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Blood
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E-book580 pagine8 ore

Blood

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Info su questo ebook

Jack Vaughan, figlio illegittimo di Sir Thomas Vaughan, viene inviato da lui in Spagna a custodire un prezioso segreto di cui non conosce l’entità. Nel frattempo il padre è arrestato e fatto giustiziare da Riccardo, conte di Gloucester, che reclama il trono d’Inghilterra. Jack decide così di ritornare in patria, portando con sé il tesoro che qualcuno sta tentando di rubargli. Giunto al villaggio natio, scopre che sua madre è stata uccisa brutalmente da dei misteriosi sicari e che Edoardo, il legittimo erede al trono, è tenuto ostaggio dall’usurpatore; non gli rimane quindi che allearsi con gli oppositori che tramano alle spalle del tiranno e imbarcarsi in una missione per liberare il principino. Intanto, le incessanti lotte per il trono d’Inghilterra, coinvolgono anche Harry, il fratellastro che Jack non ha mai incontrato.
LinguaItaliano
Data di uscita30 giu 2017
ISBN9788863937152
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    Anteprima del libro

    Blood - Robyn Young

    1

    Vennero a prenderlo all’alba, cavalcando veloci lungo la strada romana. I pomoli delle spade rifulgevano nella luce dorata del sole nascente, e le lame curve delle scuri avvampavano al suo fuoco. I mantelli macchiati di fango ondeggiavano nel vento, lasciando intravedere le voluminose brigantine dei soldati. Gli uomini spronavano i cavalli selvaggiamente, i muscoli tesi e affaticati dalla corsa inesorabile, i palmi ricoperti di vesciche nonostante la protezione dei guanti di pelle. L’aria umida e fredda trasformava il fiato dei cavalli in bianchi pennacchi di fumo, che si levavano nell’aria attraverso le narici guizzanti. Gli zoccoli impetuosi frantumavano le chiazze di brina che screziavano la strada.

    Nessun vessillo né livrea identificava il gruppo. L’anonimato era un alleato prezioso quanto la rapidità, in quel mattino di aprile. Là dove Watling Street interrompeva il suo corso rettilineo per incontrare il Great Ouse, l’ultima delle sentinelle che li aveva preceduti per mettere a tacere qualsiasi voce sul loro arrivo si unì alla compagnia e, insieme, i cavalieri sciamarono verso il piccolo villaggio di Stony Stratford. Verso l’obiettivo della loro frenetica corsa: il ragazzino che era diventato re.

    Thomas Vaughan aprì la porta della locanda, riparandosi gli occhi dalla luce dorata del mattino. Era giorno di mercato e la strada all’esterno della Rosa e la Corona era molto trafficata. Unendosi alla calca, si incamminò lungo la via. Era ancora presto ma il sole primaverile, che risplendeva fulgido sulle bianche mura degli edifici, prometteva una giornata calda. La sua luminosità si rifletteva sui volti dei mercanti, occupati ad attirare l’attenzione dei passanti. Molti di coloro che affollavano la strada erano già in piedi da varie ore, nelle botteghe o nei campi, e, affamati, erano ora alla ricerca di un pasto, attirati dal profumo dei piselli con la sugna e dai calderoni di carne stufata e orzo.

    Mentre si muoveva tra la folla, Vaughan percepì molti sguardi volgersi verso di lui, insieme alle grida alte e speranzose dei mercanti. Sebbene la calzamaglia e gli stivali fossero macchiati di sudore di cavallo dopo la galoppata da Ludlow e i vestiti che indossava fossero semplici abiti da viaggio più che capi eleganti, il copricapo ornato di piume, il farsetto e il mantello di broccato non lo facevano passare inosservato tra tutti quegli uomini e quelle donne con i loro grigi abiti da lavoro. Nonostante le attenzioni indesiderate, era piacevole trovarsi all’aria aperta e camminare. Il sonno l’aveva abbandonato già molto prima dell’alba, e l’agitazione che si era impossessata di lui era solo cresciuta con il lento trascorrere delle ore.

    Era difficile individuare con precisione l’esatta ragione della sua irrequietezza. Le notizie giunte da Londra dopo la morte improvvisa del re – voci di litigi e scenate tra la regina vedova, Elisabetta Woodville, e gli alleati di suo cognato, il duca di Gloucester, riguardo ai preparativi per l’incoronazione – non erano certo gradite, ma neppure inaspettate. Erano tempi difficili, e il fuoco dell’incertezza accendeva gli animi. Forse, a turbarlo era stata l’ostinata insistenza da parte di Gloucester per unirsi alla compagnia che doveva scortare suo nipote a Londra. O forse, rifletté Vaughan, vedeva minacce lì dove c’erano solo ombre. D’altronde, dopo tutto ciò che era accaduto l’anno precedente – circostanze che lo avevano obbligato a guardarsi continuamente alle spalle, nel timore di una lama piantata nella schiena – non era poi così strano che la sua natura fosse divenuta più sospettosa.

    Del resto, la prudenza era spesso un’alleata migliore dell’avventatezza; una lezione che Vaughan aveva imparato bene nei suoi sessantatré anni di vita; per tale motivo, quando, il giorno prima, Gloucester aveva invitato il loro gruppo a cenare con lui a Northampton, era stato deciso che Antonio Woodville, conte di Rivers, sarebbe andato da solo, per accertarsi delle intenzioni del duca prima di unire i due gruppi per il viaggio a Londra. Rivers, zio e custode del nuovo re, era partito nel tardo pomeriggio per coprire i trenta chilometri verso nord. Alcuni dei suoi uomini lo avevano accompagnato, mentre il resto della scorta reale si era sparpagliata nei villaggi vicini, alla ricerca di un alloggio per la notte. Il giovane Edoardo era rimasto a Stony Stratford, insieme a un gruppetto di guardie e servitori, al fratellastro Richard Grey e a Vaughan, il suo ciambellano.

    Più avanti, a un incrocio dove i banchi di vendita e la folla si diradavano, la strada era dominata dal monumento in onore della regina Eleonora. Le pallide pietre degli archi gotici che circondavano la statua della regina da lungo defunta sembravano incandescenti nella luce del sole. Sulla croce che la sormontava, era appollaiata una gazza. C’erano dodici monumenti come quello sulla strada da Lincoln a Londra, eretti due secoli prima da re Edoardo i per contrassegnare i luoghi in cui il corpo di sua moglie aveva riposato lungo la strada verso la sepoltura. Superando il monumento, Vaughan si diresse verso il Great Ouse, che si snodava serpentino attraverso i campi, quasi circondando il villaggio.

