tono nei componimenti aggiunti nella seconda edizione, nient’affatto immemori dell’indiretta lezione sveviana. Naturalmente allo scrittore aveva fatto avere gli Ossi usciti da poco e quello gli scriveva, qualche settimana prima che s’incontrassero a Milano: «Io non ho visto i suoi versi ma intanto sento in lei il critico tanto sicuro che non posso ammettere che il poeta valga meno». Non ha esitazioni Svevo a dichiarare all’amico poeta la sua perfetta sordità per la scrittura in versi, tanto da scrivergli: «Io attendo ansiosamente che dai versi Ella passi al modo più ragionevole di esprimersi. Nell’ultimo tempo ho sofferto per rime e ritmi… altrui e mi spazientiscono [a importunarlo con le sue poesie è il concittadino Saba, che certo ‘soffre di una speciale nevrosi e bisogna scusarlo’]. Poi io credo che il Suo destino sarebbe più facile. Infine non capisco perché chi in buona prosa sa analizzare uomini e cose quale critico, non voglia fare il critico della vita intera». Che Montale non fosse sordo all’invito alla prosa come nutrimento narrativo della poesia è dimostrato da tutto il corso della sua opera, a cominciare da Arsenio, un testo che risente del commercio con le cose sveviane. Sul punto Montale risponde: «Io di versi ne farò ancora per qualche anno, perché è l’unica forma ch’io sento oggi possibile per me. […] Con l’esperienza di vita che ho io, tutta esclusivamente interna, che potrei dare nel campo narrativo? Sono un albero bruciato dallo scirocco anzi tempo e tutto quello che potevo dare in fatto di grida e sussulti, è tutto negli Ossi di seppia, un libro di cui Saba non ha capito una sillaba».

    Svevo, per la natura della sua opera e per le modalità con cui questa è stata portata all’onore del mondo, diventa immediatamente per il suo scopritore nostrano il modello per eccellenza dell’artista internazionale moderno. Quando Montale nel ’27 approda a Firenze e partecipa all’avventura di «Solaria», la rivistina per vocazione aperta alla letteratura europea (numeri dedicati a Kafka, Proust, Svevo), ha più credenziali di tutti gli altri collaboratori in questa direzione. Se Joyce e Valery Larbaud sono stati i promotori della fama dello scrittore triestino, diventano subito per questo riferimenti diretti anche per Montale. Il poeta-critico scrive sull’autore francese e su quello irlandese e manda a Svevo gli articoli relativi: «Su Larbaud faccio vedere com’egli si riallacci, attraverso certe apparenze libertine, a un tipo di ‘Homo europaeus’ ch’io vagheggio». Per questo scrittore e valente italianista Montale ha un’ammirazione senza riserve («uno dei due o tre prosatori più perfetti della recente letteratura francese») e attiva con lui una corrispondenza non occasionale e anche un diretto rapporto di conoscenza, approfittando del fatto che Larbaud conosce bene Genova e addirittura incontra qui la donna della sua vita. A Svevo scrive: «Larbaud è stato a casa mia, a Genova, il 1° Settembre (1926); e non avendomi trovato […] ha lasciato i suoi saluti a mia madre. È un vero peccato» (avrà comunque occasione di incontrarlo nella sua città in un caffè del lido). Allo scrittore francese confida di essere stato l’unico, in Italia, a condividere con lui l’opinione su Svevo «che ho espresso in tre articoli che hanno fatto supporre in me un agente ebreo», aggiungendo che sta per lasciare la propria città per Firenze: «Lasciare Genova per una città da Baedeker mi è penoso; ma Genova non è, per fortuna e purtroppo, una città in cui un uomo di lettere possa trovare un lavoro ad hoc». Nella stessa lettera, a conferma della mira alta a un orizzonte europeo, si informa se Eliot conosca abbastanza l’italiano per capire gli Ossi che vorrebbe inviargli, e se possa avere l’indirizzo di Rilke per lo stesso motivo. Insomma, è ben giusto dire che «Larbaud accompagna Montale alla modernità europea» (P. De Caro). Quanto a Joyce, Montale affida alla «Fiera letteraria» un articolo su Gente di Dublino e poi chiede a Svevo se lo abbia letto e se sia opportuno mandarne copia all’interessato. Per illustrare l’articolo aveva pregato il Maestro di chiedere all’autore dell’Ulisse un suo ritratto, che però non gli era mai arrivato (ma lui l’aveva mandato davvero); invece del ritratto aveva poi ricevuto da Joyce una copia del Dedalus.

