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Gli ultimi soldati di Roma: Vexillatio 476 d.C.
Gli ultimi soldati di Roma: Vexillatio 476 d.C.
Gli ultimi soldati di Roma: Vexillatio 476 d.C.
E-book714 pagine8 ore

Gli ultimi soldati di Roma: Vexillatio 476 d.C.

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Info su questo ebook

476 d.C., l’Impero Romano d’Occidente è giunto alla fine. L’imperatore è stato deposto a Ravenna e ogni difesa è crollata. Le forze militari sono allo sbando. Una sola guarnigione romana è rimasta a guardia del presidio di confine di Duro Catalaunum. È la Vexillatio composta dagli ultimi soldati di Roma. Provengono dalle sponde del fiume Liris, nella penisola italica, chiamati a presidiare quello sperduto angolo al limite dell’impero, sono stati fortemente voluti dal generale Marcellino. Legionari, pronti all’attacco imminente. Tutt’intorno, orde di barbari devastano ogni villaggio e non mancherà molto all’assalto anche del borgo fortificato che sono chiamati a difendere.
LinguaItaliano
Data di uscita6 mar 2024
ISBN9791255401292
Gli ultimi soldati di Roma: Vexillatio 476 d.C.

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    Anteprima del libro

    Gli ultimi soldati di Roma - Marco Vozzolo

    ultimi-soldati-roma-fronte.jpg

    Gli ultimi soldati di Roma

    Vexillatio – 476 d.C.

    di Marco Vozzolo

    Direttore di Redazione: Jason R. Forbus

    Progetto grafico e impaginazione di Sara Calmosi

    ISBN 979-12-5540-129-2

    Pubblicato da Ali Ribelli Edizioni, Gaeta 2024©

    Narrativa – Maree

    www.aliribelli.com – redazione@aliribelli.com

    È severamente vietato riprodurre, in parte o nella sua interezza, il testo riportato in questo libro senza l’espressa autorizzazione dell’Editore.

    Gli ultimi soldati di Roma

    Vexillatio – 476 d.C.

    Marco Vozzolo

    romanzo storico

    AliRibelli

    A Margherita, mia figlia

    A Michele, mio figlio

    A Pumba, Legionario

    Ai Legionari.

    Prologo

    Ritengo necessario, prima di iniziare la lettura di questo romanzo storico, contestualizzare il periodo di ambientazione.

    Siamo nell’anno della fine dell’Impero d’Occidente.

    In tale condizione temporale gli avvenimenti narrati si svolgeranno in prevalenza in due luoghi: Duro Catalaunum e la zona di Vescinae, nome, quest’ultimo, tratto da antichissimi testi indicanti la zona termale romana situata lungo le rive del fiume Liris, l’attuale Garigliano, che divide il Lazio dalla Campania.

    Duro Catalaunum era un centro romano nei cui pressi si svolse la nota battaglia dei Campi Catalaunici, vinta dall’ultimo grande generale dell’esercito dell’Impero Romano d’Occidente: Flavio Ezio.

    Attualmente la città sorta sulle rovine di questo antico centro porta il nome di Châlons-en-Champagne, nel dipartimento della Marna, in Francia.

    Fiorente centro turistico a vocazione agricola.

    Nel 476 a.C. era ancora sotto il dominio di Roma.

    Erano periodi di crisi quelli per l’Impero, soprattutto in uno degli ultimi avamposti dell’espansione della Roma che fu, e ci si aspettava un attacco massiccio da parte dei barbari da un momento all’altro.

    Altri centri erano stati travolti dalla furia delle masse barbariche che giungevano da nord e da est.

    Fino a quel momento il borgo era stato evitato dalle conquiste dei turingi e dei burgundi solamente grazie alla posizione in cui si trovava, particolarmente avanzata ma eclissata dalle foreste e dalla conformazione del suolo.

    Era nell’aria, però, che si trattasse di una circostanza fortunata ma destinata a concludersi assai presto.

    Tutt’intorno c’erano villaggi e città date alle fiamme dopo il saccheggio.

