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La saga dei Windsor: Tutta la storia della grande dinastia di Elisabetta II
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E-book255 pagine3 ore

La saga dei Windsor: Tutta la storia della grande dinastia di Elisabetta II

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Nel 1901, alla morte della Regina Vittoria, dopo un regno lungo sessantatré anni, la corona inglese è affidata al primogenito della sovrana, Re Edoardo VII. Ma è il figlio di quest’ultimo, Giorgio V, a siglare nel 1917 quello che oggi chiameremmo un’operazione di rebranding della monarchia britannica. Il nome della casata Sassonia Coburgo Gotha - Wettin, di origine tedesca, viene cambiato: nascono i Windsor. Dall’abdicazione di Edoardo VIII per amore al ruolo di Giorgio VI nella Seconda guerra mondiale, fino all’attuale regno di Elisabetta II, il più longevo dell’intera storia del Regno Unito, il libro ripercorre eventi, protagonisti e sviluppi di un’istituzione che, come un’araba fenice, in oltre sei decadi ha saputo mantenere la sua solidità resistendo a conflitti, tradimenti e rivoluzioni fuori e dentro il Palazzo. Fino alla Brexit, tra scandali che rimbalzano dai tabloid ai social e principi che clamorosamente si distaccano dalla Royal Family.
LinguaItaliano
EditoreDiarkos
Data di uscita2 nov 2020
ISBN9788836160495
La saga dei Windsor: Tutta la storia della grande dinastia di Elisabetta II

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    Anteprima del libro

    La saga dei Windsor - Cristina Penco

    Introduzione

    Reinventarsi per resistere. E assicurare un futuro, possibilmente fulgido e luminoso, a se stessi e alla stirpe. Sembrano concetti quanto mai attuali, in periodi in cui sempre più individui e comunità sono chiamati a lottare per la sopravvivenza. In effetti, mettendo sotto la lente d’ingrandimento l’antica famiglia reale inglese, con oltre mille anni di storia alle spalle, tra pomposi cerimoniali e ridondanti etichette, passeggiate tra la folla e saluti dalle balconate, non si può fare a meno di sorprendersi vedendo che, da decenni, i loro membri devono fare i conti con la modernità. E reggersi su troni talvolta traballanti, appesantiti da corone sovraccariche di gemme preziose e di responsabilità pubbliche. Alla ricerca di un equilibrio tutt’altro che scontato persino per chi, in apparenza, è attorniato da uno stuolo di fidati collaboratori, paggetti e damigelle pronti a soddisfare ogni desiderio di tutte le altezze reali che vagano da un’ala all’altra di Palazzo.

    La casa dei Windsor nasce il 17 luglio 1917, sulla scia di un’operazione di rebranding, di rivitalizzazione del marchio, degna dei più illuminati esperti di marketing contemporanei. Certo, solitamente le dinastie monarchiche appaiono anni luce lontane da vasetti di yogurt con una data di produzione e una di scadenza, ma quest’ultima sorte, in realtà, poteva finire per riguardare anche loro, in base a quello che oggi si direbbe il sentiment popolare. Proprio mentre Sua Maestà Giorgio V – nipote della gloriosa Vittoria e di Alberto di Sassonia Coburgo Gotha-Wettin – si faceva convincere dai suoi fidati collaboratori a cambiare il nome di una famiglia millenaria che condivideva col nemico in guerra l’onomastica, nonché diverse parentele, i suoi cugini coronati, in Germania e in Russia, perdevano il regno, e in certi casi non solo quello. Cosa c’era di meglio che portare l’intera nazione British a identificarsi con la stirpe reale che la reggeva, chiamando i sovrani come il castello della campagna inglese dove sono sepolti i loro più valorosi condottieri, e dove, tutt’oggi, si celebrano battesimi e matrimoni?

