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I Windsor: La dinastia di Elisabetta II
I Windsor: La dinastia di Elisabetta II
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E-book452 pagine6 ore

I Windsor: La dinastia di Elisabetta II

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Info su questo ebook

È passato più di un secolo da quando Giorgio V dovette attuare una vera e propria operazione di rebranding della monarchia britannica: durante la Prima guerra mondiale, il nome della dinastia Sassonia-Coburgo-Gotha fu cambiato radicalmente. Nacquero i Windsor. Oggi, allo stesso modo, la casata sta affrontando profondi mutamenti, fuori e dentro Palazzo. Gli eredi di Elisabetta II, Carlo e William, si ritrovano a fare i conti con una pesante eredità. E con un’istituzione che deve mostrare di essere al passo coi tempi innovandosi, pur mantenendosi solida. Che futuro attende i Windsor, dopo la morte della più grande monarca del Novecento? Il libro riprende eventi e protagonisti che hanno caratterizzato i settant’anni sul trono di The Queen, tra le tante luci (e qualche ombra) di una Corona che, come un’araba fenice, ha saputo reggere ai contraccolpi delle varie crisi e reinventarsi ciclicamente, rimanendo avvolta in un affascinante alone di regalità e mistero.
LinguaItaliano
EditoreDiarkos
Data di uscita15 nov 2022
ISBN9788836162499
I Windsor: La dinastia di Elisabetta II

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    Anteprima del libro

    I Windsor - Cristina Penco

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    Cristina Penco

    I Windsor

    La dinastia di Elisabetta II

    Alla mia famiglia,

    che, tra i monti e il mare, mi ha dato radici e ali.

    A mio nipote Filippo,

    che ci illumina di gioia immensa.

    Alle affinità elettive,

    che si riconoscono, si rispettano, si scelgono.

    Introduzione.

    Regina per sempre

    Mutare nome e cambiare pelle senza tradire il proprio corredo genetico e culturale, assicurando un futuro, possibilmente fulgido e luminoso, a sé stessi e alla stirpe. È passato oltre un secolo da quando, sulla scia di questo ordine di scuderia, nasceva ufficialmente – a livello onomastico – la dinastia inglese dei Windsor. Fu il frutto di una geniale operazione di rebranding, di rivitalizzazione del marchio e, nello stesso tempo, di affermazione di una nuova identità, secondo un’intuizione degna dei più illuminati esperti di marketing contemporanei.

    A distanza di più di cento anni da allora, la casata reale britannica si trova alle prese con la stessa questione di fondo, in mezzo a transizioni generazionali delicate. E, più in generale, al passo con ciò che i tempi attuali impongono, nel corso di un periodo storico in cui individui e comunità differenti, al di là del sangue blu, sono chiamati a lottare per la sopravvivenza e a trovare nuove forme di vita quotidiana.

    L’8 settembre 2022 si è spenta a Balmoral, in Scozia, nel suo luogo del cuore, la regina Elisabetta II d’Inghilterra. Se ne è andata a novantasei anni, lasciando dietro di sé una grande ondata di affetto popolare e una scia di record. È stata la sovrana più longeva del Regno Unito, rimasta sul trono, fino all’ultimo, per settant’anni e duecentoquattordici giorni. Soltanto Luigi XIV, il Re Sole, tenne lo scettro più a lungo di lei, anche se per poco (settantadue anni e centodieci giorni). «La sua è stata una vita ben vissuta; mia madre è stata una fonte di ispirazione. Ha compiuto sacrifici, in nome del senso del dovere: e io ripeto oggi, solennemente, la promessa che lei fece a suo tempo, quella di essere al vostro servizio fino alla fine della mia esistenza». Lo ha dichiarato, nel suo primo discorso da re alla nazione, il figlio primogenito, diventato Charles III. Il nuovo re ha ringraziato la madre e l’ha affidata idealmente a «voli di angeli in coro» che potessero accompagnarla nel suo ultimo viaggio, dove ha ritrovato Filippo, altro pilastro granitico della monarchia britannica di un tempo, ormai tramontata, e grande amore di Her Majesty.