    Prima o poi, dunque, i bbarbari avrebbero riversato le loro attenzioni anche verso quel piccolo borgo fortificato.

    Fortunatamente, fino a quel momento l’interesse delle genti provenienti dall’est e dal nord era proiettato verso le province della Provenza e della Borgogna, ben più ricche rispetto ad altre limitrofe, senza comunque intaccare i domini dei visigoti che regnavano indisturbati sulla parte occidentale dell’Europa.

    Così facendo, i popoli in migrazione non s’impegnavano in scontri contro i visigoti, che sarebbero costati caro in termini di uomini e risorse.

    Dopo aver sottomesso ogni città che incontravano lungo la loro avanzata, queste genti vi si stabilivano, intessendo con il vecchio sistema di governo una sorta di dominio organizzato.

    Ergo: governavano per mezzo del sistema amministrativo già collaudato dai romani.

    Di fatto, nel 476, Duro Catalaunum rispecchiava la decadenza in cui versava l’intero Impero d’Occidente, contrassegnata dalla corruzione che ormai aveva impoverito molto le finanze della Cosa Pubblica.

    Pertanto, nel più totale disinteresse dei delegati imperiali, tutto era lasciato in completo stato di abbandono: dalle strade alle stazioni di posta, agli acquedotti che necessitavano di continua e costosa manutenzione, ai mantenimenti delle risorse agricole e commerciali.

    Nondimeno la cittadella di Duro Catalaunum risentiva dello stato in cui versava ogni angolo dell’Impero.

    Gli esattori romani pretendevano comunque il pagamento di tasse, senza tuttavia garantirne i benefici, mentre la Chiesa faceva altrettanto, creando ancor più disordine nella gestione della cosa pubblica.

    Aleggia una storia sul declino di Arvando,¹ il prefetto del Pretorio per la Gallia, che improvvisamente divenne sgradito all’Augusto e ne pagò seriamente le conseguenze.

    Di fatto questi venne condannato perché ritenuto un traditore.

    Si sospetta tuttavia che ci fosse la Chiesa dietro il processo, a cui venne sottoposto e condannato per aver inviato una lettera al re dei visigoti, Eurico, con la quale lo esortava ad attaccare i bretoni e a essere meno ostile con i burgundi per dividersi poi un ampio dominio sulle Gallie.

    Dunque, ci si trovava, oltre che con i barbari che dominavano ovunque, a cercare di sopravvivere a trame interne che tendevano a eliminare anche fisicamente gli avversari politici e militari.

    Ciò che accadeva nel posto di confine che era Duro Catalaunum rispecchiava totalmente l’ormai realtà dell’Impero d’Occidente.

    Vescinae invece è una zona termale abitata dai romani e favorita dall’Imperatore Settimio Severo.

    Questi fece lastricare, per interessi economici, un’antica via già esistente che seguiva il corso del fiume Liris, la quale partiva da Minturnae e raggiungeva la zona dove sgorgavano le acque termali vescine.

    Quest’ultimo termine si ricava da Vescia, antica città della Pentapoli Aurunca rasa al suolo dai romani.

    Vescinae era un aggregato urbano che univa le sponde del fiume attraverso un ponte, i cui resti sono tutt’oggi visibili quando il corso d’acqua è in secca.

    La valle del Garigliano era zona dai forti interessi commerciali grazie proprio alla sua navigabilità e anche al fatto che alle sue foci sorgeva la città portuale di Minturnae.

    Seguendo il tracciato della via di Settimio Severo vi era un proliferare di località e attività redditizie legate alla navigazione fluviale.

    La toponomastica ne riporta le prove, infatti esistono ancora, tramandate nei secoli, località dal nome di Porto Galeo e Taverna Cinquanta, giusto per citarne alcune.

    Ma ancora masserie, cippi, pietre miliari e ruderi vari ne testimoniano la florida esistenza che fu.

    È stata mia intenzione quella di collegare le due località così distanti tra loro, poiché entrambe rappresentanti punti di svolta delle sorti della Storia.