    Un’abile strategia comunicativa atta non a vendere un prodotto, né a ottenere consensi di un ipotetico elettorato, data la natura costituzionale della monarchia britannica, ma, sicuramente, a mantenere e consolidare il potere, già scosso dalle insurrezioni nelle strade e dai bombardamenti al fronte e in mezzo ai civili. Tra icone leggendarie, riti secolari e inevitabili scontri con la modernità, i Windsor hanno attraversato e lasciato il segno nel Novecento europeo, senza smettere di appassionare ancora adesso milioni di persone a livello globale che continuano a seguire i reali più amati della Terra, oggi anche in streaming, con pagine social dedicate e meme che impazzano sul web.

    Perché la casa reale inglese, in quanto a popolarità, ha scavalcato da un pezzo le cancellate di Buckingham Palace. Anche i più antimonarchici del Regno Unito difficilmente possono contestare che il famoso marchio royal abbia rappresentato un traino per l’economia dell’isola, andando a creare un indotto annuo, tra turismo, merchandising e altre iniziative di comunicazione, pari a quasi due miliardi di sterline. È vero che le nuove generazioni, come i controversi duchi di Sussex, hanno fatto storcere nasi e protestare diversi contribuenti lungo le rive del Tamigi, con i loro lussi da divi hollywoodiani, peraltro molto distanti dal profilo modesto e parsimonioso della nonna matriarca Elisabetta. Ma sembra più una questione di buon gusto: soprattutto in tempo di crisi e austerità, gli inglesi paiono meno disposti a tollerare i privilegi abitualmente riconosciuti allo status e alla ricchezza.

    Perché, in soldoni, la sovvenzione che ogni cittadino versa alla monarchia sarebbe poco più di una sessantina di pence all’anno. Decisamente affrontabile, soprattutto se si pensa che si tratta dei discendenti di quel re e quella regina, Giorgio VI ed Elizabeth Bowes-Lyon, genitori di Elisabetta II, che durante il secondo conflitto mondiale non hanno battuto la ritirata in Canada, come chiedevano le autorità governative, ma, pur con tutte le protezioni militari del caso, sono rimasti nella reggia anche quando è stata colpita direttamente da un bombardamento. E questo molti che allora c’erano o che l’hanno sentito raccontare dai loro nonni e zii non l’hanno certo dimenticato.

    Scriveva il drammaturgo George Bernard Shaw a inizio del secolo scorso: «L’Inghilterra ha sempre avuto milioni di fruttivendoli per bene, mai un monarca per bene». È vero se si guarda in particolare al ramo Hannover da cui discendono i Windsor che, fatta eccezione per Victoria, la proba e morigerata Nonna d’Europa, ha racchiuso dentro i suoi rami genealogici re fannulloni, figure anonime e sbiadite, genitori sadici e, ancora, dongiovanni incalliti, libertini e crapuloni. Mentre l’eccezione, venuta quasi a confermare la regola, è stata rappresentata da condottieri pii e dediti al dovere, come Giorgio VI, timido e virtuoso, legato al suo nucleo affettivo e capace di andare oltre la balbuzie invalidante per un monarca pur di tenere alto l’umore del suo popolo. E come Elisabetta, la più longeva sovrana britannica e la quarta del mondo per lo stesso primato: lei e il principe consorte Filippo hanno sempre mostrato un certo modo di intendere la Corona come un servizio, ben consci che nessuno dei due avesse fatto nulla per ottenere la posizione privilegiata che la sorte ha fatto occupare loro.

    Perché davvero di fato si può parlare, nel caso dei regnanti: basti pensare che né il padre né la figlia citati erano nati nella porpora, come si diceva nell’antica Bisanzio per indicare l’erede designato al trono, ma entrambi si ritrovarono seduti su di esso per uno scherzoso gioco del destino. «Il segreto della nobiltà è la zoologia» ebbe a dire Karl Marx, facendo riferimento a quella «lotteria della biologia» evidente anche nelle vicissitudini dei Windsor. Paradossalmente uno come il principe Carlo, deputato alla successione e preparato a ciò fin dai suoi primi vagiti, regnerà quando la madre gli cederà il posto, probabilmente entro il 2021, ma per un periodo ben più breve del genitore.