    Qui, il chiacchiericcio del mercato svanì nel canto degli uccelli e nella brezza che scuoteva gli alberi di quercia. Poco più in là, un ponte si inarcava sul fiume e, su di esso, sostava un carro. Il conducente era smontato e stava parlando con gli uomini che presidiavano la dogana. Il debole tintinnio di una briglia risuonò nell’aria mentre uno dei cavalli da soma attaccati al carro scuoteva la testa. Al di là del ponte, la Watling Street continuava verso nord, scomparendo nella soffice foschia di un bosco. Vaughan si fermò, scrutando gli alberi lontani. L’oste della Rosa e la Corona aveva fatto molte domande sul giovane dai capelli dorati che stavano accompagnando, e il villaggio era in fermento per le voci su un ospite di sangue reale. Dovevano partire per la capitale il prima possibile. E non solo per la protezione che offriva. Il trono d’Inghilterra era vuoto da tre settimane ormai, e Vaughan sapeva fin troppo bene con quanta facilità l’ambizione degli uomini potesse infiammarsi.

    Voltando la schiena alla strada deserta, tornò indietro. Doveva essere paziente. Avrebbero presto raggiunto Londra. Il ragazzo sarebbe stato incoronato re a Westminster, e il grande lavoro a cui Vaughan si era dedicato negli ultimi dieci anni, sacrificando molto altro, sarebbe finalmente giunto a compimento. Mentre il monumento di pietra appariva in lontananza, Vaughan ripensò all’uomo che l’aveva eretto, nei giorni in cui la casata dei Plantageneti era stata forte e unita. Negli anni a seguire, la linea di sangue di quel re si era divisa e ramificata, deviando il suo corso attraverso i discendenti di Giovanni di Gand, fino a fluire in un altro aitante re guerriero di nome Edoardo, il quarto di quella stirpe.

    Per quasi vent’anni, Vaughan aveva visto le due grandi casate di Lancaster e York – due rami rivali della dinastia dei Plantageneti, ognuna con figli destinati a diventare re – farsi a brandelli insanguinando il suolo inglese in nome del trono, cibando una miriade di vermi con la carne dei caduti e forgiando la gelida lama dell’odio in una nuova generazione di uomini. Le cicatrici di quella guerra erano scolpite sul suo corpo e nella sua anima. Con la pace sorta dieci anni prima durante il secondo regno di re Edoardo, era parso che all’Inghilterra fosse stato riservato un nuovo lungo regno di splendore e prosperità. Ma, ora, Edoardo – rosa di Rouen e bianca speranza di York, eroe di Mortimer’s Cross e flagello di Lancaster – era morto. Il re sopravvissuto all’inferno dei campi di battaglia si era trattenuto troppo a lungo in una battuta di pesca, lasciando che l’umidità e il freddo gli entrassero nelle ossa. La malattia l’aveva stroncato appena qualche settimana prima del suo quarantunesimo compleanno. Il corpo di Edoardo, gonfio e appesantito dagli insaziabili appetiti che avevano gettato un’ombra sui suoi ultimi anni, era ora sepolto a Windsor, lasciando un figlio ed erede dodicenne a reclamare il trono. Un altro minorenne. Di rado avevano servito bene il regno.

    Il rombo degli zoccoli attirò nuovamente l’attenzione di Vaughan verso la strada. Un gruppo di cavalieri stava uscendo dai boschi, dirigendosi verso il ponte. Nel suo cuore si accese la speranza, ma durò solo un istante. I cavalieri indossavano anonimi mantelli e casacche nere. Nessuno di loro mostrava i colori del conte Rivers, né di Gloucester o Buckingham, peraltro. Tuttavia, costituivano uno spettacolo imponente: cinquanta o più cavalieri che avanzavano al galoppo, i destrieri che affondavano gli zoccoli nel fango, l’inconfondibile scintillio delle armi. Vaughan scrutò il gruppo alla ricerca di volti familiari, ma la compagnia era troppo distante e la sua vista non era più quella di una volta. A un tratto, scorse il lampo rosso sangue di un mantello scarlatto: ciò gli diceva che, tra di loro, c’era almeno un nobile.

    I cavalieri rallentarono avvicinandosi al ponte, il carro ancora immobile. Vaughan udì una voce imperiosa.

    «Fatevi da parte! Lasciate passare il duca di Gloucester!»

    La paura gli strinse lo stomaco in una gelida morsa. Quella non era la nobile scorta che il duca aveva promesso, giunta per accompagnare il nuovo re a Londra. Non c’erano né vessilli, né livree, e nessun segno di Rivers; solo cavalli al galoppo e uomini armati, vestiti di nero. Si riprese dall’attimo di smarrimento. Voltandosi, cominciò a correre.

    Sfrecciò attraverso le file di banchi, urtando la gente nella sua folle corsa. Il ginocchio destro, ferito durante la battaglia di Tewkesbury quando l’esplosione di un cannone l’aveva disarcionato da cavallo, pulsò dolorosamente. La folla del mercato avrebbe rallentato il gruppo; gli avrebbe dato del tempo. Ma non molto.

    Avvicinandosi alla Rosa e la Corona, il respiro ardente nella gola, Vaughan vide Edoardo in piedi sulla soglia della locanda. Il giovane dai lunghi arti, che già promettevano l’altezza di suo padre, teneva la mano sollevata per ripararsi gli occhi; la luce del sole aveva reso quasi bianchi i suoi capelli biondi, lunghi fino alle spalle.

    Quando scorse Vaughan, che rallentò la corsa in un passo spedito, il giovane re sorrise. Il suo volto dai lineamenti delicati come quelli di sua madre, la regina – sebbene ancora ingenui e innocenti – si illuminò. «Sir Thomas! Avete visto mio zio?»

    Vaughan tolse il cappello e si inchinò, approfittando del gesto per ricomporsi. Sollevando la testa, incontrò lo sguardo speranzoso del giovane. Insieme al conte Rivers, era stato assegnato al servizio di Edoardo a Ludlow quando il principe aveva appena due anni, dopo che suo padre aveva sconfitto l’ultimo dei suoi nemici Lancaster e la pace si era posata sul reame come un sudario sottile e tenebroso. Nei dieci anni successivi, il ragazzo era diventato come un figlio per lui, e anche molto di più, ma il destino aveva concesso a Vaughan il tempo di fare una cosa soltanto in quel momento, e il re non era la sua priorità.