    Parallelamente al traguardo materno, Carlo è stato l’erede che ha atteso più a lungo il suo momento a livello istituzionale, con la certezza immutabile, fin dalla culla, che il giorno della sua consacrazione, per beffa di quel destino ineluttabile che piomba come una scure sulle teste coronate, avrebbe coinciso anche con un profondo dolore e altrettanto smarrimento: quel D-Day indissolubilmente legato alla scomparsa della madre che deteneva lo scettro. Elisabetta ha così volto per sempre un’importante pagina di storia che ancora evocava il Novecento, ma ha anche dato inizio a un’epoca che prende le mosse sotto l’egida dei suoi insegnamenti concreti e del suo tangibile e inappuntabile esempio di «amore e servizio». Un preludio in cui il neo monarca, come ha annunciato, cercherà di ricalcare le orme del genitore, per quanto abbia in mente un’opera di modernizzazione e trasformazione della Corona britannica di cui andrà a ridisegnare volti e confini, come si vedrà al termine del tuffo nella storia, passata e recente, che vi attende nei prossimi capitoli.

    Per sette decenni Elisabetta, fedele ai suoi principi e devota ai suoi sudditi, ha guidato il Regno Unito e una popolazione di centocinquanta milioni di persone in tutto il mondo, incluse quelle di quattordici Paesi del Commonwealth, tra cui Canada, Australia, Papua Nuova Guinea e Nuova Zelanda. Ha stretto la mano a quindici primi ministri, a partire da Winston Churchill, conferendo l’ultimo incarico alla leader Tory Liz Truss appena due giorni prima di lasciarci. Ha abbracciato due secoli. È vero che, al netto del suo regno, è stata più testimone oculare che protagonista attiva di quelle ere. Tuttavia, fino all’ultimo, ha servito con dedizione e lealtà il suo popolo, secondo quanto aveva annunciato quando era ancora una principessa, nella primavera del 1947, ai microfoni della radio della Bbc. «Più di una promessa: era un impegno personale profondo, che ha definito tutta la sua esistenza», ha commentato ancora Charles III. È stato uno dei tanti lasciti di quella sovrana che aveva scavalcato da tempo le inferriate di Buckingham, con le sue lezioni di leadership, tra pugno di ferro in guanto di velluto e scelte difficili, e con il suo stile unico e inconfondibile. Un modello di serietà irreprensibile con qualche guizzo di sana ironia che le ha fatto conquistare, già in vita, un posto speciale nel firmamento delle icone pop più amate del pianeta.

    Nella sua lunga vita privata e pubblica, Her Majesty ha visto passare per la Casa Bianca quattordici presidenti degli Stati Uniti, da Harry Truman a Joe Biden, e salire al soglio pontificio sette papi: Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II, fino a Benedetto XVI e a Francesco. Ha viaggiato in oltre centoventi Paesi in occasione di più di duecentosettanta visite ufficiali e ha partecipato a centinaia di migliaia di cerimonie.

    Ai giorni nostri, nel mondo, sono rimaste in piedi una quarantina di monarchie. La maggior parte di coloro che oggi siedono sul trono, Windsor inclusi, non ha poteri effettivi sui propri Paesi: in Europa, in particolare, i reali sono figure limitate e controllate dalle istituzioni democratiche. Solo pochi territori, per lo più in Asia e in Africa, sono ancora regimi assoluti che, in alcuni casi, seppur circoscritti, funzionano come vere e proprie dittature. Nell’immaginario collettivo, però, è la Royal Family inglese – una monarchia costituzionale parlamentare – a rappresentare la famiglia reale per eccellenza. E ciò malgrado non sia la più antica: formalmente, infatti, è la casa imperiale giapponese, inaugurata nel 660 a.C. da Jimmu Tenno, a essere considerata la più vetusta monarchia ereditaria a livello globale, almeno per quanto riguarda la continuità della cosiddetta linea di sangue, per discendenza diretta dal fondatore. La nascita della Corona britannica, invece, risale al 1066 d.C., in seguito all’invasione dell’Inghilterra da parte di Guglielmo il Conquistatore, proveniente dalla Normandia, il primo a detenere il titolo di re dell’Inghilterra unificata (che in precedenza era divisa in sette regni distinti; infatti alcuni citano in primis Alfredo il Grande, che regnò dall’871 d.C. all’899 d.C., ma nel solo Wessex). Tuttavia, prima che il duca normanno William The Conqueror, il Conquistatore, piantasse il suo vessillo sulle verdi colline di Windsor, avevano visto la luce i regni di Norvegia (885 d.C.) e Svezia (970 d.C.), di Danimarca (935 d.C.), del Marocco (788 d.C.) e della Cambogia (68 d.C.). La corte britannica non è neppure la più opulenta del globo. Se consideriamo, infatti, una delle ultime classifiche del settore, stilata nel 2022 dalla rivista «Ceo World», al primo posto c’è il re thailandese Maha Vajiralongkorn (noto anche come Rama X dopo la sua incoronazione a Bangkok nel 2016) con un patrimonio di quarantatré miliardi di dollari, seguito dal sultano del Brunei Hassanal Bolkiah (ventotto miliardi di dollari) e Salman Abdulaziz bin Saud dell’Arabia Saudita (diciotto miliardi di dollari). Il primo reale europeo nella classifica dei Paperoni di sangue blu è sesto: Giovanni Adamo II, principe del Liechtenstein (sette miliardi e duecento milioni di dollari). La regina Elisabetta II – discendente diretta di Guglielmo il Conquistatore – si era posizionata ben oltre il decimo posto, con poco più di cinquecento milioni di euro, superata da Alberto di Monaco (un miliardo di euro).