    In oltre un secolo, i Windsor hanno mostrato di saper mutare pelle – di seta e broccati, nel loro caso – rimanendo fedeli a se stessi e ai sudditi. Nel frattempo, la casa reale ha aperto i portoni dorati anche ai divorziati che, solo cinquant’anni fa, erano banditi da corte. E, dall’ottobre 2011, chi sposa una persona di confessione cattolica non viene più escluso dalla successione. Soprattutto, il sesso di un bambino non dà più a lui o ai suoi discendenti nessuna precedenza sugli altri nella linea ereditaria. Ora anche le femmine hanno gli stessi diritti dei primogeniti maschi. Per non parlare del primo matrimonio misto nella Royal Family, avvenuto con il principe Harry e la sua sposa, di origine afroamericana da parte di madre: che non siano stati instaurati buoni rapporti tra lei e il resto dei reali è risaputo, ma è innegabile che, in un momento in cui in Europa si ergevano muri e si sollevavano ponti levatoi per respingere lo straniero, la più medioevale delle istituzioni, come la monarchia, apriva le sue braccia alla discendente di uno schiavo nero della Georgia.

    Con abilità, intelligenza e lungimiranza, Elizabeth II ha saputo tenere uniti i membri della famiglia reale anche di fronte a boati e scossoni, commettendo errori e riconoscendoli. È immediato il ricordo dell’indimenticabile Diana che, nella sua breve ma intensa esistenza, diventata «principessa del popolo, regina dei cuori», ha portato a corte una rivoluzione basata su empatia e sentimenti, tracciando un solco che continuerà inevitabilmente a essere percorso da William. Supportato dalla granitica e sorridente Kate, il suo primogenito si farà prosecutore del lascito materno, all’indomani della sua incoronazione. E che dire della maledizione yankee, che ha fatto tremare il Palazzo con gli innesti americani di Wallis Simpson e, in tempi più recenti, Meghan Markle? Due donne d’oltreoceano, senza una goccia di sangue blu, che hanno sparigliato le carte, favorendo un’irrimediabile divisione tra fratelli che sembravano inseparabili, e che invece, crescendo, hanno mostrato tutta la differenza della loro indole e delle loro inclinazioni.

    «Come tutte le migliori famiglie, abbiamo la nostra quota di eccentricità, di giovani impetuosi e capricciosi e di disaccordi familiari», ha detto un giorno la saggia Queen. Quel che è certo è che, anche in futuro, per essere ancora amati e riveriti come un tempo, i Windsor dovranno mostrarsi sempre vicini ai cittadini comuni, ma farlo meglio, o almeno continuare a dare l’idea di farlo. Diversamente, rischierebbero di perdere ogni riguardo nei propri confronti. In fondo, la monarchia inglese è da sempre avvolta da un’aura magica che va mantenuta attraverso una giusta distanza, ancora una volta «abile a sfuggire allo sguardo del pubblico, ma nello stesso tempo abbastanza presente per rispecchiare i valori del nostro mondo», come ha chiosato Lord Carey of Clifton, arcivescovo di Canterbury dal 1991 al 2002. Perché, se è vero che non è tutto oro quel che luccica, tra i reali più che altrove, c’è un monito inappellabile per chi fa parte di essi, ricordato anche nell’omonima serie di Netflix: «The Crown must always win», «La Corona deve sempre vincere».

    1917.

    Sopravvivere a qualunque costo

    La mattina del 13 giugno 1917 il cielo insolitamente limpido che splendeva su Londra fu sconquassato da un boato. Poco prima di mezzogiorno, quattordici bombardieri tedeschi Gotha, decollati dal Belgio, allora sotto occupazione teutonica, e guidati dal comandante dello squadrone, Hauptmann Ernst Brandenberg, sorvolarono l’Essex e iniziarono a sganciare il loro carico. Numerosi ordigni caddero in rapida successione su vari distretti. Quello che riportò i maggiori danni fu l’East End, a circa 9 chilometri a est di Charing Cross, che fu segnato da un tragico bollettino: lì, in quell’agguato, rimasero uccise 104 persone (su 162 vittime complessive), 154 furono colpite gravemente e 269 ferite in modo più lieve.

