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Singolarità e istituzione: Antropologia e politica oltre l'individuo e lo stato
Singolarità e istituzione: Antropologia e politica oltre l'individuo e lo stato
Singolarità e istituzione: Antropologia e politica oltre l'individuo e lo stato
E-book235 pagine2 ore

Singolarità e istituzione: Antropologia e politica oltre l'individuo e lo stato

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L’individuo è un atomo, una monade senza fi nestre, un confi ne con tanto di muri e fi lo spinato; la singolarità è potenza – ovvero desiderio di vita – e intreccio – ovvero combinazione dei desideri secondo i corpi, le tracce o immagini che di questi abbiamo, le idee. L’individuo è un’emergenza, un’isola, lava rappresa; la singolarità è un modo di essere della materia-energia dalla quale la natura tutta costantemente sorge. Gli individui sono sempre giustapposti e in competizione, le singolarità sono sempre in composizione o, al contrario, compresse, avvelenate, infi ne decomposte: i primi pretendono contratti e denaro, sovrani e leggi; le seconde, nel confl itto, mostrano con esempi, usano regole, inventano istituzioni. Il libro, attraverso un confronto serrato con i classici del pensiero politico e della metafi sica, ma anche con la psicoanalisi, la fi losofi a del linguaggio e le scienze sociali, ricostruisce l’alternativa che segna la modernità capitalistica e la lunga crisi del nostro tempo, avanzando alcune proposte per prendere congedo da entrambe.
LinguaItaliano
Data di uscita10 set 2021
ISBN9791280124647
Singolarità e istituzione: Antropologia e politica oltre l'individuo e lo stato
Autore

Francesco Raparelli

Francesco Raparelli ha un assegno di ricerca presso l’Università di Salerno e insegna Filosofi a sociale, in qualità di docente a contratto, presso l’Università di Roma Tre. Autore de La lunghezza dell’Onda (2009) e Rivolta o barbarie (2012), ha anche curato: Istituzioni e diffferenza. Attualità di Ferdinand de Saussure (2014); con il collettivo “C17”, una nuova edizione critica del Manifesto comunista di Marx ed Engels (2018); con Federica Giardini e Federica Castelli, Conf itti. Filosofi a e politica (2020); con Nicolas Martino, L’intelligenza in lotta. Sapere e produzione nel tardocapitalismo (2021). Attivista politico e sindacale, coordina le Camere del Lavoro Autonomo e Precario.

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    Singolarità e istituzione - Francesco Raparelli

    Indice

    Singolarità e istituzioni

    Introduzione

    Nuovo mondo

    1. Le due modernità

    1.1. La grande frattura

    1.2. Essenza singolare

    1.3. Il lavoro del desiderio

    1.4. Mostruosa moltitudine

    1.5. Lavoro vivo e individuo sociale

    1.6. Singolarità ed enunciazione

    2. La singolarità e il suo rovescio

    2.1. 1968

    2.2. Dall’immaginazione al potere al potere dell’immaginazione

    2.3. Desiderio e piacere

    2.4. Splendori e miserie del capitale umano

    2.5. Più liberi, più alienati

    3. Per una politica dei molti

    3.1. «Un po’ di possibile, altrimenti soffoco»

    3.2. Critica e clinica

    3.3. Istituzioni del lavoro vivo

    3.4. Egemonia e rivoluzione molecolare

    3.5. Democrazia sovversiva, federalismo, governance

    3.6. Della gloria

    Riferimenti bibliografici

    Singolarità e istituzioni

    A mia madre e mio padre,

    che negli anni della Comune italiana,

    per la prima volta, si amarono

    Introduzione

    Nuovo mondo

    Nulla pare più indubitabile che il mondo brulichi di individui. Ciascuno diverso e libero. Nel caso degli animali umani, ciascuno dotato di volontà, sovrano sulle proprie passioni, autore delle azioni che compie. Se così non fosse, d’altronde, non ci sarebbero più né peccato né colpa, la punizione non troverebbe soddisfazione. E soprattutto il caos avrebbe la meglio sull’ordine, la guerra sulla pace, la violenza sulla ragione. Nelle pagine che seguono, si afferma che l’individuo non è premessa ontologica dell’umana specie e del suo mondo, ma effetto di una tormentata e sanguinosa formazione storica. Ciò dicendo, quale individuo si intende? Quello isolato che combatte feroce per la sua conservazione; mosso da un desiderio illimitato e insaziabile; ossessionato dal successo e dall’onore; loquace, dunque capace di finzione e disaccordo fratricida; competitivo e diffidente. Con l’espressione nota: homo homini lupus.