    «No, mio signore. Ancora nessun segno.» Vaughan sorrise per mascherare la bugia. «Ma dirò agli stallieri di tenere pronti i cavalli.»

    Quando Edoardo annuì congedandolo, Vaughan si incamminò a lunghi passi verso le stalle sul retro della taverna, risistemando il cappello sui capelli grigio ferro, ora umidi di sudore.

    Prima di lasciare la locanda, aveva detto allo scudiero di imballare le sue cose. Ed eccolo lì, Stephen, intento a sorvegliare i facchini che trasportavano pacchi e casse. Poggiata contro la porta della stalla, accanto a una pila di borse, Vaughan vide la sua spada nel fodero di pelle rossa. C’erano anche altri uomini lì – le guardie del re, i servitori di Richard Grey e alcuni scudieri di Rivers – tutti impegnati nella stessa mansione. Gli stallieri stavano sistemando l’attrezzatura in sacche attaccate alle selle, mentre i cavalli pascolavano, la maggior parte ancora sbrigliati. Vaughan si preparò ad agire come aveva deciso. Non c’era tempo di portare via il re. Non in maniera sicura.

    Stephen lo vide. «Siamo quasi pronti, signore» esclamò andandogli incontro. «E ho mandato Will a prendere altre provviste al mercato. Dovrebbero bastarci fino a Londra.»

    «Stephen, devi ascoltarmi.»

    Al suo tono, l’espressione dello scudiero mutò, lo sguardo improvvisamente allarmato.

    Vaughan si guardò intorno mentre uno degli uomini di Rivers passava accanto a loro con un pacco issato sulle spalle. Avrebbe evitato volentieri di parlare così liberamente; non lì, almeno. Ma non aveva altra scelta. «Voglio che tu vada a St Albans, alla Testa del Saraceno. Aspettami lì. Se non ti raggiungo entro tre giorni…» Vaughan si fermò, consapevole dell’enormità del fardello che stava per porgli sulle spalle. «Stephen, ho bisogno che tu vada da mio figlio.»

    Lo scudiero corrugò la fronte con aria interrogativa, ma era al servizio di Vaughan da molti anni e la sua obbedienza era più grande della curiosità. «Sì, signore. Da Harry?»

    «Non Harry. L’altro mio figlio.»

    L’uomo di Rivers aveva scaricato il pacco e si stava dirigendo di nuovo verso di loro.

    Ignorando l’espressione sorpresa di Stephen, Vaughan si chinò e gli mormorò all’orecchio le ultime istruzioni. «Ecco» disse infine, sfilandosi dalle dita tre dei quattro anelli che indossava. Il primo – un regalo di nozze da parte di sua moglie Eleanor, morta quasi quattordici anni prima – era d’oro, con due piccoli rubini incastonati; il secondo era una semplice fascia d’argento, mentre il terzo aveva un disco d’oro con due serpenti intrecciati intorno a un bastone alato, decorato da venature d’argento, che scintillarono mentre Vaughan passava gli anelli nel palmo di Stephen. Ora, soltanto il suo anello con sigillo gli decorava la mano. «Prendi questi e la mia spada. L’anello di Eleanor basterà per un passaggio su una nave. Dai gli altri due a mio figlio, insieme alla spada. Ne avrà bisogno per il suo viaggio.»

    A quel punto, Stephen ruppe il silenzio. «Signore, cosa sta accadendo?»

    «Se Dio vorrà, domani ci vedremo alla Testa del Saraceno e rideremo della mia follia davanti a un boccale di birra. Ma se così non fosse…» C’erano tante altre cose che avrebbe voluto dire; molte altre parole che avrebbe voluto aggiungere, anziché limitarsi a liquidare Stephen con un pugno di cerchietti di metallo tra le mani. Ma dalla strada provenivano già voci concitate e uno scalpitio di zoccoli. Il tempo era scaduto. Vaughan spinse lo scudiero verso le stalle. «Va’! Ora!»

    Stephen obbedì. Afferrando un pacco di provviste e la spada di Vaughan, si precipitò alle stalle. Alcuni dei servitori e degli staffieri gli lanciarono un’occhiata, chiedendosi a cosa fosse dovuta tanta premura.

    Uno degli scudieri di Rivers si avvicinò a Vaughan, la fronte corrugata. «C’è qualche problema, Sir Thomas?»

    «No. Va tutto bene.»

    Le voci provenienti dalla strada erano più forti, ora. Alcuni degli uomini nel cortile interruppero le loro faccende, voltandosi a cercarne la fonte. Vaughan andò in direzione delle voci, sperando ardentemente di aver mal interpretato la situazione, che i suoi timori fossero infondati, solo una fantasia della sua mente turbata. Fermandosi accanto alla locanda, nascosto alla vista, vide il gruppo di cavalieri vestiti di nero smontare davanti alla Rosa e la Corona. I passanti stavano indietreggiando per osservare meglio la scena, timorosi ma incuriositi; alcuni cercavano di tenere lontani i bambini, elettrizzati alla vista dei cavalli. Vaughan scorse Edoardo; il giovane sembrava minuscolo tra quel cerchio di cavalli scalpitanti, macchiati di fango. Le guardie del re erano uscite dalla locanda e facevano da scudo al ragazzo, spade alla mano. Con loro c’era anche Richard Grey, figlio di primo letto della regina vedova e fratellastro di Edoardo.

    «Mio re.»

    Nell’udire la voce familiare – leggermente acuta per un uomo, ma nondimeno carica di autorità – Vaughan vide Riccardo, duca di Gloucester, gran ciambellano e lord grand’ammiraglio di Inghilterra, emergere dal gruppo di cavalieri. Alto, sebbene non quanto suo fratello, il re defunto, e molto più magro di lui, il duca era vestito completamente di nero, tranne che per la scintillante spilla d’argento appuntata al mantello. Aveva la forma di un cinghiale.

    Riccardo si avvicinò a suo nipote con passo rigido. Vaughan sapeva che quel difetto di andatura era dovuto a una malformazione della colonna vertebrale. Quel problema, che accompagnava il duca sin dall’adolescenza, era a malapena visibile sotto le pieghe del mantello di velluto, ma Vaughan sapeva che c’era. Aveva visto con i suoi occhi l’ansa dall’aspetto doloroso che curvava la schiena dell’uomo, mentre il medico strappava la camicia dal corpo insanguinato di Riccardo dopo la battaglia di Barnet.