    Nella Upper North Street School del quartiere Poplar morirono diciotto studenti, per la maggior parte di età compresa tra quattro e sei anni. Le due insegnanti della classe d’infanzia, al pianterreno, si comportarono come eroine mentre portavano tutti i superstiti fuori dall’edificio, prima di dare una mano a quanti estraevano i corpi dalle macerie.

    Le madri in preda al panico cercavano disperatamente i figlioletti, sperando, in cuor loro, spesso invano, che i pargoli non fossero rimasti coinvolti nell’esplosione. Con una velocità fulminea, per quello che la situazione consentiva, i soccorritori intervennero portando prontamente i cadaveri all’obitorio e i sopravvissuti negli ospedali, affinché ricevessero le prime cure. Il sindaco di Poplar dell’epoca, Will Crooks, espresse il suo cordoglio per tutte quelle creature innocenti spazzate via dall’attentato, il primo che ebbe luogo di giorno, e non di notte. E che, soprattutto, con efferata spietatezza, andò a colpire la fascia infantile della popolazione.

    Circa una settimana dopo, nella capitale inglese, si tennero imponenti esequie. Fu un momento molto triste. Quindici bambini furono sistemati in una fossa comune nel cimitero di East London, mentre tre minori furono sepolti in tombe private. Fratellini e sorelline guardavano quelle piccole bare affranti. Alcuni di loro si rendevano conto che erano dei miracolati, seppur inevitabilmente traumatizzati: si trovavano a scuola al momento del bombardamento. Due anni più tardi, nel giugno 1919, un memoriale nel Poplar Recreation Ground sarebbe stato eretto nel ricordo di una simile tragedia. Quell’episodio esecrabile fu condannato su tutti i giornali. Ma non solo. La stampa non ebbe alcuna esitazione a sottolineare un’evidenza imbarazzante: il nemico, rappresentato dai bombardieri Gotha, atroci infanticidi, portava lo stesso nome dei regnanti sul trono, Sassonia Gotha Coburgo.

    Per la Corona inglese quella scomoda omonimia, comprensibilmente rimarcata e deprecata dai quotidiani, fu come ricevere uno schiaffo in pieno viso. «All’improvviso, la casa reale scoprì di avere lo stemma sbagliato. Doveva cambiare», ha commentato, a tal riguardo, il generale maggiore Alastair Andrew Bernard Reibey Bruce di Crionaich, riservista, giornalista e corrispondente televisivo, che comandava l’unità speciale dell’esercito britannico Media Operations Group, nominato Governatore del Castello di Edimburgo nel 2019. Come avrebbe cercato di rimediare il Palazzo?

    Allo scoppio della Prima guerra mondiale, nell’agosto 1914, sul trono d’Inghilterra sedeva Giorgio V, un sovrano che non aveva nessuna delle qualità che si aspettano o si desiderano da un capopopolo, a maggior ragione in un contesto bellico: era un uomo caratterizzato da un’indole chiusa e conservativa, che oscillava spesso tra atteggiamento prudente e pigra apatia. Come fece notare il suo biografo ufficiale, per vent’anni della sua vita, prima di diventare re, si era dedicato a cacciare fagiani e a collezionare francobolli. Interessi legittimi, non c’è che dire, ma un po’ distanti da come l’immaginario collettivo dipingerebbe idealmente un leader di polso pieno di fascino e carisma. Era una figura piuttosto opaca, Giorgio V: almeno di primo acchito, non ispirava intraprendenza e capacità di muovere le masse. Ma qualche scossa ci fu quando lo scrittore Herbert George Wells descrisse la sua corte come «estranea e insulsa». Pare che quelle parole avessero suscitato un raro moto d’orgoglio nel monarca, che reagì con fermezza: «Sarò pure insulso, ma che io sia dannato se sono un estraneo». In realtà il problema, per lui e la sua stirpe – e ne stava prendendo sempre più coscienza – era drammaticamente quello: rischiavano di essere percepiti come stranieri, strettamente imparentati con i reali tedeschi che, in quei primi decenni del Novecento, erano il nemico pubblico e politico numero uno per la Gran Bretagna. Il filo invisibile, ma tutt’altro che fragile, che continuava a legare i casati dall’una e dall’altra parte della Manica era rappresentato dalla regina Vittoria, regnante dal 1837 al 1901. Il suo fu un lungo impero: 63 anni, 7 mesi e 2 giorni, in totale 23.226 dì. Ancora oggi simbolo indiscusso di un Paese che, alla sua epoca, aveva saputo imporsi come dominatore del mondo.