    L’individuo in questione, maschio bianco e protagonista di un supposto «stato di natura», è la condizione decisiva affinché una «persona artificiale» prenda il posto della potenza comune delle donne e degli uomini, sottometta i molti imponendo loro obbedienza, cancellando il (naturale) diritto di resistere. Così, nella metà del XVII secolo, il moderno sovrano fa il suo ingresso nel pensiero politico, registrando e innervando un processo che si perfezionerà nei secoli XVIII e XIX, entrando in crisi nel XX – crisi ancora tutt’altro che conclusa. Nelle sue concrete affermazioni, il modello ha conosciuto sin dagli albori non poche varianti, dal liberalismo inglese e scozzese al repubblicanesimo giacobino, pur mantenendo inalterati i tratti di fondo. In primo luogo l’indiscutibile verità che il mondo è fatto di individui, che questi abbiano per natura il diritto alla proprietà, che questa proprietà debba essere dai pubblici poteri difesa, a maggior ragione se essa è il frutto del lavoro; anche se il lavoro, a ben guardare, è appropriazione della terra e degli strumenti, e non ce n’è per tutti. Che sia suddito o cittadino, l’individuo maschio ed europeo è un proprietario.

    È lo stesso individuo che ritroviamo agli albori del modo di produzione capitalistico, nell’Inghilterra del XVI secolo: il borghese, che però è solo una parte della scena. Affinché il denaro si faccia capitale, infatti, al borghese serve una peculiare merce che si chiama forza-lavoro, indistinguibile dal suo portatore, il quale deve presentarsi solo, padrone di sé e senza mezzi di sussistenza, al mercato delle braccia. Non vi è Stato moderno, senza individuo isolato e rissoso, perché non vi è capitalismo senza «lavoratore libero». Libero, perché non più servo della gleba, è un modo per dire povero: senza terra, senza strumenti di lavoro, ovviamente senza denaro. Già col povero siamo di fronte al carattere ambivalente dell’individuo: il povero è infatti uno spossessato, esito dei fenomeni di rapina e privatizzazione delle terre demaniali; ma è pure un «fuggiasco», che non ne vuole più sapere di essere servo. Il pauper, insegna Marx nei suoi Grundrisse, è sia massimamente indigente che «fonte viva (lebendige Quelle) del valore». Vi è dunque sempre un individuo, con il suo corpo, visibile nella sua presenza; e vi è il suo «valore d’uso», inseparabile dall’individuo, che è la sua potenza di esistere e di agire, di lavorare e di produrre. In questo e in altri luoghi, Marx incontra Spinoza, della modernità conquistiamo un’altra traiettoria, alla prima ostile: ogni individuo è un modo singolare dell’infinita potenza produttiva della natura, sapendo che la natura, intesa come materia inquieta e in movimento, si esprime in infiniti modi singolari e lo fa attraverso infiniti attributi, di cui a noi è dato di conoscerne due, l’estensione (i corpi) e il pensiero. Non si tratta di divina creazione ex nihilo, ma di variazione senza fine dell’essere, essendo ogni variazione in primo luogo una singolarità della comune potenza. Ciò vuol dire che non solo l’ente è un che di singolo nella sua accidentale finitezza, ma lo è anche l’essenza, ovvero la natura dell’ente, ossimorica forma anch’essa accidentale. Altrettanto, essendo l’ente espressione della comune potenza, l’essenza è attuale, ovvero in permanente combinazione, variando come variano i rapporti nei quali è implicata. La singolarità è allora desiderio di vivere, di produrre e di agire con altri, l’individuo è il risultato, temporaneo e cangiante, della dinamica relazionale del desiderio; quest’ultimo è singolare e comune al contempo, ovvero singolare perché variazione del comune, comune perché singolarmente e in relazione si esprime.