    Il duca si tolse il copricapo di velluto nero e si inginocchiò davanti al re; i capelli scuri, lunghi fino alle spalle, gli ricaddero sul volto. Le guardie che proteggevano Edoardo esitarono, abbassando le spade. Il gesto di Riccardo fu imitato dal resto della compagnia, tra cui suo cugino, Sir Henry Stafford, duca di Buckingham, che spiccava come un fiore variopinto tra l’erba con le sue vesti scarlatte. Vaughan, che non era mai stato intimo di Gloucester ma combatteva con lui da anni e lo rispettava come leader, era rimasto molto sorpreso nell’udire che si era alleato con Buckingham. Il giovane duca, bandito da corte per anni, aveva fama di essere arrogante e sconsiderato.

    Buckingham fu il primo a rialzarsi, spazzolando via la polvere dalle vesti di seta. Anche lui indossava una spilla con l’immagine del suo emblema: un cigno con una corona e una catena intorno al collo.

    Gloucester si alzò e si rivolse a suo nipote. «Mio signore, porto con me infauste notizie.»

    Edoardo stava osservando la compagnia, preoccupato. «Zio, dov’è Sir Antonio? È partito ieri per incontrarvi.»

    Udendo voci alle sue spalle, Vaughan si voltò e vide alcuni dei servitori e delle guardie del re avvicinarsi alla locanda, le mansioni ormai dimenticate. Guardando oltre le loro teste, scorse di sfuggita Stephen allontanarsi a cavallo lungo uno dei vicoli che partivano dal cortile.

    «Mio signore, mi addolora dirvi che il conte Rivers stava tramando contro di voi.» Lo sguardo di Gloucester sfrecciò verso Richard Grey. «Insieme al vostro fratellastro e al vostro ciambellano, Sir Thomas Vaughan. Intendevano prendere il controllo del vostro regno.»

    Vaughan si voltò di scatto a quelle parole. Il sollievo per la partenza di Stephen gli si raggelò nelle vene. Cosa aveva scoperto Gloucester? Che Rivers avesse rivelato ciò che avevano giurato di proteggere? Che l’avesse tradito? Strofinò il pollice contro la base del dito, dove l’anello con il serpente d’oro aveva lasciato una striscia bianca.

    «Menzogne!» stava gridando Grey, le guance infiammate dalla collera. Si voltò verso Edoardo. «Mio signore, non dovete credere a queste calunnie!»

    Gloucester continuò con perfetta calma. «Ho le prove che stavano cospirando per tendermi un’imboscata lungo la strada. Credo intendessero uccidermi.»

    Lo shock di Vaughan si tramutò in rabbia, e la collera lo spinse a uscire dal suo nascondiglio. «Quali prove?»

    Lo sguardo di Gloucester sfrecciò verso di lui e la sua espressione si rilassò, quasi compiaciuto di vederlo.

    A un gesto di Buckingham, due uomini si staccarono dal gruppo e marciarono verso Vaughan. Mentre l’uomo avanzava, senza staccare lo sguardo da Gloucester, i cavalieri si posizionarono al suo fianco. Altre guardie di Buckingham si occuparono di tenere a distanza i servitori di Edoardo, e due affrontarono Richard Grey. Una parte della folla cominciò a disperdersi, fiutando guai, ma altri si avvicinarono ancora di più, ansiosi di scoprire cosa stava accadendo e a quale affare del regno stessero assistendo. «Ripeto, Lord Gloucester. Quali prove avete a sostegno di tale cospirazione?»

    «I miei alleati a corte hanno scoperto un complotto che mirava a rimuovermi dal mio titolo di lord protettore del regno, un ruolo assegnatomi da mio fratello sul letto di morte. In parole povere, un ordine reale.»

    Ora Vaughan capiva. L’intenzione di Gloucester non era mai stata quella di unirsi al seguito che accompagnava il re; il suo obiettivo era prenderne il controllo. Vaughan si era di certo aspettato una forte presa di posizione da parte di Riccardo nella corte del giovane Edoardo; senza dubbio, il duca avrebbe fatto di tutto per impedire alla regina vedova e ai suoi alleati di lasciarlo in disparte negli affari del nuovo governo. Aveva immaginato difficili negoziazioni, forzati compromessi. Ma questo? Conosceva Riccardo di Gloucester, che aveva la metà dei suoi anni, sin da quando era nato. Aveva combattuto con lui, sofferto con lui per la causa di suo fratello. «L’unica cospirazione che vedo qui, Lord Gloucester, è la vostra.»

    Edoardo fece un passo avanti. «Zio, dev’esserci un errore.» Indicò Vaughan e Grey, entrambi controllati dalle guardie di Buckingham. «Sir Thomas, mio fratello, mio zio Rivers non farebbero mai nulla contro di me. O contro di voi.» Si voltò di nuovo verso Gloucester, il volto implorante. «Andiamo tutti insieme da mia madre. Lei ci aiuterà a risolvere il problema.»

    «È proprio vostra madre il problema» disse Buckingham in tono brusco. «Come sempre.»

    Gloucester gli scoccò un’occhiata truce. «Non c’è nessun errore, mio signore. Ma non temete. Siete sotto la mia protezione, ora. Vi scorterò a Londra sano e salvo.» Rivolse l’attenzione a Vaughan e Grey. «Sir Thomas Vaughan, Sir Richard Grey, vi dichiaro in arresto per cospirazione contro i ministri del re e per aver tentato di insidiare l’autorità reale.»

    Vaughan vide gli spettatori radunati intorno ai banchi del mercato mormorare eccitati. Una folla di sguardi si appuntò su di lui. Cercò di restare calmo, ma il cuore gli batteva furioso come prima di una battaglia. Gli uomini di Buckingham gli afferrarono le braccia. Non aveva la spada, e il pugnale infilato nella cintura gli sarebbe servito a ben poco.

    «Il resto di voi è libero di andare» disse Gloucester ad alta voce, rivolgendosi alla scorta del re. «Consegnate le armi ai miei uomini e ritiratevi. Da questo momento siete sollevati dai vostri incarichi.»

    Edoardo, il volto teso e angosciato, guardò Vaughan.

    Vaughan lo rassicurò con un cenno del capo. «Andate con vostro zio, mio signore. Il conte Rivers e io vi rivedremo all’incoronazione, quando queste false accuse contro di noi saranno confutate.» Lo disse per tranquillizzare il giovane e anche per sfidare il duca, ma quelle parole gli parvero vuote e prive di significato mentre Gloucester poggiava una mano ferma sulle spalle del giovane re e lo portava via.