    Eppure i Windsor continuano a essere i reali più conosciuti e seguiti con vivo interesse da ogni parte del creato. Deve esserci qualcosa di più, a intrigare, oltre i pomposi cerimoniali, le ridondanti etichette, le solenni passeggiate tra ali di folla festanti e i saluti con braccio e mano ondeggiante dalle carrozze e dalle balconate. Ma anche al di là del gossip che, ingenerosamente e in modo frettoloso, riduce a beghe parentali di cortile questioni dinastiche e istituzionali ben più rilevanti per quanti ne sono coinvolti direttamente. Che cos’è, pertanto, che ha permesso a una dinastia figlia del Novecento, a capo di una piccola isola europea, di conservare, intatta, la propria forza e la propria riconoscibilità, tra i propri sudditi e all’estero, nonostante i numerosi scossoni e i capovolgimenti epocali nei secoli XX e XXI? La Royal Family non crollò durante la Prima guerra mondiale, quando i cugini coronati, in Germania e in Russia, perdevano il regno e, talvolta, la stessa vita. Grazie al lavoro certosino e alla brillante intuizione di fidati collaboratori di re Giorgio V, nel momento di maggiore crisi quando i rami genealogici conducevano pericolosamente dritti al nemico, il kaiser tedesco, e allo zar sovietico caduto in disgrazia, il Palazzo inglese riuscì a cancellare gli evidenti legami parentali. In che modo? Con un’abile strategia linguistica e semantica, ribattezzando i sovrani come il castello della campagna inglese dove furono sepolti i loro più valorosi condottieri delle origini, e dove, nei secoli, si celebrarono battesimi, matrimoni, funerali, secondo un’usanza tradizionale tuttora osservata. Ma badate: non si trattava solo di un colpo di spugna per cancellare il peso e l’onta di vincoli quanto mai scomodi. Significava, come di fatto accadde, portare l’intera nazione britannica a identificarsi con la stirpe reale che la reggeva. E fondere le due entità in un corpo solo altamente riconoscibile agli occhi degli stranieri. I Windsor non batterono la ritirata durante la Seconda guerra mondiale, nonostante le autorità governative chiedessero a Giorgio VI ed Elizabeth Bowes-Lyon di trasferirsi con le figlie in Canada.

    Seppur con tutte le protezioni militari del caso, messe in sicuro le principessine Elizabeth e Margaret presso l’omonimo castello nella contea di Berkshire, rimasero nella reggia londinese anche quando la costruzione venne colpita direttamente da un bombardamento (e la coppia reale era lì, fortunatamente in un’altra ala del palazzo). Molti, che allora c’erano o che l’hanno sentito raccontare dai loro nonni e zii, tutto questo non l’hanno certo dimenticato. Tennero botta, i Windsor, che rafforzarono il marchio, a cui furono assicurate durata e continuità, con Elisabetta II e Filippo. Il loro fu il matrimonio più longevo tra i sovrani, lungo settantaquattro anni. Un’unione che rimase salda nonostante qualche scossa di assestamento, come leggerete, e che tenne unito il regno durante i grandi cambiamenti sociali e culturali degli anni Sessanta, sotto i colpi del boom economico e del progresso tecnologico. La casata restò in piedi anche tra i Settanta e gli Ottanta, in mezzo a scioperi della fame, attentati terroristici dell’Ira (Irish Republican Army, l’organizzazione militare clandestina nata per liberare l’Irlanda dal dominio inglese) e primi divorzi e scandali in famiglia. Poi arrivarono gli anni Novanta, con nuove crisi e rotture matrimoniali in seno ai tradizionalissimi reali inglesi. A tenere banco fu in particolare il triangolo che infiammò stampa e tv tra l’erede al trono Carlo, la moglie non amata Diana e l’amante di sempre Camilla: un incendio rovinoso a Windsor, fino al tragico epilogo della Spencer, ormai separata dal padre dei suoi figli e isolata da corte. Il divorzio le aveva strappato il titolo di Altezza Reale, ma già all’epoca era diventata principessa del popolo e regina nei cuori delle persone in ogni parte del mondo. La sua morte e le esequie di Stato suscitarono una partecipazione mondiale come mai prima di allora, che non poté lasciare indifferente la sovrana, la quale, successivamente, con il resto della sua famiglia, dovette correre ai ripari in gran fretta per recuperare il consenso perso in precedenza.