    La principessa Alexandrina Vittoria di Kent, nota pubblicamente come Vittoria e chiamata Drini dai familiari, nacque il 24 maggio 1819. Era la figlia del principe Edoardo, duca di Kent e Strathearn, quarto figlio del re Giorgio III. Sia il duca che il re vennero a mancare nel 1820. Il primo a causa di una polmonite, otto mesi dopo la nascita della piccola, il secondo dopo essere diventato pazzo e cieco. Vittoria crebbe sotto la supervisione di sua madre, la principessa tedesca Vittoria di Sassonia Coburgo Saalfeld.

    Nonostante occupasse una posizione molto alta nella linea di successione al trono britannico, le venne insegnato solo il tedesco, ma dall’età di tre anni imparò anche l’inglese e, in seguito, italiano, greco antico, latino, francese. Quando la principessa aveva undici anni, lo zio monarca Giorgio IV morì senza lasciare figli, cedendo lo scettro a suo fratello, il duca di Clarence e St. Andrews, passato alla storia come re Guglielmo IV. Dato che anche il nuovo re non aveva prole, Vittoria divenne automaticamente l’erede al trono. A quei tempi non c’erano particolari restrizioni ad avere un infante come testa coronata, tuttavia il Parlamento promulgò il Regency Act 1831 (Atto per la reggenza 1831), in cui si prevedeva che la madre, la duchessa di Kent e Strathearn, sarebbe stata reggente fino alla maggiore età della figlia. Fu così che Vittoria fu incoronata il 28 giugno 1838, diciannovenne, prima regina a prendere residenza a Buckingham Palace. Alla cerimonia accorsero circa 400 mila persone: non esistendo ancora radio e televisione, l’unico modo per essere testimoni di questo importante evento storico era recarsi direttamente nella Capitale.

    Già nel Regno Unito dell’epoca il monarca aveva pochi poteri politici diretti. Se, in ambito privato, Vittoria cercò di influenzare l’esecutivo e di avere voce in capitolo riguardo alla nomina dei suoi esponenti (sotto di lei, tra l’altro, si alternarono una decina di ministri a Downing Street 10, sede del governo britannico), a livello pubblico si impose, grazie alla sua coriacea personalità, come icona nazionale che incarnava il modello di solidi valori della tradizione, quelli in cui si rispecchiava la società di allora, caratterizzata da un forte senso di moralità.

    Vittoria aveva incontrato il marito, il principe Alberto di Sassonia Coburgo Gotha, quando era ancora principessa, a sedici anni. I due erano cugini in primo grado: il padre del consorte reale era fratello della Duchessa di Kent e Strathearn. Lo zio di Vittoria, re Guglielmo IV, disapprovava l’unione, ma le sue obiezioni non dissuasero certo la coppia. Secondo molti studiosi il principe Alberto non sarebbe stato davvero innamorato della giovane, ma desiderava fortemente elevare il suo status. In effetti era un nobile di sangue blu, ma di minore importanza rispetto alla casa reale, e la sua famiglia premeva affinché facesse un buon affare matrimoniale. Soprattutto il re del Belgio spingeva, fin dal 1831, affinché i nipoti andassero all’altare. E fu ciò che fecero; ma alla fine, quelle fedi, frutto di un accordo combinato, sigillarono un patto d’amore vero. Quella di Alberto e Vittoria si tramutò in un’unione fortunata, come rivelarono successivamente le lettere e i diari della regina.