    Come documento conclusivo di questa aspirazione a svincolarsi dal giro asfittico dell’ambiente intellettuale genovese, si può citare questa lettera del poeta a chi più di tutti ha contribuito al suo riscatto dalle remore provincialistiche: «Ai primi di Gennaio [1927] andrò da Bemporad – a Firenze – per assumere un regolare lavoro che mi permetta di sbarcare il lunario. Sarà un lavoro duro e arido. Andrei volentieri all’estero. Ma come trovare un sistema di vita? Se Ella vede Larbaud o Eliot [a Parigi, dove Svevo è diretto] chieda loro se non conoscono qualche rivista straniera dove io possa pubblicare qualche nota di Letteratura italiana contemporanea. Al New Criterion hanno dato quest’incarico ad Angioletti, un giovane non troppo aperto all’arte moderna, come Lei avrà visto». La risposta, ben in linea con le idee dell’industriale di vernici e genio involontario Ettore Schmitz, in linea con l’incontro milanese della trementina, è questa: «Io credo che il lavoro regolare benché arido non Le farà male». Non ne sarà nulla delle intenzioni molto serie di andare all’estero, per lavoro e per respirare Europa. Sul «Criterion» di Eliot uscirà Arsenio tradotto da Mario Praz e a sua volta Montale tradurrà e pubblicherà su «Solaria» il Canto di Simeone del poeta inglese. Ma sarà Firenze l’estero e l’Europa del poeta. Svevo gli scrive così al principio del ’28: «Certo non sarebbe male di rivedere Firenze prima di morire. Per certi aspetti la vera capitale. Perciò io tante volte invidio lei che pur essendo costretto a fare la vita che non è Sua, la fa su un punto del globo ch’è veramente Suo».

    Il vecchio scrittore farà ancora in tempo a rivedere Firenze, invitato dai giovani amici e ammiratori di «Solaria» che gli hanno dedicato un numero intero della loro rivista, e sarà anche l’ultima volta che qui vedrà il suo primo tanto congeniale critico, di cui però non è mai riuscito a digerire le poesie. Dopo l’incidente stradale che gli costerà la vita nell’autunno dello stesso anno, Montale scriverà sulla «Fiera Letteraria»: «L’arte di Italo Svevo […] imponeva un esame di coscienza troppo imperativo alla mediocrità costituita del nostro ambiente letterario. In quest’ambiente […] l’autenticità e l’impegno di Schmitz stonavano e offendevano come segni d’altri tempi: si preferì ignorarlo, metterlo in forse, rimproverargli la propria razza, rifargli la grammatica: l’unica cosa che alcuni dei nostri (non tutti né molti) dei nostri scrittori ‘ufficiali’ potessero forse insegnargli. […] Egli non cessò mai di affinar l’occhio su quanto nel mondo andava maturandosi: né per il mondo dimenticò la nazione e la città. Per questo la sua Trieste, realistica e viva come la Dublino del suo amico James Joyce, è insieme concreta e fantastica, puntuale e largamente simbolica. È il porto dell’uomo moderno, abbandonato a tutti i contrasti e schiavo della propria implacabile lucidità […]. Resta un insegnamento di una gravità tanto più inquietante quanto meno [egli] seppe e volle raccomandarsi nel corso di lunghi anni agli espedienti e agli artifizi secolari delle nostre retoriche».