    Anche Vescinae (Aqua/s Vescinas), proprio come Duro Catalaunum, risentì molto del cambio delle epoche.

    Dal momento in cui l’Europa era ormai divisa in domini, la valle del Garigliano stava per divenire un punto delicato per l’inizio di una nuova era.

    Il transito dall’Impero alla fase medievale, fu costellato da eventi che l’hanno reso un luogo d’importanza fondamentale sia dal punto di vista economico che militare.

    Va da sé che i forti interessi facessero sì che trame e accadimenti storici sconvolgessero la storia dell’intero territorio.

    L’arrivo dei ssaraceni prima e dei longobardi e normanni poi, ha mutato l’aspetto dell’intero territorio e delle sue vicissitudini.

    Nel medioevo, infatti, era di fatto il confine, anche se le mappe riportavano quello reale al di sopra di Gaeta.

    Nell’età di mezzo sorsero ben tre fortilizi, Ventosa, Castelforte e Suio, per custodirne il limbo proprio a salvaguardia del tracciato di confine naturale segnato dallo scorrere del fiume.

    Insomma, anche se tra Duro Catalaunum e Vescinae correvano ben 1413 chilometri, quindi circa 954,85 miglia romane, i destini dei due luoghi sembravano così simili che mi sembrava appropriato ambientarne le pagine del romanzo che andrete a leggere.

    Un ultimo e breve approfondimento sulla divisione dell’Europa negli anni in cui l’Impero d’Occidente stava per svanire è necessario per dipingere un quadro esaustivo dello spazio temporale in cui stiamo entrando.

    Le tribù nomadi, formate da popolazioni diverse, erano stanziate a nord della nota Teutoburgo e premevano da oriente.

    La penisola iberica e il nord dell’Africa erano sotto il potere dei vandali.

    Gli alamanni si erano impossessati delle terre che giungevano fino in Elvezia.²

    I galloromani erano ormai indipendenti da Roma.

    La Britannia era stata abbandonata da tempo.

    Erano anni che si succedevano un imperatore dopo l’altro.

    Tutti condividevano la stessa sorte: assassinati dopo circa un anno dalla loro incoronazione.

    Era trascorso molto tempo dall’assassinio di Valentiniano III e dal Sacco di Roma di Alarico.

    La corte imperiale era un covo di spie e cospiratori.

    Nel 476, anno di ambientazione del romanzo, Odoacre, re degli eruli, era stato elevato al rango di generale, ma ciò non aveva certamente mutato la sua indole barbarica e ostile alla sacra persona dell’Augusto.

    Migliaia di profughi fuggivano dalle città saccheggiate dai barbari scampando ad atroci torture, mentre i senatori di Roma e l’intera corte del Sacro Palazzo pensavano solamente ai fasti e ai banchetti in cui ostentare stravaganze e potere.

    Buona lettura,

    Marco Vozzolo

    ¹ Arvando: galloromano che nel 464 venne nominato dall’imperatore Libio Severo prefetto del pretorio per la Gallia. Nomina approvata dal magister militum Ricimero, che di fatto era il vero detentore del potere dell’Impero romano d’Occidente. Il compito di Arvando fu estremamente difficile: era chiamato a mettere ordine in un territorio ormai stretto tra i regni dei barbari. Alla morte di Libio Severo, Arvando venne confermato dal nuovo imperatore, Antemio. Ma poco tempo dopo (nell’anno 468) venne condotto a Roma privo della carica e da prigioniero. Ne seguì un processo, durante il quale i testimoni (nobili della Gallia) mostrarono una lettera con la quale Arvando chiedeva a Eurico, re dei visigoti, di non riconoscere il nuovo imperatore e di essere tollerante con i burgundi al fine della divisione di un ampio territorio quale le Gallie. Fu Sidonio Apollinare a salvarlo dalla condanna a morte, riducendola all’esilio.

    ² Da Elvezi: l’antica collocazione della Svizzera.