    Anni alquanto turbolenti sono stati anche quelli più recenti, gli ultimi del regno elisabettiano, con lo scandalo a luci rosse che travolse il duca di York Andrea, l’abbandono di Harry e Meghan – trasferitisi oltreoceano dopo aver sbattuto il portone dorato delle residenze reali – e la scomparsa del principe consorte Filippo, pilastro granitico della Royal Family. Il tutto tra le conseguenze politiche ed economiche della Brexit e un’emergenza sanitaria che ha causato una crisi globale senza precedenti, aggravata ulteriormente dall’esplosione del conflitto russo-ucraino. Episodi che hanno segnato la storia moderna della monarchia e di molti altri Paesi.

    Con abilità, intelligenza e lungimiranza, Elisabetta II ha saputo tenere uniti i membri della famiglia reale anche di fronte a boati e scossoni, riconoscendo gli errori commessi, quando doveroso, e facendo un passo indietro, se necessario per il bene della famiglia-monarchia. Tagliato anche il traguardo esclusivo del Giubileo di Platino, la regina d’Inghilterra, durante la pandemia, si è dimostrata per l’ennesima volta una voce seria e autorevole, un volto rassicurante della speranza e dell’ottimismo, non esclusivamente per i suoi sudditi. Solo una personalità dotata di una forte tempra e profondamente dedita al suo ruolo, portato avanti letteralmente fino all’ultimo giorno con senso del decoro, dignità e riserbo, può resistere più di settant’anni tra la stima e l’ammirazione planetaria su un trono che, nel complesso, dura ininterrottamente da dieci secoli. Aveva solo venticinque anni quando, nel 1952, alla morte del padre, si ritrovò a capo del Regno Unito e dei Paesi del Commonwealth. All’epoca, le donne avevano un ruolo fondamentalmente in ambito domestico, accanto ai fornelli. Figuriamoci, invece, nelle questioni di Stato, dove Elisabetta, nonostante l’età e il fatto di non essere nata nella porpora, arrivata al trono non per diritto di nascita ma per volere della sorte, seppe come farsi strada imparando a imporsi e a farsi rispettare in un mondo dominato da uomini. Nel 1998, a Balmoral, non esitò a guidare la sua Land Rover con a bordo uno scioccato Abdullah, allora principe dell’Arabia Saudita, ben sapendo che in quel Paese alle donne non era permesso guidare. Fu baluardo della tradizione, ma, in certe circostanze, abbracciò anche l’innovazione. È stata la prima monarca a inviare una mail, nel 1976, tra due basi militari e durante il lockdown, aiutata dalla principessa Anna, ha onorato impegni istituzionali con collegamenti su piattaforme virtuali. Con lei la casa reale inglese ha aperto la successione ai divorziati, con Carlo e Camilla, alle figlie femmine – attraverso il Crown Act del 2013, per i nati dopo il 28 ottobre 2011 – e a coloro che sposano una persona di confessione cattolica (sebbene la conversione all’anglicanesimo resti fortemente consigliata). Elisabetta, inoltre, ha dato il benestare al primo matrimonio misto nella storia dei Windsor: al di là delle pieghe incresciose che, successivamente, presero i fatti, è innegabile che, in un momento in cui in Europa si ergevano muri e si sollevavano ponti levatoi per respingere lo straniero, la monarchia, la più medioevale delle istituzioni, apriva le sue braccia a un’americana con una carriera da attrice di Hollywood e un ex marito alle spalle, nonché discendente di uno schiavo nero della Georgia da parte di madre.

    Una leader, un capo di Stato e governatore supremo della Chiesa anglicana: Elizabeth II è stata questo e, al contempo, si è mostrata straordinaria nella sua normalità, in grado di passare con estrema naturalezza e savoir-faire da cene di gala coi più potenti della Terra, tagli di nastri e cerimonie commemorative fino alla brughiera fangosa e alle stalle delle sue tenute di campagna. Forse era davvero in pace, seppur per brevi momenti, solo a spasso con i suoi adorati Corgi e i suoi cavalli.