    Capitolo secondo

    IL PADRE, IL MARE, LA CACCIA

    Svevo è protagonista eminente di quella letteratura tra Ottocento e Novecento che fa del conflitto padre-figli il proprio fondamento ispirativo, generando la varia fauna dei personaggi inetti, incapaci di vivere, sofferenti-insofferenti, insomma gli anti-eroi che oppongono all’efficienza paterna le proprie sublimanti nevrosi. Dal Dostoevskij dei Fratelli Karamazov al Kafka della Lettera al padre, dall’inventore di Zeno (i capitoli-confessione Il fumo, La morte di mio padre) da Pirandello a Tozzi a Gadda è tutto un dispiegarsi di variate forme di sofferenza del figlio persona scrivente come, per riflesso, del figlio personaggio scritto a fronte di un’implacabile figura d’onnipotenza. Forse, almeno in parte, ciò è dovuto all’insediarsi della famiglia nucleare in luogo di quella patriarcale nobiliare e contadina, con l’assunzione da parte del padre delle prerogative un tempo riferite al Padreterno, dal momento che la gerarchia ha il suo apice nel capo famiglia, domestico legiferatore e deliberatore, unico garante della sussistenza del nucleo in un’economia che non è più quella della rendita ma del profitto. Finite le garanzie di diritto divino, il padre diventa il punto di riferimento assoluto, mentre la madre, a cui la divisione dei ruoli delega la totale cura dei figli, assume, per usare la celebre definizione di Kafka, il ruolo di battitore nella partita di caccia da quello ingaggiata. Un simile padre vuole i figli simili a sé, continuatori della propria opera, ma nello stesso tempo, non abdicando mai alle sue prerogative, impedisce loro di esserlo. La letteratura moderna presenta una varia fauna di padri-padreterni, abbastanza onnipotenti da suscitare nei figli fantasmi di impotenza, anche se poi rischieranno di essere rappresentati come imperatori da burla, re carnevalescamente scoronati. Ma intanto la lotta vissuta nel reale o nel fantasmatico si è trasferita su un altro piano, quello della scrittura perché, occupando questo padre la quasi totalità della mappa del reale vivibile (ancora Kafka), al figlio non resta altro che abbandonare il terreno della competizione e traslocare in un’altra orbita, là dove le angosce di castrazione favoriscono le rivincite creative della parola scritta («la mia famiglia padreterna», dirà Gadda con folgorante sentenza).

    Abbiamo accennato a certe caratteristiche di Domingo Montale, tali, tra furie nervose e lamentazioni ipocondriache, da far dire al figlio Alberto (le sue parole sono riferite dalla sorella): «La nostra casa è una caserma, non una famiglia». E Marianna commenta: «Se non fosse per me non proverebbe neppure molto dolore ad allontanarsene. […] In un’altra famiglia avremmo potuto essere tanto migliori». E Alberto: «Se non ci fosse lei [Marianna] chissà che cosa sarebbe di noi a quest’ora». La buona ragazza, vero centro affettivo e angelo protettore della famiglia, a proposito degli effetti sul fratello minore dell’ambiente familiare (siamo già nel ’21): «Eugenio attraversa un periodo di indecisione tormentosa […], i miei genitori non lo capiscono e dicono che io gli tengo corda. Eugenio mi ha fatto una pena immensa (da una settimana è anche più pallido del solito e non dorme) perché non si è ribellato, ha detto che farà tutto quello che vogliono, ma poi lo ha preso un accesso di singhiozzi senza lacrime che pareva gli rompessero qualcosa dentro». Umberto Saba, quando nel ’31 Domingo muore, da competente in materia di psicologia del profondo (e con non pochi motivi di risentimento verso un padre traditore del patto familiare), scrive all’amico poeta, di cui non ha capito nulla degli Ossi ma che ritiene «un esempio di generosità e di gentilezza d’animo» e una delle «persone più affascinanti»: «Non so se e quanto amavi tuo padre (non me ne hai mai parlato); ma comunque è qualcosa della tua vita, e, che più conta per un poeta, della tua infanzia, che si stacca da te con la sua dipartita. Gli antichi conflitti che per il piccolo Montale (doveva essere molto caro) si connettevano alla figura paterna risorgeranno probabilmente in te per qualche tempo, esprimendosi – che non possono farlo per altra via – in un aumento di nervosità».