    Capitolo I

    La partenza

    Era eretta su mattoncini dello stesso colore della terra, la piccola chiesa dedicata a San Pantaleo,¹ rialzata rispetto alle vasche sulfuree lì vicine.

    Lame di luce filtravano dalle finestre strette e lunghe, finendo per illuminare anche il pavimento di pietra.

    L’incensiere, sospeso dalle catene, emanava una caligine che si dissolveva poco dopo.

    Una donna, minuta nel corpo, se ne stava rannicchiata di fronte alla Croce artigliando con le unghie il lastricato, piangendo per la perdita di un figlio, seppur questi fosse ancora in vita.

    Al di fuori della chiesa, il figlio della donna distrutta dal dolore osservava un airone che planava sulle rive del fiume.

    Il suo nome era Vatinio Aurunco, chiudeva gli occhi godendo della brezza leggera che si rinfrescava sull’acqua prima di sfiorargli il viso.

    Percepiva appena, attorno a lui, la presenza degli altri ragazzini che stavano celebrando la toga virilis, indossata al passaggio dall’adolescenza all’età adulta.

    Non concedeva a quel rito alcuna importanza, seppur assumesse un significato importante nella vita di ogni giovane, poiché attribuiva dei doveri e superava il limite della passata spensieratezza.

    Nonostante fosse una celebrazione ormai andata in disuso con l’avvento della religione Cristiana, nel territorio di Vescinae² era ancora ufficiata e tutti i ragazzi indossavano la toga simbolicamente solo per quel giorno.

    Di fatto, anche se avevano contato quindici primavere, nessuno di loro si sentiva grande.

    Una volta concluso ogni dovere di rito, il gruppetto di ragazzi si avviò lungo una redola lastricata, raggiungendo ciò che rimaneva di una vecchia taverna.

    I ruderi raccontavano della vita di un tempo in quella sponda del fiume Liris.³

    Con un balzo, Vatinio Aurunco trovò posto su una stele funeraria.

    «LE MIE ANFORE ERANO LE MIGLIORI DI MINTURNAE⁴ MA ANCHE DI FORMIA E DI CAPUA. IL MIO NOME È CALPURNIO AUGUSTALE E SONO CON MIO FIGLIO ADESSO. REALIZZIAMO ANFORE ANCHE NELL’ADE. QUESTA È SENZA DUBBIO LA PIÙ BELLA.»

    Ripeté ad alta voce le parole che vi erano state incise nell’epoca della Roma che fu grande.

    Raccontava la vita trascorsa di un fabbricante di anfore che aveva la sua bottega proprio nei pressi della taverna.

    In quel posto, i ragazzi avevano giocato fin da infanti; era il luogo del loro ritrovo.

    Cresciuti lungo le sponde del fiume, che scorreva pacato serpeggiando fino al mare, era lì che ricreavano, con la fantasia, avventure e giochi.

    «Domani passeranno a prenderci…» Vatinio Aurunco parlò per primo.

    Nessuno rispose.

    Rimasero a fissarsi l’un l’altro cercando di reagire al peso di quell’inquietudine.

    I rispettivi genitori avevano ricevuto ben due solidi⁵ d’oro per la consegna dei propri figli.

    «Non rivedremo le nostre famiglie e le nostre case per molti, molti anni» esordì Severino Maggioriano.

    Dell’aria baldanzosa che aveva fin da bambino non era rimasto nulla adesso, vista l’emozione che Fulcino Agricola Stazio stava visibilmente mostrando: «Molti di noi non sopravvivranno alle campagne di cui faremo parte» disse.

    Tra una frase e l’altra trascorreva un lungo tempo di silenzio.

    Si trovavano, per l’ultima volta, nel posto in cui si incontravano sempre per i loro giochi.

    L’ultimo a parlare fu Ulzio Daciano: «Ho provato a nascondermi per non partire, ma mio padre mi ha trovato e m’ha battuto come fa con le anguille prima di cucinarle. Credo che non riusciremo a sfuggire al nostro destino».

    Poi non parlò più nessuno.

    Rimasero in silenzio a fissare l’acqua che scorreva pigra.