    Come sottolineò il poeta laureato Ted Hughes per i quarant’anni di regno di Elisabetta, la maggior parte delle persone attualmente al mondo sono nate e cresciute abituandosi alla sua presenza costante e, in qualche modo, ciascuno ha proiettato su di lei l’immagine di una madre, di una moglie, di un ferreo amministratore delegato o, ancora, allargando il discorso al resto della sua ingombrante famiglia, a pezzi della propria vita e dei propri rapporti. Chi vive così a lungo sulla scena popolare non può che entrare a pieno titolo nel panorama culturale interiore e collettivo. La conoscevamo tutti, eppure, intimamente – al netto, forse, del principe Filippo e delle dame di compagnia più strette – quasi nessuno ha mai potuto non solo scrutare l’imperscrutabile del suo animo, ma neppure coglierne lontanamente qualche bagliore. Ma proprio qui risiede la magia della maestà. Scrisse, significativamente, il filosofo Roger Scruton: «Il monarca è sacro e misterioso, ma si sa che la sacralità e il mistero sono attaccati a una maschera, dietro la quale un altro inglese ordinario e riservato si è ritirato». Nell’estate 2022, con la sua nazione in ginocchio tra aumento esponenziale del costo della vita, cinque milioni di famiglie sotto la soglia della povertà e una crisi governativa, Her Majesty invitò all’austerity funzionari e servitù a Palazzo evitando gli sprechi, sempre da lei aborriti, e fece riaprire antichi bauli mettendosi a rammendare lei stessa vecchi abiti e capi.

    Come confessò all’arcivescovo di Canterbury, George Carey, parlando di un eventuale ritiro: «È una cosa che non posso fare. Ho intenzione di proseguire fino alla fine». È esattamente quello che ha fatto. In un mondo allo sbando, in balia di tempi cupi dominati dalla paura e dall’incertezza, The Queen, con la sua presenza e l’esempio concreto, ha onorato la parola data finché salute ed energie l’hanno sostenuta. Fino all’ultima apertura della red box, la valigia in pelle rossa dove sono contenuti documenti e atti ufficiali che il monarca deve visionare e firmare. Fino all’ultimo morso a uno dei suoi amati sandwich alla marmellata. Fino all’ultimo sorso di Earl Grey.

    Her Majesty ha terminato il suo servizio reale chiudendo il cerchio che si era prefissata di disegnare in modo compiuto. E ha inaugurato un nuovo corso della monarchia. Ora, nel Regno Unito, la musica è cambiata: un inno diverso celebra e identifica la terra d’Albione. Addio a God Save the Queen. Thank you, Ma’am. Avanti con God Save The King. Lunga vita al re.

    Capitolo I.

    Alla ricerca di una nuova identità

    La mattina del 13 giugno 1917, il cielo insolitamente limpido che splendeva su Londra fu sconquassato da un boato. Poco prima di mezzogiorno, quattordici bombardieri tedeschi Gotha, decollati dal Belgio, allora sotto occupazione teutonica, e guidati dal comandante dello squadrone, Hauptmann Ernst Brandenberg, sorvolarono l’Essex e iniziarono a sganciare il loro carico. Numerosi ordigni caddero in rapida successione su vari distretti. Quello che riportò i maggiori danni fu l’East End, a circa nove chilometri a est di Charing Cross, che fu segnato da un tragico bollettino: lì, in quell’agguato, rimasero uccise 104 persone (su 162 vittime complessive), 154 furono colpite gravemente e 269 ferite in modo più lieve.

    Nella Upper North Street School del quartiere Poplar morirono diciotto studenti, per la maggior parte di età compresa tra quattro e sei anni. Le due insegnanti della classe d’infanzia, al pianterreno, si comportarono come eroine mentre portavano tutti i superstiti fuori dall’edificio, prima di dare una mano a quanti estraevano i corpi dalle macerie.

    Le madri, in preda al panico, cercavano disperatamente i figlioletti, sperando, in cuor loro, spesso invano, che i pargoli non fossero rimasti coinvolti nell’esplosione. Con una velocità fulminea, per quello che la situazione consentiva, i soccorritori intervennero portando prontamente i cadaveri all’obitorio e i sopravvissuti negli ospedali, affinché ricevessero le prime cure. Il sindaco di Poplar dell’epoca, Will Crooks, espresse il suo cordoglio per tutte quelle creature innocenti spazzate via dall’attentato, il primo che ebbe luogo di giorno, e non di notte. E che, soprattutto, con efferata spietatezza, andò a colpire la fascia infantile della popolazione.