    I conflitti cui Saba accenna, oltre che sulla «nervosità» dell’interessato, hanno inciso sulla sua opera, e ne troviamo traccia in molti luoghi, come per esempio questo:

    La prima opera in musica da me ascoltata fu la Sonnambula, in un teatro in cui tra un atto e l’altro si bevevano gazose col pallino. Non saprei dire in quale anno, certo nel primo lustro del nostro secolo [dunque sei-sette anni del bambino]. Affondato in un cuscino preso a nolo passai due ore d’estasi, interrotte però dalla decisione di mio padre: il quale sentenziò, alla fine del secondo atto, che si faceva tardi e occorreva rincasare d’urgenza per la cena. Lo spettacolo si dava in matinée, l’orologio segnava le 5,30 e a quel tempo si cenava verso le sei. Non osai protestare, e perdetti così l’immagine di Amina sospesa sul trapezio. Fu per me un dolore cocente.

    Nessuna infrazione pensabile al rigido rituale degli orari, la morale borghese non prevede deroghe alla laica severità dei suoi programmi, nessun piacere potrà mai avere precedenza sulle officiature del dovere. L’estasi interrotta è tanto più crudele, nella memoria di chi ne porta l’incancellabile ferita, perché non si tratta di un fatto isolato, come se la frustrazione dei desideri del figlio facesse parte precisa del sistema educativo paterno: «Un altro grande dolore mi dette mio padre, sempre in quegli anni, troncando a metà un dito di pasta frolla riempito di zabaione e offrendone solo metà alla mia ghiottoneria (l’altra metà se la mangiò lui, crudelmente)». Il commento dei due episodi, riferiti da una delle Variazioni, è questo: «Di tante immagini che mi ha lasciato mio padre queste sono, non so perché, le più rilevanti. Una delle maggiori noie che dà il pensiero della morte è proprio questa: l’estinzione definitiva dei ricordi che portiamo in noi, e non dei grandi ricordi, ma dei più futili, che possono essere i più preziosi». Dunque ricordi futili ma rilevanti, piccoli ma preziosi: molto spesso le cose emotivamente decisive si nascondono nei dettagli in apparenza irrilevanti e qui certo quelle tracce memoriali sono sovradeterminate, la loro ‘involontarietà’ elimina l’intervento delle scelte coscienti, facendo sentire a chi quei ricordi riferisce la pregnanza dei significati nascosti.

    Nel Racconto di uno sconosciuto, il primo di Farfalla di Dinard, di un autobiografismo appena ritoccato in pochi particolari (ma anche i ritocchi sono significativi), leggiamo dell’attesa sia da parte del padre che del figlio che la posta recapitasse l’«Amico delle famiglie», la rivistina edificante sulla quale un certo padre Buganza offriva le sue immancabili soluzioni a quesiti enigmistici: «Fra i tanti motivi di discordia esistenti tra me e lui, uno almeno, l’ansioso bisogno che il nome dell’arciprete comparisse immancabilmente, ad ogni fine di settimana, fra i ‘solutori’ dei logogrifi, dei monoverbi, dei rebus e degli incastri dell’‘Amico’ […], costituiva un elemento di coesione, un filo che mi teneva attaccato al mio genitore». Nel racconto si accenna ai mutamenti prodotti in città dalle nuove forme di divertimento, dai nuovissimi bar ai teatri d’operetta alla rivista: «Non esistevano ancora le girls, ma il varietà con le sue divette e sciantose e i primi tentativi di cinematografo aprivano vaste possibilità di corruzione della gioventù». Una potenzialità corruttiva che era arrivata anche all’interno della buona famiglia dell’«Amico delle famiglie», se è vero che il figlio confessa: «Io stesso, che non frequentavo quei luoghi, avevo attaccato allo specchio della mia camera il ritratto dell’adorabile stella per la quale il nome di un venerato sovrano d’Europa doveva mutarsi, un bel giorno in quello di Cleopoldo. Quando mio padre scoperse il ritaglio scoppiò una violenta baruffa tra noi. Minacciai di far bagagli e di recuperare infine la mia ‘indipendenza’. Ma non avevo quattrini e potevo partire, di venerdì, senza attendere la visita dell’arciprete?».