    All’alba del giorno dopo un drappello di soldati giunse a Vescinae.

    L’incontro avvenne sulle rive del Liris, sul quale aleggiava una caligine lattiginosa.

    I cavalli sbuffavano dalle froge, stizziti dal freddo del mattino.

    Il sole saliva da dietro gli alberi che costeggiavano il corso del fiume, tra i quali si allungavano tagli di luce.

    Gli schiocchi delle ali di uno stormo di uccelli acquatici attirò l’attenzione dei ragazzini che si stringevano nei drappi di lana grezza.

    I soldati a cavallo avevano al seguito ben tre carri già quasi pieni di ragazzi dalle espressioni cupe.

    Un decurione smontò dalla sella e si avvicinò ai quattro fanciulli, che se ne stavano uno attaccato all’altro.

    «Quali sono i vostri nomi?»

    «Vatinio Aurunco.»

    «Severino Maggioriano.»

    «Fulcino Agricola Stazio.»

    «Ulzio Daciano.»

    Il soldato li studiò a lungo, poi annotò i nomi su un foglio.

    «Salite sul carro» ordinò.

    Vatinio Aurunco sorvolò con lo sguardo le zone circostanti depositandone il ricordo nella parte più preziosa del suo cuore.

    Quando tornò su suo padre lo vide di spalle che già se ne andava.

    Il drappello si mise in marcia verso meridione.

    Dovevano riempire i carri di altri fanciulli da addestrare nell’esercito.

    Poco prima di prendere il ponte la vide: sua madre lo guardava da dietro un canneto.

    Le fece un segno con la mano e la sorprese a singultare.

    Fu, quello, un momento che Vatinio Aurunco non dimenticò mai più.

    Il crepitio delle ruote che scivolavano sul blasonato del ponte segnò il punto dell’addio.

    Giunsero a Suessa⁶ che non era ancora l’hora septima.

    Al di fuori delle mura si ripeté la stessa scena della mattina.

    Altri fanciulli, per lo più spaventati, che attendevano di venire prelevati dai soldati.

    Il decurione smontò dalla sella e si avvicinò ai ragazzini.

    Dall’alto del carro, Vatinio Aurunco vide la scena con una prospettiva diversa.

    Il soldato non aveva nulla che ricordasse la Roma che fu, quella che si poteva vedere incisa nelle colonne, in qualche cippo o nei sarcofagi.

    Niente elmo con paragnatidi stondate, niente creste trasversali e niente loriche a fasce.

    Indossava una corazza a placche sopra una tunica di lana grezza.

    Il cingolo era stato sostituito da un cinturone che reggeva alla vita la spada. Anche quest’ultima era lunga e perfino il manico non era più quello dei vecchi gladi, ormai in disuso da diverso tempo.

    Solamente il mantello era rimasto rosso scuro, un segno che accomunava tutti i soldati di quel dannato drappello.

    Provò a immaginare la sua vita al seguito delle armate di Roma e si ripromise di non perdonare a suo padre di averlo venduto in quel modo.

    Sorvolò con lo sguardo i suoi amici, che osservavano la scena con espressioni atterrite.

    Ripartirono che era trascorsa circa un’ora.

    Stavolta presero verso settentrione risalendo l’Appia.

    Verso sera avevano già superato Fundi e si fermarono a trascorrere la notte in un vecchio caravanserraglio.

    Attorno al fuoco i ragazzi iniziarono a conoscersi dopo che non avevano scambiato neanche una parola tra di loro, intimoriti com’erano.

    «Sono Cristiano Caligato e so cacciare i cinghiali…» esordì il primo.

    «Il mio nome è Gavio Ottaviano e sono bravo a nascondermi e non farmi trovare…» lo seguì un altro.

    «Io sono Tarquinio Glauco e sono un pastore.»

    «Io sono Druso Variato» li imitò questo.

    «Mi chiamo Aucto Tullio Sesto e la mia paura manifesto!»

    Seguì un istante lunghissimo di silenzio prima che i ragazzi scoppiarono a ridere.