    Allontanandosi insieme a Grey, Vaughan vide le guardie di Buckingham disarmare il resto degli uomini del re, ignorando le loro proteste. Sollevando lo sguardo, vide di sfuggita un uomo con un mantello azzurro allontanarsi a cavallo lungo il vicolo accanto alle stalle. Si stava dirigendo nella stessa direzione di Stephen.

    2

    La luce del sole penetrò nella stanza come una lama lucente attraverso una fessura nelle imposte. Trafisse gli occhi di Jack Wynter, disteso sul letto, strappandolo dalle profondità di sogni inquieti. Il ragazzo si svegliò di soprassalto e si voltò per sfuggire al raggio di luce, il sottile lenzuolo avvinghiato intorno al corpo. Una fitta lancinante gli trafisse la testa e, per qualche istante, rimase immobile lasciando che si calmasse, prima di tirarsi su e liberarsi dello stretto lenzuolo, impregnato di sudore.

    Sedendo sul bordo del letto, vide che, accanto ai suoi piedi, sulle assi rose dalle tarme, c’era un calice di vino mezzo pieno. Lo prosciugò in un attimo, cancellando il sapore acido che sentiva in bocca. Si alzò incerto e si diresse verso la finestra, dove la polvere danzava nei raggi del sole. Mentre apriva le finestre, due uccellini volarono via dal davanzale in un fremito d’ali. La luce del sole si rifletteva sulle mura bianche che lo circondavano, accecandolo e accentuando il dolore alla testa. Passò qualche istante prima che riuscisse ad abituare la vista quel tanto da vedere l’angusto cortile di sotto, soffocato da un groviglio di alberi. Gli insetti ronzavano intorno a fiori cremisi, che si gonfiavano sui rami come grumi di sangue. Il cielo era di un azzurro perfetto e, pur essendo ancora mattino presto, Jack sentiva il calore pulsare nell’aria. Tra qualche ora il caldo sarebbe stato rovente.

    Un soffio di brezza increspò una ragnatela che pendeva da un angolo della finestra, punteggiata da cadaveri di mosche. Un mese prima, il vento gli avrebbe portato la fragranza dei fiori d’arancio che profumavano l’intera città. Oggi, non riusciva a sentire altro che il tanfo del fiume, odori stantii di cibo e il fumo acre delle fornaci dei vasai. Era la sua seconda estate a Siviglia. La prima era stata molto diversa: la città colma di occasioni che aspettavano solo di essere colte, assaporate, esplorate. Ora, le arance erano cadute, il calore stava aumentando e lui era ancora là, intrappolato in quella fornace, in attesa di una parola che potesse liberarlo da quelle strade arse dal sole.

    Il cigolio del letto gli disse che Elena era sveglia. Udì il soffice rumore dei suoi passi dietro di lui.

    «L’hai persa di nuovo.»

    Jack si voltò.

    Elena reggeva sul dito una catenina d’argento, da cui pendeva una piccola chiave di ferro. «Non vuoi dirmi cosa apre?»

    Sulle sue labbra il castigliano era ricco e suadente, dolce come zucchero fuso. Nell’ultimo anno, Jack aveva appreso le basi della lingua. Abbastanza per cavarsela. Abbastanza per farsi amici e nemici.

    Prendendo la catena, avvertì l’impulso di scagliarla fuori dalla finestra, lasciarla inghiottire dal groviglio dei rami nel cortile, o affondare nelle torbide acque della fontana. Invece, la infilò sulla testa, avvertendo sul collo il peso familiare della chiave. Il movimento gli procurò una leggera fitta alla spalla. I muscoli erano ancora indolenziti per il combattimento del mese precedente, anche se i lividi sul petto e sulle braccia erano sbiaditi.

    Elena scosse la testa squadrandolo. Afferrò la vestaglia tra le lenzuola sgualcite e la infilò, stringendola sul seno. «Se oggi perdi, Carillo ti darà in pasto ai cani.»

    Jack rimase in silenzio, irritato dalla sua freddezza. Era così diversa di notte, quando lui varcava la soglia della taverna dopo una vittoria, accompagnato dai canti e dalle risate di quegli estranei che chiamava amici. Ogni volta, soccombeva all’incantesimo del vino di Malaga e del profumo di Elena, le luci delle candele che tremolavano nei suoi occhi, quel sorriso che lo faceva sentire come se fosse l’unico uomo nella sala affollata. Al mattino, quando era ormai prosciugato nelle tasche e nel corpo, l’incantesimo si spezzava. Eppure, tornava ancora, ogni volta che le sue vittorie glielo permettevano, attirato dall’alcol e dalla dolce penombra della taverna.

    Mentre si infilava la calzamaglia, ci fu un colpo alla porta. Elena aprì e Jack vide uno dei fratelli più giovani di Diego, Pedro, fare capolino nella stanza. Diego era l’uomo che dirigeva la taverna e le ragazze che lavoravano nelle stanze ai piani superiori. Pedro fece un sorrisetto a Jack, che lo ignorò continuando a rivestirsi. Indossò la camicia e il farsetto, il velluto un tempo blu scuro ormai sbiadito dal sole della Spagna.

    «L’amico dell’inglese è di sotto che bussa alla porta.»

    Antonio, pensò Jack, contento che il giovane non l’avesse abbandonato, come aveva minacciato di fare la sera prima. Dopo aver infilato gli stivali, la cui morbida pelle era lisa e sciupata, si legò il borsello alla cintura e uscì dalla stanza superando Pedro.

    «Mio fratello dice che sarebbe davvero un peccato perdere uno dei suoi uomini migliori.»

    Jack si fermò di scatto, voltandosi. «Di’ a Diego che tornerò puntuale per il prossimo combattimento. Così potrà pagarmi ciò che mi deve.»

    Giunto al piano di sotto, mentre aspettava che il vecchio al bancone gli restituisse la spada e il pugnale, si strofinò la fronte, cercando di alleviare il dolore lancinante alla testa. Nove mesi prima, poco dopo che, attirato dalle voci sull’arena di Diego, era arrivato a quella taverna – un luogo in cui uomini di umili natali, a cui era negato il brivido dei tornei e delle giostre, potevano dimostrare la loro prodezza – un cliente era impazzito e aveva ucciso due ragazze. Jack si era sentito come se fosse di nuovo sul campo di battaglia. Le urla, la confusione, il sangue. Da allora, agli uomini non era permesso tenere armi all’interno della locanda. Indossando il cinturone che sorreggeva la spada, confortato dal suo peso rassicurante, Jack lanciò una moneta all’uomo, che la afferrò al volo.