    Giulio Nascimbeni nella biografia del poeta riferisce ‘dal vivo’ l’episodio in questo modo: «Un giorno papà Domingo lo sorprese [Eugenio] mentre era in estatica adorazione di Cléo de Mérode, la ‘stella’ che dava un nome a tutte le follie della Belle Époque. […] Figurarsi quali effetti poteva provocare nella fantasia d’un ragazzo. Ma Domingo non era quel che oggi si direbbe un genitore ‘aperto’. Fece una scenata al figlio giudicandolo frivolo e immorale, ed Eugenio minacciò di andarsene da casa». Davvero l’arciprete non poteva conoscere le conseguenze provocate dalle sue imprese enigmistiche nella famiglia dei suoi devoti ammiratori: «Che avrebbe detto di noi se gli fosse stato noto l’abisso che egli andava scavando sotto i nostri piedi? Forse l’avrebbe giudicato opera del maligno». La condizione del figlio in questione è così delineata nel racconto: «Mio padre viveva tra casa e scagno (dove lo aiutavano i miei fratelli, questi indipendenti davvero); io fra la casa e i portici delle strade nuove, sempre disoccupato. Si intende che cercavo un lavoro degno di me e delle mie attitudini; ma quali si fossero tali abitudini, né io né mio padre avevamo mai potuto appurare. […] Figlio minore di padre vedovo, alquanto malescente fin dall’infanzia e ricco di imprecisabili vocazioni extra-commerciali, io ero giunto a quindici e poi a venti e poi a venticinque senza aver preso una decisione» (il particolare non autobiografico della vedovanza accresce la valenza del dominio paterno su questo figlio malaticcio e senza occupazioni).

    Arrivano tempi difficili per la famiglia dopo la grande guerra, gli affari del padre vanno male, il figlio continua ad essere senza «alcuna ragionevole attività», ma Buganza continua le sue visite settimanali. «Un sabato mattina ci fu un alterco piuttosto vivace fra me e mio padre». Qualche scamiciato ha preso a ceffoni il giovane che non ha fatto il saluto al gagliardetto e il padre ha sostenuto, da vecchio conservatore, che hanno fatto benissimo. Ma in quel sabato della festa fascista e dell’arrivo dell’«Amico delle famiglie» sul settimanale non compare il nome dell’arciprete Buganza. È il tempo delle decisioni, anche se il figlio impiega una settimana per decidersi ad andarsene davvero di casa (per dove poi?), tanto che arriva il nuovo numero della rivista e questa volta Buganza c’è. Non resta che disfare le valigie e ritornare sotto il controllo del pater familias, al quale peraltro non aveva mai tentato seriamente di sottrarsi: «La catena che m’ero illuso di voler fare a pezzi era più forte di prima».

    Dopo l’episodio della Sonnambula, in cui il veto paterno colpisce la curiosità e poi la golosità del bambino, il caso di Buganza è occasione per verificare l’estendersi del veto alla sessualità dell’adolescente: si tratta sempre di attentati al desiderio del figlio, che non si mostra in grado di sottrarsi a tale regime di tipo castratorio. Nel sogno vero o di fantasia, datato 12 marzo 1970 e raccontato nella diciottesima delle Variazioni, il protagonista si rappresenta dodicenne in un colloquio col padre, che si è stufato di avere un figlio troppo ligio ai doveri e lo invita a reclamare i proprio diritti:

    Quando parlo mi dai ragione, quando ti rimprovero non reagisci. Tu non puoi mai essere in torto, capisci?, perché io ho quaranta anni e tu dodici. Mi spiego meglio: non mi hai mai insultato, la tua pagella piena di ottimi voti non è fatta certo per rallegrarmi. Si direbbe perfino, lo dico con un certo rossore, che tu hai un vero rispetto per me… tuo padre. Dove andremo a finire? Non ho sentito mai dalla tua bocca una parola di protesta. […] Ricordati che chi ti ha messo al mondo non l’ha fatto per sentirsi dire sì papà; ricordati che c’è il prima e il dopo e che il dopo ha sempre ragione. Tu sei il mio dopo, figlio mio, un dopo che deve schiacciarmi, annientarmi. Vedi, sto piangendo. Insultami, figlio, non negare al tuo vecchio padre, indegno di te, questa soddisfazione. Pietà, figlio mio, pietà di me!