    «Io sono Gallieno Lars Gracco e… non sono delle vostre parti. Mio padre aveva bisogno di solidi per riparare il dromone e così…»

    Risero ancora.

    Il decurione si accorse di quelle risate e fissò gli altri soldati che si scaldavano al bivacco.

    «Li ho osservati bene. Diventeranno abili soldati. Ma li affiderò a Aristarchos, devono rendere tanto una volta venduti. Devo guadagnarci almeno il triplo di quello che mi sono costati.»

    Gli altri annuirono soddisfatti.

    D’altronde più guadagnava il decurione e più avrebbero guadagnato anch’essi.

    Alle prime luci la carovana si rimise in viaggio.

    Stavolta il viaggio durò quasi un mese.

    Ebbe fine solamente a Arles, dove i ragazzi vennero condotti in una caserma.

    Ad attenderli trovarono due giovani ufficiali che indossavano gli equipaggiamenti delle legioni che facevano tremare ogni confine.

    Erano assai giovani i due campidoctor,⁷ gli addestratori dell’esercito che se ne stavano ritti a osservare le giovani reclute.

    I due addestratori raggrupparono tutti i ragazzini e si posizionarono dinnanzi a loro.

    La differenza tra loro e le reclute era di una dozzina di anni, non di più.

    Uno di loro salì su uno scanno e prese a gridare: «Qui si diventa legionari!».

    Si levò un brusio che l’altro addestratore non gradì.

    Con un legno di vite prese a picchiare Druso Variato e Fulcino Agricola Stazio che gli stavano più vicino e fece calare il silenzio.

    Dopo una rapida occhiata d’intesa, l’altro riprese a parlare: «Sono Aristarchos Temistocle e sono il principales⁸ che comanderà quest’unità. Io e l’altro ufficiale ci occuperemo del vostro addestramento fino a quando non verrete inseriti nei ranghi dell’esercito dell’Impero».

    A quel punto si fece avanti anche l’altro giovane ufficiale.

    «Sono Antonino Tacito, secondo principales. Affiancherò Aristarchos fino a vedervi morire, uno dopo l’altro, nelle battaglie che affronteremo. Lo faremo però con l’onore che imparerete a conoscere e lo faremo con il coraggio che vi tireremo fuori.»

    Gli sguardi di Vatinio Aurunco e Aristarchos Temistocle si fissarono uno nell’altro per un lungo istante.

    Si riconobbero.

    Provenivano dalle stesse zone, così come l’altro addestratore, anche lui originario delle rive del Liris.

    Senza distogliere lo sguardo da quello di Vatinio Aurunco, il campidoctor Aristarchos riprese a parlare: «I ruoli sono questi. Io comando, tu obbedisci, ragazzino.»

    Vatinio Aurunco si limitò ad annuire senza tuttavia dimostrare assoggettamento.

    Nel frattempo, continuavano a giungere carri carichi di fanciulli da destinare alla leva, prelevati da ogni parte della penisola italica e della Gallia inferiore.

    Vatinio Aurunco notò che ogni gruppo era accolto da due giovanissimi principales che, verosimilmente come era accaduto a loro, erano della stessa zona d’origine dei fanciulli giunti sui carri.

    Verso sera gli venne servito un rancio caldo, concluso il quale vennero radunati al centro della piazza d’arme.

    Poco dopo, nella caserma illuminata dalle torce, fece ingresso una turma di cavalieri anticipata da un generale.

    L’alto ufficiale smontò da cavallo e venne accolto dai molti ufficiali da campo, tutti impettiti nel saluto militare.

    Il generale salì sul pulpito e prese a iniziare l’adlocutio, il tradizionale discorso alle truppe.

    Questa volta, però, di fronte aveva delle reclute.

    «Sono il Prefetto del Pretorio delle Gallie⁹ e farò di voi dei legionari. C’è una cosa che dovete sapere fin dall’inizio, ed è che verrete addestrati come i soldati della Roma della massima forza. Utilizzerete gli equipaggiamenti delle legioni che furono, verrete addestrati a combattere con il gladio e manovrerete con le stesse tecniche del passato. Sarà così che diventerete micidiali e invincibili.»