    Tra Spinoza e Marx, e nel materialismo rivoluzionario dopo di loro, il mondo non brulica più solo di individui: gli individui sono l’effetto delle molteplici singolarità connesse e creative, la moltitudine. «Mostruosa» per i custodi dell’antico regime, essa si impone nella storia con le moderne rivoluzioni. Come bestia feroce va domata, colpita con durezza ma non uccisa: del suo lavoro non si può fare a meno, perché c’è capitalismo se c’è lavoro vivo da sfruttare. Il capitale non è una cosa, ma un rapporto sociale, come tale è storico. Coloro che con la schiena piegata lavorano per il plusvalore, e i profitti di pochi, alzano la testa e vogliono lavorare meno, fuggiaschi dalla schiavitù feudale furono, operai contro il capitale diventano nelle città della grande industria («classe contro classe»); collisioni che divengono coalizioni, coalizioni che conducono la lotta e, intanto, inventano nuove istituzioni. Scioperi generali che si fanno insurrezioni, insurrezioni che si fanno rivoluzioni: per tenere a bada il mostro, nello sprofondamento della Grande Depressione, nella catastrofe delle due guerre mondiali, lo Stato risorge Stato del benessere (Welfare State) a Ovest, socialista a Est. Intanto la scienza diviene sempre più la forza produttiva per eccellenza, e l’individuo, non più isolato e rissoso ma sociale, è ormai il «grande pilastro della produzione e della ricchezza». È allora possibile che la singolarità di ciascuno possa produrre il mondo senza obbedire, la moltitudine goderne dei frutti lavorando meno, conquistando tempo per una vita davvero libera. Non è abbastanza: l’individuo, seppur sociale, ancora imbriglia la singolarità con la sua irriducibile differenza. Nell’anno della rivoluzione mondiale, il 1968, i molti irrompono nella scena in quanto molti: studenti, donne, operai, movimenti anti-coloniali, afroamericani un tempo schiavi, gay e lesbiche, bambini e pazzi ovvero gli altri della Ragione. La politica del desiderio è lotta delle minoranze, la combinazione delle minoranze non pretende più l’unità, il sovrano, ma l’autogoverno. È un nuovo mondo, non più moderno.

    Conquistata la genealogia della singolarità, l’affermazione storica della moltitudine che esaurisce la modernità, occorre però fare i conti con la controrivoluzione, quella dell’epoca infelice che ci tocca in sorte. Nulla si comprende del neoliberalismo, ovvero della lunga reazione capitalistica alla rivoluzione del Sessantotto, se non si coglie il rovesciamento, e dunque la cattura, del desiderio e della differenza dei singoli. Una cattura che è costata non poco: aumenti salariali, fuga americana da Saigon, espansione del welfare, scolarizzazione di massa, diritti civili, accesso generalizzato ai consumi, «cura di sé». Il prezzo è stato alto, la vendetta è ancora in corso. Di certo tanta è stata la repressione, a maggior ragione dove le lotte sono andate avanti per l’intero decennio dei Settanta – è il caso italiano, e non solo. Ma la cattura non ha riguardato soltanto i corpi nella loro estensione, con la carcerazione politica e razziale; una guerra è stata portata avanti sul terreno del desiderio di libertà, favorendo doppi cancerosi e fascisti dello stesso. L’individualismo contemporaneo, quello dell’imprenditore di se stesso e del capitale umano, è il rovescio della singolarità. Ciò vuol dire che non c’è lotta contemporanea che non sia, anche e soprattutto, lotta per una forma di vita alternativa. La lezione del movimento femminista, quella dei movimenti antirazzisti, rivelano il tratto molecolare della repressione neoliberale, nella consapevolezza che la parola è sempre incarnata, che non c’è corpo senza ordine simbolico, ma che non c’è innovazione senza corpi che parlano combattendo, che producono un mondo altro rifiutando il mondo che c’è.