    In chiave di palinodia il figlio, che si identifica con il se stesso bambino come se non fossero passati settant’anni da quell’epoca, rovescia uno stato di soggezione che non ha mai cessato di pesare sulla sua vita, mai veramente libero da quell’ombra, o da quella catena che, aiutando la latitanza dell’arciprete, si era illuso di poter fare a pezzi. Domingo, uomo d’altri tempi, era quello che, scrivendo alla fidanzata, non era capace della minima concessione alla tenerezza e quasi la trattava come una cliente di tipo particolare dello ‘scagno’, tanto era severa l’interpretazione della morale vigente nella classe di appartenenza: «Le lettere che mio padre mandava a mia madre da fidanzata così concludevano: ‘Distintamente vi salutiamo’ e sotto il timbro della sua ditta». Dice Marianna della madre: «Non ha mai avuto un’ora di felicità […] Così profondamente sola è sempre stata la mia Mamma […]. Se tu pensi che Papà non si è mai occupato di noi se non per rallegrarsi di qualche nostro trionfo! […] Non è certo tutto ciò che occorreva per la Mamma». E nemmeno per qualcuno dei figli.

    Quanto al padre come vissuto nel fantasmatico dello scrittore è soprattutto la prosa raccolta con il titolo Il pipistrello in Farfalla di Dinard a fornirci generosi quanto divertenti ragguagli. Siamo nella camera da letto di un albergo, nella quale è penetrato un pipistrello, che terrorizza lei che si è rifugiata sotto le coperte, mentre lui cerca di dargli maldestramente la caccia con il rotolo di una rivista, senza risultato, tanto che si decide a chiamare in soccorso il portiere di notte. Sfinito per i vani e reiterati tentativi, lui dice a lei:

    Tu non sai che il pipistrello è l’unica bestia che io ho ucciso. Mi dicevano che era impossibile colpirlo per via del volo irregolare. Basta un pallino a farlo scendere, basta un foro nelle sue ali vischiose. Ma chi ce la fa, chi ce la fa a mettere a segno un pallino? Spararono tutti, due, tre, quattro persone e nessun pipistrello cadde, anzi ne vennero fuori degli altri, più numerosi. Pareva ci prendessero in giro. Poi sparai io, quasi a caso; era la prima volta che tiravo un colpo col calibro dodici. E il pipistrello cadde, sbatté a terra come un fazzoletto mencio, si agitò ancora un poco… e morì.

    Poi il cacciatore di pipistrelli aggiunge:

    E se fosse mio padre ch’è venuto a farmi visita? […] Non so. […] È l’unica bestia che ho ucciso, con qualche mosca e qualche formica, s’intende. L’unica, e mio padre ne fu molto addolorato. Io credo ch’egli torni qualche volta a trovarmi, in un travestimento o nell’altro. «Ci ritroveremo in qualche posto» mi disse il giorno prima di morire. «Sei troppo fesso per tirare avanti da solo. Non ti preoccupare, troverò il modo, ci penserò io». Ma io l’ho quasi dimenticato: solo qualche volta vedendo svolacchiare una di queste bestie, alzo il dito, prendo la mira e paffete. La vedo cadere come uno straccetto. E allora il ricordo di lui…

    La critica mostra di essersi accorta di questa vera e propria métaphore obsédante della caccia, anche se non ha particolarmente approfondito l’argomento. Il biografo ci informa che Montale non vedeva l’ora di raggiungere i diciotto anni per avere il porto d’armi, ma che rinunciò subito alla caccia dopo avere ucciso due merli al volo, raccogliendo l’applauso di alcuni minatori delle cave del Mesco. Prima del porto d’armi il ragazzo usava il flobert con il quale, con meno sensi di colpa, uccideva qualche beccafico da arrostire con una misera anguilla pescata nel botro vicino a casa («rivide il pioppo inclinato vicino alla serra, dove aveva colpito col Flobert il primo uccellino»). Nella Lettera levantina del ’23 vediamo un ragazzo che, «con annosi archibugi», va a

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