    A quelle parole, ancora una volta, gli sguardi di Vatinio Aurunco e di Aristarchos Temistocle, si incrociarono.

    Antonino Tacito, l’altro addestratore, se ne accorse e sussurrò all’altro campidoctor: «Perché ti fissa?».

    «Perché è quello che ci detesta più di tutti. Ma imparerà ad amarci e a considerarci fratelli» fu la risposta.

    Vatinio Aurunco fissò i volti dei giovani ufficiali nella sua mente, ben conscio del fatto che avrebbe condiviso con questi molti, molti anni della propria esistenza.

    ¹ San Pantaleo (305 ca. a Nicomedia) era il medico personale di Galerio (Gaio Galerio Fulcino Massimiano). Subì il martirio durante la grande persecuzione posta in essere da Diocleziano, durante la quale vennero emessi editti che revocavano i diritti di chi professava la religione Cristiana. Insieme ai Santi Cosma e Damiano, Pantaleo era considerato uno dei quattordici santi ausiliatori. Nella località termale di Suio Terme, nel comune di Castelforte (LT), esiste ancora una zona che porta quel nome secondo la toponomastica.

    ² Vescinae: zona termale situata tra Minturnae e Trifanum, oggi rispettivamente Minturno (LT) e Cellole (CE).

    ³ Era chiamato Liris il fiume Garigliano che divide le regioni Lazio e Campania. Sulle sue sponde si sono svolti fatti storici importanti in epoca romana, ma anche in quella Medievale e rinascimentale, divenendo poi teatro bellico durante la Seconda Guerra Mondiale, lungo il quale era tracciata la famigerata Linea Gustav.

    Minturnae: Cittadina sorta sulle sponde del Garigliano, attualmente corrisponde al territorio di Marina di Minturno – comune di Minturno (LT).

    Solido: moneta romana in oro introdotta da Diocleziano nel 284 circa.

    Suessa: l’attuale Sessa Aurunca (CE).

    Campidoctor: addestratori di solito altamente specializzati delle truppe romane. Sono stati trovati esempi di campidoctor anche per le truppe ausiliarie, casi che si avvicinano molto alla circostanza narrata e corrispondente in nota.

    Principales: ufficiali di rango inferiore dell’esercito romano.

    Petrus Marcellinus Felix Liberius: Pietro Marcellino Felice Liberio, generale e patrizio romano, nominato Prefetto del pretoria d’Italia e delle Gallie.

    Capitolo II

    Vexillatio, 31 anni dopo

    Gallia Belgica, piccolo borgo fortificato di Duro Catalaunum,¹ none di settembre² del 476 d.C.; anno 1229 dalla fondazione dell’Urbe.

    La neve cominciava a scendere a fiocchi grandi e, tuttavia, leggeri.

    Parevano fluttuare sospesi, sfidare le folate di vento.

    Le sentinelle sui bastioni si scaldavano le mani attorno ai bracieri.

    Ogni respiro emetteva lunghe nubi di vapore.

    I loro sguardi, oltre le mura di Duro Catalaunum, erano volti alla ricerca di ciò che speravano non vedere mai.

    Anche quella fredda mattina dalla porta est entrarono diverse decine di profughi.

    Vennero accolti da un drappello di legionari e dal centurione a cui era stato assegnato il comando della vexillationes, la guarnigione lasciata a presidiare quella parte sperduta del territorio.

    I soldati videro sfilare uomini, donne e bambini ridotti alla fame, vestiti di ciò che erano riusciti a recuperare al momento del saccheggio.

    Con loro non c’era nessun anziano, avrebbe rallentato la fuga.

    Un optia guidò i profughi per le vie lastricate e li fece entrare nella sala grande del palazzo del Governatore, l’unica in grado di ospitarli tutti.

    Quest’ultimo non aveva però voluto essere presente, poiché, a suo dire, impegnato in un colloquio con il vescovo.