    Il mondo che c’è, quello del capitale transnazionale, della logistica e della Gig Economy, dei servizi a basso valore aggiunto e del lavoro che si fa smart, dello sfruttamento selvaggio di donne e uomini e delle risorse naturali tutte, della ricchezza di pochi e dell’impoverimento di molti, della competizione e delle nuove solitudini, questo mondo noto, pur di non cedere, passa da una crisi all’altra. Un mondo tanto omogeneo che eterogeneo, segnato da una pluralità di tempi storici, con l’arcaico che mette radici nelle metropoli d’Occidente e i grattacieli che affollano quelle un tempo povere. Mondo messo in ginocchio dalla pandemia e dai coronavirus, e dove si progettano vacanze milionarie su Marte. È un mondo impazzito, dove la sofferenza psichica accompagna stabilmente le vite normali, dei lavoretti precari e della disoccupazione che si dà da fare. Ma è anche un mondo nel quale si continua a lottare. Di più, le lotte si sono fatte transnazionali, capaci di agire sia localmente che globalmente, di intersecare le pretese di una vita degna, libera, ostile al patriarcato e al razzismo, finalmente comune. Eppure queste lotte, con la loro straordinaria forza espansiva, faticano a consolidare contropoteri duraturi, un’apertura democratica efficace e costante, un nuovo ordine costituzionale. Ci si divide allora tra chi ritiene indispensabile l’insurrezione, una violenza di massa organizzata e puntuale, e chi, nel solco dell’onda populista, fonda partiti o propone di farne.

    Convinzione di chi scrive è che la potenza espressiva delle singolarità intrecciate, della moltitudine produttiva, porta con sé difficoltà politiche inedite. Proprio perché il general intellect si è trasformato in «forza produttiva immediata», e la comunicazione innerva la produzione di merci quanto la riproduzione sociale – essendo quest’ultima sempre più coincidente con la creazione di valore –, organizzare un altro mondo è a portata di mano quanto maledettamente complesso. Ancora: la complessità ogni giorno fomentata dall’establishment economico e politico, con accelerazioni e shock continui, sollecita paralisi, frammentazione, depressione. Proprio perché il lavoro vivo e la cooperazione sociale sono via via più ricchi, la decisione comune sembra impossibile, le rotture insurrezionali non mettono radici, le istituzioni indipendenti rimangono al margine. E il cervello cede: la stimolazione irrefrenabile dell’ambizione individuale genera, lo insegnava già Machiavelli, «la mala contentezza di quello che si possiede»; l’inflazione semiotica destabilizza, mettendo a dura prova memoria e attenzione; piacere e successo come norme indiscutibili diffondono ansia, panico, dipendenze. Una politica dei molti dovrà in primo luogo combinare sindacalismo sociale e pratica dell’inconscio: non si conquista e diffonde una vita altra, se il lavoro vivo non lotta contro lo sfruttamento, il quale riguarda sia la produzione sia la riproduzione sociale; non si combatte davvero lo sfruttamento, se non si combattono la tristezza e l’invidia, il fascismo in miniatura che ci abita e il patriarcato. La repressione si è fatta molecolare perché la rivoluzione è molecolare, o non è. In secondo luogo, una politica dei molti dovrà rinnovare la critica della scienza, della sua frammentazione positivistica, e fondare università libere. In terzo luogo, sarà suo compito favorire sia la proliferazione di istituzioni autonome che la riappropriazione democratica del welfare. Infine, dovrà rovesciare in termini antagonistici il bidimensionale piano del capitale, che insieme congiunge estensione capillare della rete e «concentrazione di potere senza centralizzazione»; così immaginando un rapporto virtuoso tra democrazia tumultuaria, federalismo senza Stato, «governance costituente».

    Tutto ciò diffusamente, troverete nelle pagine che seguono; nei tre capitoli che articolano il libro e che, dagli albori della modernità, giungono ai giorni nostri. Il metodo è genealogico: dei concetti, si afferra l’emergenza storica, che è sempre polemica, perciò aperta, irrisolta. Le genealogie sono eterogenee, ma tutte ostili al canone – col quale, a più riprese, il confronto è serrato: il materialismo, che scandisce l’alternativa allo sfruttamento capitalistico e al dominio dello Stato-nazione, incrocia la psicoanalisi dislocandola; la psicoanalisi si fa arma della secessione femminista, anche contro la stessa psicoanalisi; il femminismo lavora l’ontologia relazionale e della differenza che destituisce il soggetto sovrano e l’ossessione dell’identità. Nella consapevolezza che il pensiero politico non occulta le lacune, cerca conferma nella prassi, verifica l’eterno nella congiuntura, dell’errore – inevitabile – prova a fare un salto in avanti.