    I due convolarono a nozze il 10 febbraio 1840 nella cappella di St. James Palace, ed ebbero nove figli. Quattro divennero re o sposarono altri sovrani. Venti dei loro quarantadue nipoti si sposarono con altri membri dell’alta aristocrazia così come di gradi inferiori di nobiltà europei, unendoli tra loro. È per questo che Vittoria fu soprannominata «nonna d’Europa». Una nonna rimasta vedova molto presto, in realtà: alla fine del 1861, a quarantadue anni appena, Albert esalò l’ultimo respiro, probabilmente per tifo e tumore ai polmoni.

    Proprio perché il legame tra loro era molto stretto, non potendo più contare sull’adorato consorte Vittoria cadde in balia dello sconforto e si ritirò dalle scene pubbliche. Si scatenò una vera e propria crisi istituzionale («the Great Crisis of Royalty») con l’allora primo ministro Gladstone, costretto a implorare la regina di uscire dall’autoisolamento provocato dal lutto per il bene della monarchia. Solo dopo una lunghissima reclusione volontaria Vittoria tornò a farsi vedere, e tutto rientrò. Imprimendo un’impronta determinante nella seconda metà dell’Ottocento inglese, divenne l’emblema dell’imperialismo della Gran Bretagna, di cui sostenne la politica espansionistica. Nel 1876 fu la prima sovrana a fregiarsi del titolo di Imperatrice d’India, a capo di un territorio che, a quei tempi, comprendeva circa un quarto delle terre emerse, per un totale di quattrocento milioni di abitanti. Guidò il regno più vasto di sempre, ha scritto Niall Ferguson nel suo Empire. E quanta modernità, a dispetto dell’accezione di antica e polverosa pruderie che ha assunto l’aggettivo vittoriano in età contemporanea! Durante quella gloriosa stagione fu inaugurato, nel 1869, il Canale di Suez, fu varata una legge che consentì alle donne di trattenere parte dei propri beni dopo il matrimonio e un’altra che rese obbligatoria la scuola per i bambini dai cinque ai dieci anni. Nel 1853 per i più piccoli fu introdotta la vaccinazione obbligatoria. La Gran Bretagna ripudiò la schiavitù e, passo dopo passo, il movimento femminista delle suffragette divenne sempre più maturo e consapevole. Il 16 agosto 1858 la regina inviò il primo telegramma transatlantico. Sul fronte privato, portò a compimento nove gravidanze, ma non ebbe alcuna esitazione a bollare la maternità come «an unhappy condition», una condizione di infelicità. In una lettera alla figlia maggiore, fresca di nozze, le augurò un po’ di spensieratezza prima di iniziare a darsi al compito della procreazione. Si trattava della primogenita, Vittoria Adelaide, che sarebbe diventata regina di Prussia e imperatrice di Germania, unendosi a Federico III di Germania.

    E così, dopo la morte della regina Vittoria, il 22 gennaio 1901, a lei succedette il suo primo maschio, il principe di Galles Albert Edward (Bertie, per i familiari), doppietta onomastica che, da un lato, omaggiava il padre Albert, il principe consorte, dall’altro intendeva essere un ricordo del nonno materno, Edward, duca di Kent. Nato a Londra il 9 novembre 1841, a soli vent’anni Albert Edward divenne re Edoardo VII. Come suo padre, apparteneva alla casa reale dei Sassonia Coburgo Gotha.

    Frequentò le due grandi università d’Oxford e di Cambridge, ma il suo vero educatore fu il padre che, di granitico temperamento e rigida

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