    Circa una settimana dopo, nella capitale inglese, si tennero imponenti esequie. Fu un momento molto triste. Quindici bambini furono sistemati in una fossa comune nel cimitero di East London, mentre tre minori furono sepolti in tombe private. Fratellini e sorelline guardavano quelle piccole bare affranti. Alcuni di loro si rendevano conto che erano dei miracolati, seppur inevitabilmente traumatizzati: si trovavano a scuola al momento del bombardamento. Due anni più tardi, nel giugno 1919, un memoriale nel Poplar Recreation Ground sarebbe stato eretto nel ricordo di una simile tragedia. Quell’episodio esecrabile fu condannato su tutti i giornali. Ma non solo. La stampa non ebbe alcuna esitazione a sottolineare un’evidenza imbarazzante: il nemico, rappresentato dai bombardieri Gotha, atroci infanticidi, portava lo stesso nome dei regnanti sul trono, Sassonia Coburgo Gotha.

    Per la Corona inglese quella scomoda omonimia, comprensibilmente rimarcata e deprecata dai quotidiani, fu come ricevere uno schiaffo in pieno viso. «All’improvviso, la casa reale scoprì di avere lo stemma sbagliato. Doveva cambiare», ha commentato, a tal riguardo, il generale maggiore Alastair Andrew Bernard Reibey Bruce di Crionaich, riservista, giornalista e corrispondente televisivo, che comandava l’unità speciale dell’esercito britannico Media Operations Group, nominato Governatore del Castello di Edimburgo nel 2019. Come avrebbe cercato di rimediare il Palazzo?

    L’eredità di Victoria

    Allo scoppio della Prima guerra mondiale, nell’agosto 1914, sul trono d’Inghilterra sedeva Giorgio V, un sovrano che non aveva nessuna delle qualità che si aspettano o si desiderano da un capopopolo, a maggior ragione in un contesto bellico: era un uomo caratterizzato da un’indole chiusa e conservativa, che oscillava spesso tra atteggiamento prudente e pigra apatia. Come fece notare il suo biografo ufficiale, in vent’anni della sua vita, prima di diventare re, si era dedicato a cacciare fagiani e a collezionare francobolli. Interessi legittimi, non c’è che dire, ma un po’ distanti da come l’immaginario collettivo dipingerebbe idealmente un leader di polso pieno di fascino e carisma. Era una figura piuttosto opaca, quella di Giorgio V: almeno di primo acchito, non ispirava intraprendenza e capacità di muovere le masse. Ma qualche scossa ci fu quando lo scrittore Herbert George Wells descrisse la sua corte come «estranea e insulsa». Pare che quelle parole avessero suscitato un raro moto d’orgoglio nel monarca, che reagì con fermezza: «Sarò pure insulso, ma che io sia dannato se sono un estraneo». In realtà il problema, per lui e la sua stirpe – e ne stava prendendo sempre più coscienza – era drammaticamente quello: rischiavano di essere percepiti come stranieri, strettamente imparentati con i reali tedeschi che, in quei primi decenni del Novecento, erano il nemico pubblico e politico numero uno per la Gran Bretagna. Il filo invisibile, ma tutt’altro che fragile, che continuava a legare i casati dall’una e dall’altra parte della Manica, era rappresentato dalla regina Vittoria, regnante dal 1837 al 1901. Il suo fu un lungo impero: sessantatré anni, sette mesi e due giorni, in totale 23.226 dì. Ancora oggi simbolo indiscusso di un Paese che, alla sua epoca, aveva saputo imporsi come dominatore del mondo.

    La principessa Alexandrina Victoria di Kent, nota pubblicamente come Vittoria e chiamata Drini dai familiari, nacque il 24 maggio 1819. Era la figlia del principe Edoardo, duca di Kent e Strathearn, quarto figlio del re Giorgio III. Sia il duca che il re vennero a mancare nel 1820. Il primo a causa di una polmonite, otto mesi dopo la nascita della piccola, il secondo dopo essere diventato pazzo e cieco. Vittoria crebbe sotto la supervisione di sua madre, la principessa tedesca Vittoria di Sassonia Coburgo Saalfeld (il feudo di Saalfeld, nel 1826, fu ceduto ai Sassonia-Meiningen, mentre il duca Ernesto, zio della futura sovrana e padre del suo futuro marito, divenne Ernesto I e ricevette il ducato Sassonia-Gotha).