    Il libro che avete tra le mani non esisterebbe senza lo scambio continuo dei concetti e degli affetti, senza la comune «pratica teorica», che da un ventennio più o meno mi legano ad Adalgiso Amendola, Katerina Anastasiou, Ilaria Bussoni, Roberto Ciccarelli, Antonio Conti, Emanuele Dattilo, Giancarlo Davoli, Massimo De Carolis, Alberto De Nicola, Chicco Funaro, Emma Catherine Gainsforth, Federica Giardini, Chiara Giorgi, Dario Gentili, Michael Hardt, Augusto Illuminati, Marco Mazzeo, Christian Marazzi, Rossella Marchini, Nicolas Martino, Sandro Mezzadra, Toni Negri, Franco Piperno, Biagio Quattrocchi, Raissa Raskina, Judith Revel, Tania Rispoli, Paolo Scanga, Anna Simone, Tiziano Trobia, Paolo Virno, Giuliana Visco. Grazie di cuore a tutte/i loro; in particolare a chi ha avuto la pazienza di leggere e commentare la prima stesura del testo: del loro conforto, delle loro critiche, mi sono nutrito. Particolarmente grato sono a Federica Giardini e Massimo De Carolis che, in modo diverso, mi hanno insegnato a prendere filosoficamente sul serio il «sapere dell’esperienza», sollecitando occasioni che temevo perdute. Ebbi modo di condurre una lunga ricerca sulla singolarità, presso l’Università di Firenze, con una filosofa generosa e raffinata che il SARS-CoV-2 ci ha strappato d’improvviso: a Elena Pulcini, il mio caro ricordo. Un ricordo fraterno lo dedico a Francesca Giannini, Antonello Sotgia e Benedetto Vecchi, compagni di strada che troppo presto sono andati via. Sulla singolarità del mio desiderio, con i suoi bassi e i suoi alti, le sofferenze e l’euforia, i giri a vuoto e i guizzi, torno e ritorno grazie a Cristiana Cimino, fonte inesauribile di scoperta etica. A Marco Bascetta, Simona Bonsignori, Stefano Petrucciani, editori e amici, sono grato per la disponibilità e perché resistono. Come lo sono, per la vicinanza affettuosa e il sostegno solidale, a Raffaellina Giannitelli, Luigi ed Enrico Montanelli. Grazie a Vittorio Giannitelli, che è un grande artista, per l’immagine di copertina. Rifugio amicale, nei mesi del «distanziamento sociale», sono state/i Elisa Careri, Serena Orazi, Luisa Izzo, Biagio Q., Cristian e Irene Sica. Alle attiviste e agli attivisti delle Camere del Lavoro Autonomo e Precario, di Esc e di DINAMOpress, luci che brillano nonostante l’epoca, devo una buona parte della bellezza della mia vita. Tanta altra parte di essa la devo alla mia famiglia, in senso lato: un pensiero pieno d’amore a mia sorella Federica; un pensiero infinito a Maria Pescosolido e Italo Di Ruzza, che tutti i giorni mi mancano. A Marina Montanelli, con la quale respiro, devo la mia salvezza; a lei, a Creta, allo studio, alla musica, devo quel poco di eternità che ci è dato di sperimentare in vita.

    1.

    Le due modernità

    1.1. La grande frattura

    Il pensiero politico moderno, quello che prende le mosse dopo la Riforma protestante e nel bel mezzo della Rivoluzione inglese, è da subito diviso. La scissione, contrariamente a quanto solitamente si dice, non riguarda i modelli di governo, ma il modo di concepire la natura umana e, con essa, l’individualità di ciascuno. Ovvio, lo Stato liberale non coincide con l’assolutismo monarchico, la democrazia è alternativa tanto al secondo quanto al primo. Ma nulla si capisce dei contrasti politici senza andare

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