    All’esterno, Jack trovò Antonio poggiato contro il muro, all’ombra. Sebbene castigliano e cristiano, la pelle olivastra del giovane e i suoi capelli scuri erano una chiara testimonianza dei quasi ottocento anni di dominazione mora in Andalusia. I mori, ormai una minoranza nella città da quando la regina Isabella e il re Ferdinando avevano dichiarato guerra al regno di Granada, avevano lasciato la loro impronta sia nelle persone che negli edifici, dove iscrizioni del Corano e della Bibbia offrivano lode a Dio dalle stesse mura. Per Jack, era come se un altro universo premesse sui confini familiari del suo mondo, così vicino che la sua essenza aveva permeato il paesaggio. Così vicino che riusciva a sentirne la polvere nell’aria, a percepirne il profumo.

    «Amico mio.» Antonio allargò le braccia. «Hai l’aria di uno che andrebbe al tappeto con un soffio.» Il suo sorriso era forzato e non si rifletteva negli occhi. «È una giornata ideale per sedersi all’ombra in riva al fiume, non credi? Una brocca di vino? Qualche dattero o qualche mandorla dal mercato?»

    «Un’altra volta, Antonio.»

    Il sorriso del giovane svanì. «Dimmi che non hai intenzione di insistere con questa follia!» Jack cominciò a camminare e Antonio si affrettò dietro di lui. «Hai già battuto Carillo. Gli hai dato una lezione.»

    «Ha avuto ciò che meritava. Credeva di essere migliore di noi, credeva di poterci umiliare.»

    «E tu gli hai dimostrato il contrario nell’arena. Non basta?»

    «Mi ha sfidato. Se non accettassi, la mia vittoria non varrebbe nulla. È una questione di onore.»

    «A volte parli proprio come loro» borbottò Antonio.

    «Loro chi?»

    «Estevan Carillo e i suoi amici.» Il giovane agitò una mano con aria sprezzante in direzione della città sull’altra sponda del fiume. «I nobili.»

    Voltarono in uno stretto vicolo, tra edifici ammassati l’uno sull’altro, dirigendosi verso il fiume. Davanti all’entrata cavernosa di una taverna, due cani scheletrici stavano leccando una pozza di vomito secco. Più in là, una vecchia donna dalla pelle coriacea scavava tra un cumulo di rifiuti. Li guardò truce mentre passavano.

    Triana era figlia della notte, l’oscurità simile a un velo sul suo squallore. Era un luogo per marinai e prostitute, reietti e fuorilegge; quelli che vivevano ai margini, quelli che sognavano un’altra vita. A Triana, speranza e disperazione andavano a braccetto. Lo si leggeva nei volti degli stranieri che approdavano in città con storie di meraviglie e orrori di terre lontane. Era lì, nell’arena polverosa di Diego, dove giovani uomini si battevano all’ultimo sangue per la possibilità di una vittoria. Lì, nei passi ruvidi e pesanti che si dirigevano verso i liuti e i tamburi delle taverne, e nelle ragazze che danzavano per uomini con le mani piene di monete. Jack si sentiva a casa lì.

    «Sai bene che Estevan non vuole semplicemente riavere indietro i suoi soldi. Vuole il sangue. Rinuncia, amico mio.»

    Mentre sbucavano sulle rive del fiume, Jack si voltò verso Antonio. «Rinunciare?» disse, la voce tremante di rabbia.

    «Torna da Jacob, almeno per un po’. Estevan non sa dove vivi. Ho sentito dire che la regina Isabella intende raggiungere il re dopo la vittoria contro i mori a Lucena. Senza dubbio Estevan e suo padre andranno con lei.»

    «Nascondermi, intendi dire?»

    «Questo combattimento non sarà come quelli nell’arena. Estevan non seguirà le regole di Diego.»

    «Abbiamo un accordo. Ci batteremo al primo sangue.»

    «Tu hai un accordo.»

    Jack rimase in silenzio, fissando lo sguardo verso il fiume. Oltre le acque azzurre del Guadalquivir, sulla riva opposta, la Torre dell’Oro brillava nel sole. Ancorate al molo accanto alla torre dorata, c’erano tre grosse navi che sovrastavano una folla di piccole barche e pescherecci. All’albero maestro di ciascuna galea era legata una bandiera bianca, su cui Jack notò la croce rossa di san Giorgio. Vascelli inglesi. Solo qualche mese fa, il cuore gli sarebbe balzato nel petto alla vista di quelle navi, e avrebbe attraversato come un fulmine il Puente de Barcas, alla ricerca del volto di suo padre tra gli uomini che sbarcavano. Ora, quella speranza era svanita.

    Sulla banchina c’erano degli uomini intenti a scaricare grossi sacchi. Pieni di lana, pensò Jack. Alla partenza, i ponti delle loro navi sarebbero stati carichi di olio di oliva e sapone, vino e argento, che avrebbero trasportato su per la foce del Severn o del Tamigi, verso i mercati di Bristol e Londra. Al di là del molo, l’intrico di tetti rossi e guglie di Siviglia era dominato dal campanile della cattedrale, che svettava sopra la città. Quando era arrivato in città, Jacob gli aveva detto che, un tempo, al suo posto sorgeva il minareto della moschea. A est della cattedrale si estendevano le strade labirintiche della juderia. Il pensiero di tornare da Jacob e nascondersi nella piccola casa buia del vecchio, mentre ragazzini lanciavano sassi alle imposte chiuse e urlavano agli ebrei di convertirsi o morire, lo faceva infuriare.

    Era venuto in quella città con uno scopo del tutto diverso, uno scopo che, nei vuoti mesi a seguire, era appassito e poi morto, senza lasciargli altro che una chiave appesa a una catena intorno al collo. Aveva altri obiettivi ora: le vittorie nell’arena di Diego e la reputazione che stava conquistando a Triana. La sua fortuna se la sarebbe costruita con le proprie mani, lottando per risollevarsi dai bassifondi in cui era nato. Non aveva bisogno né dell’aiuto di suo padre, né di altre promesse infrante.