    Nonostante occupasse una posizione molto alta nella linea di successione al trono britannico, le venne insegnato solo il tedesco. Dall’età di tre anni imparò anche l’inglese e, in seguito, italiano, greco antico, latino e francese. Quando la principessa aveva undici anni, lo zio monarca Giorgio IV morì senza lasciare figli, cedendo lo scettro a suo fratello, il duca di Clarence e St Andrews, passato alla storia come Guglielmo IV. Dato che anche il nuovo re non aveva prole, Vittoria divenne automaticamente l’erede al trono. A quei tempi non c’erano particolari restrizioni ad avere un infante come testa coronata, tuttavia il Parlamento promulgò il Regency Act 1831 (Atto per la reggenza 1831), in cui si prevedeva che la madre, la duchessa di Kent e Strathearn, sarebbe stata reggente fino alla maggiore età della figlia. Fu così che Vittoria venne incoronata il 28 giugno 1838, diciannovenne, prima regina a prendere residenza a Buckingham Palace.

    Alla cerimonia accorsero circa 400 mila persone: non esistendo ancora radio e televisione, l’unico modo per essere testimoni di questo importante evento storico era recarsi direttamente nella capitale.

    Già nel Regno Unito dell’epoca, il monarca aveva pochi poteri politici diretti. Se, in ambito privato, Vittoria cercò di influenzare l’esecutivo e di avere voce in capitolo riguardo alla nomina dei suoi esponenti (sotto di lei, tra l’altro, si alternarono una decina di ministri a Downing Street 10, sede del governo britannico), a livello pubblico si impose, grazie alla sua coriacea personalità, come icona nazionale che incarnava il modello di solidi valori della tradizione, quelli in cui si rispecchiava la società di allora, caratterizzata da un forte senso di moralità.

    Vittoria aveva incontrato il marito, il principe Alberto di Sassonia Coburgo Gotha, quando era ancora principessa, a sedici anni. I due erano cugini in primo grado: il padre del consorte reale era fratello della Duchessa di Kent e Strathearn. Lo zio di Vittoria, re Guglielmo IV, disapprovava l’unione, ma le sue obiezioni non dissuasero certo la coppia. Secondo molti studiosi, il principe Alberto non sarebbe stato davvero innamorato della giovane, ma desiderava fortemente elevare il suo status. In effetti era un nobile di sangue blu, ma di minore importanza rispetto alla casa reale, e la sua famiglia premeva affinché facesse un buon affare matrimoniale. Soprattutto il re del Belgio spingeva, fin dal 1831, affinché i nipoti andassero all’altare. E fu ciò che fecero; ma alla fine, quelle fedi, frutto di un accordo combinato, sigillarono un patto d’amore vero. Quella di Alberto e Vittoria si tramutò in un’unione fortunata, come rivelarono successivamente le lettere e i diari della regina.

    I due convolarono a nozze il 10 febbraio 1840 nella cappella di St James Palace, ed ebbero nove figli. Quattro divennero re o sposarono altri sovrani. Venti dei loro quarantadue nipoti si sposarono con altri membri europei dell’alta aristocrazia – così come di gradi inferiori di nobiltà – unendoli tra loro. È per questo che Vittoria fu soprannominata nonna d’Europa. Una nonna rimasta vedova molto presto, in realtà: alla fine del 1861, a quarantadue anni appena, Albert esalò l’ultimo respiro, probabilmente per tifo e tumore ai polmoni.

    Proprio perché il legame tra loro era molto stretto, non potendo più contare sull’adorato consorte, Vittoria cadde in balia dello sconforto e si ritirò dalle scene pubbliche. Si scatenò una vera e propria crisi istituzionale ("the Great Crisis of Royalty") con l’allora primo ministro Gladstone, costretto a implorare la regina di uscire dall’autoisolamento provocato dal lutto per il bene della monarchia. Solo dopo una lunghissima reclusione volontaria, Vittoria tornò a farsi vedere, e tutto rientrò. Imprimendo un’impronta determinante nella seconda metà dell’Ottocento inglese, divenne l’emblema dell’imperialismo della Gran Bretagna, di cui sostenne la politica espansionistica. Nel 1876 fu la prima sovrana a fregiarsi del titolo di Imperatrice d’India, a capo di un territorio che, a quei tempi, comprendeva circa un quarto delle terre emerse, per un totale di quattrocento milioni di abitanti. Guidò il regno più vasto di sempre, ha scritto Niall Ferguson nel suo Empire. E quanta modernità, a dispetto dell’accezione di antica e polverosa pruderie che ha assunto l’aggettivo vittoriano in età contemporanea. Durante quella gloriosa stagione fu inaugurato, nel 1869, il Canale di Suez, fu varata una legge che consentì alle donne di trattenere parte dei propri beni dopo il matrimonio e un’altra che rese obbligatoria la scuola per i bambini dai cinque ai dieci anni. Nel 1853, per i più piccoli fu introdotta la vaccinazione obbligatoria. La Gran Bretagna ripudiò la schiavitù e, passo dopo passo, il movimento femminista delle suffragette divenne sempre più maturo e consapevole. Il 16 agosto 1858, la regina inviò il primo telegramma transatlantico. Sul fronte privato, portò a compimento nove gravidanze, ma non ebbe alcuna esitazione a bollare la maternità come «an unhappy condition» e «the shadow side of life», una condizione di infelicità e il lato oscuro della vita. Detestava le conseguenze fisiche, paragonandosi a un cane o a una mucca, ma soffriva anche per le ricadute psicologiche, probabilmente vivendo quello che oggi viene definito "baby blues", uno stato di depressione post-partum.

    In una lettera alla figlia maggiore, fresca di nozze, le augurò un po’ di spensieratezza prima di iniziare a darsi al compito della procreazione. Si trattava della primogenita, Vittoria Adelaide, che sarebbe diventata regina di Prussia e imperatrice di Germania, unendosi a Federico III di Germania.

    E così, dopo la morte della regina Vittoria, il 22 gennaio 1901, a lei succedette il suo primo maschio, il principe di Galles Albert Edward (Bertie per i familiari), doppietta onomastica che, da un lato, omaggiava il padre Albert, il principe consorte, dall’altro intendeva essere un ricordo del nonno materno, Edward, duca di Kent. Nato a Londra il 9 novembre 1841, a soli vent’anni Albert Edward divenne re Edoardo VII. Come suo nonno paterno, Ernesto I, apparteneva alla casa reale dei Sassonia Coburgo Gotha.

    Frequentò le due grandi università di Oxford e di Cambridge, ma il suo vero educatore fu proprio il genitore che, di granitico temperamento e rigida coscienza, sovrintese alla formazione morale e intellettuale del figlio e controllò minuziosamente gli studi teorici e pratici a cui tentava di sfuggire Bertie, ma che gli furono molto utili sessant’anni dopo, quando assunse la Corona. Scavezzacollo e donnaiolo secondo la vulgata comune, Bertie pagava lo scotto di una reputazione non proprio eccelsa che aveva fatto dubitare delle sue capacità, soprattutto le vecchie guardie conservatrici. Gli va dato atto che si era ritrovato tra le mani uno scettro bollente. Agli inizi del XX secolo si andava concludendo la lunga guerra boera che, grazie all’abilità di lord Kitchener, si chiuse a favore della Gran Bretagna con la pace di Pretoria, datata 31 maggio 1902. Il fatto era che, a una sovrana più che ottuagenaria, di indole moderna, ma indubbiamente arroccata ai capisaldi della tradizionalissima aristocrazia British, era succeduto un principe assiduo frequentatore di corse e altri sport nonché apprezzato arbiter elegantiarum di circoli mondani inglesi ed esteri. Gli si era spesso rimproverato di essere poco selettivo, pur di ottenere compiacenza e apprezzamento intorno a sé; eppure, malgrado gli inizi traballanti, fin dai primi mesi del suo regno si rivelò all’altezza della sua missione, conquistandosi rapidamente l’animo di una nazione prima scettica, poi entusiasta.

    Nella sua breve reggenza di nove anni lasciò un segno personale che non era stato dato prima di lui da alcun sovrano inglese dopo Guglielmo III. Rispetto alla madre, che in diverse occasioni non nascose le sue simpatie per i partiti al potere, Edoardo VII si mostrò più equidistante. Il campo in cui eccelse maggiormente fu quello della politica estera. Per le sue capacità diplomatiche e per un atteggiamento che non assunse mai caratteri aggressivi, fu chiamato "Peacemaker, il Pacificatore. Per le sue parentele con diversi monarchi del Vecchio continente risultava zio (naturale o acquisito) dello zar Nicola II di Russia, del kaiser Guglielmo II di Germania e di re Alfonso XIII di Spagna – fu soprannominato Uncle of Europe", lo zio d’Europa.

    Edoardo VII morì a Buckingham Palace il 6 maggio 1910. Dal matrimonio con la principessa Alessandra, figlia di Cristiano IX di Danimarca, avvenuto nel 1863 quando era ancora principe di Galles, erano nati cinque figli: Alberto Vittorio, George, Luisa, Vittoria e Maud. Come figlio minore dell’erede al trono Giorgio non nutriva

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