    La campana della cattedrale suonò, e il suo rintocco si diffuse attraverso la città, avvertendolo che mancavano ancora due ore all’appuntamento con Estevan Carillo, negli uliveti vicino La Cartuja. Jack lanciò un’occhiata ad Antonio, che stava prendendo a calci una pietra. Quando il giovane gli si era incollato al fianco, sei mesi prima, non si era fatto molte domande. Le amicizie andavano e venivano in quel posto, come le galee che attraversavano il porto recando con sé la polvere di altre terre. Ora, Jack si chiese se per Antonio lui non fosse qualcosa in più di un semplice compagno di bevute. Nelle infide correnti di Triana, che potevano far annegare un uomo se non stava attento, forse rappresentava per lui un tronco galleggiante, qualcosa cui aggrapparsi.

    «Hai fame, vero?» chiese Antonio sorridendo al giovane amico scoraggiato. «Vieni. Andiamo a prendere quei datteri.»

    Mentre Stephen scendeva sulla banchina, all’ombra della galea, le gambe gli cedettero e dovette aggrapparsi a una pila di casse per mantenere l’equilibrio. Dopo due settimane a bordo del Vello d’Oro, era una sensazione sconvolgente essere sulla terraferma eppure sentirla ancora ondeggiare sotto i piedi. Udì rauche risate alle sue spalle.

    «Fatti passare il mal di mare!» esclamò uno della ciurma, lanciando un sacco di lana sulla banchina. «Sei sulla terraferma ora!»

    Stephen si fermò a riprendere l’equilibrio, sistemandosi sul fianco la spada di Vaughan. Era molto più lunga e pesante del suo falcione. Mentre si incamminava verso la torre, seguendo la direzione che uno dei marinai gli aveva indicato, udì di nuovo l’uomo gridare alle sue spalle.

    «Salpiamo domani alle prime luci dell’alba. Ti conviene non tardare!»

    Stephen attraversò la banchina, circondato dal rumore di casse e barili che venivano accatastati e dalle rauche grida dei marinai. Alcuni uomini, che Stephen pensò dovessero essere ufficiali di dogana, si muovevano controllando carichi e documenti. Ora che non si trovava più sulla barca e la brezza era scomparsa, avvertiva tutta la forza del sole di Spagna. Si tolse il mantello e lo sistemò sulla borsa di pelle che si teneva stretta al fianco sin da St Albans. C’erano stati momenti, mentre il Vello d’Oro cavalcava onde gigantesche al largo della costa settentrionale della Spagna, in cui aveva pensato che la sua missione, come pure la sua vita, sarebbero finite lì, in fondo all’oceano. Era davvero sollevato di aver raggiunto la sua destinazione sano e salvo, anche se avrebbe preferito non venirci affatto.

    Per tre giorni aveva aspettato alla Testa del Saraceno, senza alcun segno del suo padrone. Al mattino del quarto, si era obbligato a fare come Sir Thomas gli aveva ordinato ed era partito per organizzare il viaggio. A Londra, in attesa di un passaggio su una nave mercantile, aveva sentito dire che Riccardo di Gloucester e il duca di Buckingham erano arrivati in città. Gloucester, si diceva, aveva spedito suo nipote negli appartamenti reali della Torre, in attesa che i preparativi per l’incoronazione giungessero a termine. Era anche venuto a sapere che i consiglieri del giovane re, tra cui Vaughan, erano stati imprigionati nelle fortezze di Gloucester nel nord; con un peso al cuore, era salpato dalle rive dell’Inghilterra nei venti pungenti della Manica.

    Mentre varcava la cinta muraria della città, attraverso un imponente portale di pietra, e svoltava un angolo, la cattedrale di Siviglia si stagliò dinanzi ai suoi occhi. Era una struttura colossale, di certo grande quanto quella di San Paolo. Grosse mura color ocra chiaro si susseguivano una dietro l’altra, roccaforte su roccaforte, fino a una vasta navata sormontata da un altissimo campanile. Alcune parti della facciata erano coperte da impalcature, e l’aria soffocante era densa di polvere. Gli ampi scalini della cattedrale erano gremiti di uomini, seduti a coppie o in piccoli gruppi, tutti impegnati in discussioni diverse, alcune sommesse, altre animate. Sembrava una specie di luogo d’incontro, dove centinaia di transazioni e affari avvenivano contemporaneamente. Lungo il lato più lontano della piazza correva un alto muro merlato, al di là del quale si estendeva quello che sembrava un vasto complesso di edifici, inframmezzato da cupole e alti alberi. Stephen notò anche gli uomini armati che presidiavano l’esterno dei cancelli.

    Si diresse a est della cattedrale; gocce di sudore gli colavano nella barba cresciuta durante il viaggio. Nelle strette strade al di là della piazza, si imbatté in lunghe strisce di ombra fresca, e seguì il loro corso tortuoso in un labirinto di vicoli e passaggi coperti, alla ricerca del luogo che Vaughan gli aveva descritto in gran fretta nel cortile della Rosa e la Corona. Più si inoltrava nel quartiere ebraico e più le strade diventavano silenziose. Sulle mura e sulle porte delle case erano scribacchiate delle parole. Stephen non le capiva, ma quegli scarabocchi rossi sembravano ferite infiammate sulle facciate degli edifici con le loro piccole imposte dipinte di diversi colori.

    Dopo aver girato a vuoto ed essersi ritrovato al punto di partenza, si guardò intorno alla ricerca di qualcuno a cui chiedere indicazioni. Non lontano dietro di lui, vide un uomo con un mantello azzurro, il cappuccio sollevato nonostante il caldo. Stephen si diresse verso di lui, ma, prima che potesse raggiungerlo, l’uomo imboccò un vicolo e scomparve. Imprecando, Stephen continuò a camminare, scorgendo infine una donna intenta a spazzare via un cumulo di rifiuti dall’entrata della sua casa. Mentre si avvicinava, l’espressione della donna si irrigidì, timorosa.

    Stephen le offrì un sorriso. «La chiesa di Santa Croce?»

    La donna gli indicò un passaggio in fondo alla strada e riprese a spazzare, la scopa che si muoveva rapida sul terreno. Superandola, Stephen colse un forte tanfo di escrementi e capì che non erano rifiuti quelli che la donna stava cercando di rimuovere dall’uscio. Attraversò la strada e imboccò il passaggio. Un rumore secco risuonò alle sue spalle quando la donna chiuse di scatto la porta. Alla fine del vicolo, scorse finalmente una torre bianca che si levava sopra gli altri edifici, sormontata da una campana. Subito dopo la chiesa, gli aveva detto Vaughan, una casa con le imposte azzurre.

    Stephen affrettò il passo e la raggiunse. Bussò alla porta, lanciando un’occhiata alla strada deserta. Non ci fu risposta. Provò di nuovo. Dopo un istante, udì dei passi dall’altra parte. Si udì il clangore di un chiavistello e la porta si schiuse appena, rivelando un uomo piccolo e raggrinzito, con una barba grigia. Il vecchio corrugò la fronte alla vista di Stephen. Disse qualcosa in castigliano, con voce severa.

    «Mi chiamo Stephen Greenwood. Vengo da parte del mio padrone, Sir Thomas Vaughan. Voi siete Jacob?»

    «Io sono Jacob» replicò l’uomo dopo una pausa, in un inglese dall’accento pesante. «Ma come faccio a sapere che voi siete chi dite?»

    Stephen esitò. Vaughan non gli aveva detto che avrebbe dovuto dimostrare la sua identità. Dopo un istante, ebbe un’idea e infilò la mano nella borsa di pelle, rallentando i movimenti quando vide che Jacob indietreggiava. Tirò fuori un sacchetto e si lasciò cadere due anelli nel palmo. La fascia d’oro di Vaughan, il regalo di sua moglie, era servito da scambio per il passaggio sul Vello d’Oro. Ora, c’erano soltanto la semplice fascia d’argento e l’anello con il disco inciso.

    Jacob sollevò gli occhiali che pendevano da una catena intorno al collo e li inforcò. Fissò l’anello con i serpenti attorcigliati intorno al bastone e la sua espressione mutò. «Venite» disse aprendo la porta, invitandolo a entrare nella penombra oltre la soglia.

    3

    Era mezzogiorno quando Jack e Antonio raggiunsero l’uliveto all’esterno del monastero della Cartuja. Assaporando il dolce succo dei datteri, avevano camminato lungo il fiume tenendosi all’ombra, dirigendosi oltre la mole di pietra del castello di San Giorgio, che sovrastava imponente il Puente de Barcas, il ponte che collegava Triana con Siviglia. Jack aveva intravisto un folto gruppo di uomini nel cortile del castello, come radunati per qualche affare importante.

    Il castello di San Giorgio, un tempo parte della cittadella mora, era ora sede del tribunale dell’Inquisizione, stabilito lì due anni prima dalla regina Isabella e da re Ferdinando. Gli inquisitori erano stati molto attivi in quegli anni, dando una caccia spietata a conversos e moriscos – ebrei e musulmani convertiti al cattolicesimo – accusati del terribile crimine di continuare in segreto a professare le loro antiche fedi. Si diceva che le prigioni del castello straripassero di usurai e medici, in attesa del fuoco purificatore. Nella juderia, il ghetto in cui gli ebrei erano stati costretti a vivere sotto dure restrizioni, la gente mormorava timorosa di un’epurazione.

    Mentre si avvicinavano al monastero, il cuore di Jack batteva all’impazzata. Ripensò all’arena di Diego e a Estevan Carillo che avanzava spavaldo per affrontarlo, baldanzoso e sprezzante. Gli aveva cancellato quel sorrisetto dalla faccia a suon di pugni. Ma possibile che quella vittoria l’avesse reso sciocco e arrogante quanto lui? Era uno stupido a pensare che Estevan si sarebbe battuto lealmente in un duello senza testimoni? Si sentì assalire dal dubbio.

    La sera prima, quando aveva dichiarato di accettare la sfida di Estevan, era ebbro di vino, infervorato dalle acclamazioni degli avventori nella taverna di Diego. Ora, la camicia era impregnata di sudore e il vino si era trasformato in veleno. Per un istante, pensò di voltarsi indietro e tornare a casa di Jacob, come Antonio gli aveva consigliato. Avrebbe cercato di farsi perdonare dal vecchio e sarebbe rimasto con lui nel buio della sua casa, a proteggere quella cassa e il suo contenuto, tenendo fede al giuramento che aveva fatto a suo padre, anche se lui non aveva mai mantenuto la parola; anche se lui non era mai tornato. Invece, continuò a camminare. I lividi sul corpo sarebbero guariti facilmente. La perdita dell’onore era una ferita molto più difficile da curare.

    «Eccoli lì.»

    Jack seguì lo sguardo di Antonio e vide quattro figure sdraiate all’ombra di una fila di ulivi. Quattro cavalli erano legati lì accanto, le code guizzanti. A parte alcune persone che lavoravano nei campi, non c’era nessun altro in giro. L’unico suono che Jack riusciva a udire era quello dei suoi passi e il ronzio delle mosche. Il suo avversario aveva scelto un luogo veramente isolato. Chiuse la mano intorno alla pelle sciupata che ricopriva l’impugnatura della spada.

    Estevan Carillo lo osservò avvicinarsi. Lui e i suoi amici indossavano camicie di lino raffinato. I farsetti di seta, dalle pieghe impeccabili, erano stretti in vita da cinture di pelle di Cordova, con rilievi in filigrana. Sui loro fianchi pendevano spade e pugnali, racchiusi in foderi decorati. Ai piedi, stivali lucenti e, sul capo, cappelli ornati di piume e gioielli. Ogni cosa in loro – gli abiti, l’atteggiamento, i cavalli lucidi e possenti – parlava di ricchezza e prestigio. Jack conosceva bene quel tipo di uomini; ci era cresciuto insieme, sperimentando la cattiveria di alcuni e l’amicizia di altri. Un tempo, aveva creduto di poter essere come loro; si era convinto che, pur giungendo da un luogo del tutto diverso, le loro strade potessero incontrarsi. Quel sentiero gli era parso così certo allora, ogni passo già stabilito, le orme di suo padre chiare e nitide dinanzi a lui, pronte a mostrargli la strada: da paggio a scudiero e, infine, cavaliere, con tutte le straordinarie possibilità che quel titolo poteva offrire.

    Chiaramente, Estevan non vedeva alcun tipo di affinità tra loro due. Mentre il castigliano lo osservava, Jack sapeva che in lui non vedeva altro che un misero e cencioso plebeo; un uomo talmente in basso nella scala sociale da sembrare quasi invisibile. Un ricordo gli attraversò la mente: i boschi alla periferia di Lewes, il volto seppellito nel fango, le urla dei ragazzini e quegli insulti che colpivano più a fondo dei pugni.

    «Sangue marcio!

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