    Tutti sapevano che si trattava in realtà della solita scusa per non avere a che fare con quel tipo di problemi.

    Sperava infatti, il Governatore Attilio Fatico, di riuscire a tornare nelle grazie dell’Augusto e poter far rientro a Ravenna.

    Toccò al centurione primae spatha Aristarchos Temistocle il difficile onere di ricevere gli sciagurati che la sorte aveva deciso di salvare dalle torture dei barbari.

    Alla sua vista il gruppo di sciagurati si fermò.

    Lui si grattò il collo ricevendo momentaneo sollievo da una piaga causata dall’umidità di quel maledetto posto.

    Lui, originario di Minturnae e figlio di madre romana e di padre navigante ellenico, così abituato al sole e alla salsedine, di cui da tempo non ne ricordava più nemmeno l’odore.

    Lanciò un’occhiata ai soldati e subito alcuni di loro portarono delle anfore contenenti acqua fresca con cui dissetare i profughi.

    Il centurione cercò con lo sguardo qualcuno con cui instaurare un dialogo.

    A parlare a nome di tutti fu un uomo che, a giudicare dagli abiti che indossava, doveva essere un contabile.

    Nonostante i tessuti fossero laceri e visibilmente sporchi, facevano intuire che erano confezionati con rifiniture pregiate.

    Le mani erano sporche di terra, il viso contratto dallo sgomento. Gli occhi incavati e stanchi, eppure vigili come se si aspettasse di venire trafitto da un momento all’altro.

    Aristarchos distolse lo sguardo dall’uomo facendolo scorrere sul gruppo di profughi. Il loro stato era pietoso. Si capiva che da diversi giorni non si nutrivano in modo decente.

    L’uomo, il contabile, prese a parlare.

    «Centurione, proveniamo da Silvanectum.³ La città è stata dapprima presa d’assedio e poi saccheggiata dagli eruli. Erano circa tremila. Ma da ciò che siamo riusciti a comprendere si trattava solo di una piccola parte del loro esercito. Il presidio militare a difesa della città era composto da circa un centinaio di soldati che hanno resistito solo qualche ora. Purtroppo, sono stati tutti passati per le armi. Molti di loro prima di venire uccisi hanno subito atroci torture. Agli arcieri tagliavano dapprima le dita delle mani e poi cavavano gli occhi. Io stesso ho visto un gruppetto di eruli scuoiare vivo un soldato al quale hanno levato la pelle, dalle spalle fino alla vita. Una volta oltrepassate le mura quei barbari si sono lasciati andare alle più terribili nefandezze. Le donne e le bambine sono state violate e uccise. Gli anziani quasi tutti sterminati. Gli uomini sono stati trucidati, fatta eccezione di quelli che erano stati scelti per essere venduti ai mercati degli schiavi della Persia e della Dalmazia. Il capo del contingente barbaro passeggiava per le strade della città tenendo in catene una donna che costringeva a camminare a quattro zampe. Poi l’ha uccisa di fronte il sagrato della chiesa dedicata a Sant’Apollinare⁴ sotto gli occhi increduli del diacono. Quest’ultimo tentava invano di intercedere per evitare alla donna quella fine così oltraggiosa, ma gli è stata strappata la lingua e affissa penzolante alla porta. Poi, dopo avergli tagliato entrambe le braccia lo hanno squartato.»

    Il centurione primae spatha serrò le labbra. Un senso di rabbia gli attraversò il corpo e sentì il cuore martellargli nelle tempie.

    Si chiese come mai la Legione V Ferrata non fosse intervenuta.

    Possibile che nessuna staffetta era riuscita ad avvisare le avanguardie del generale Marcellino? Eppure, erano acquartierati nei pressi della città saccheggiata.

    Raccolse quanta più aria poteva prima di esprimersi: «Farò in modo che veniate rifocillati per quanto ci sarà possibile. Qui sono mesi ormai che non arrivano rifornimenti di grano e le riserve cominciano a scarseggiare anche per noi. Comunque non temete, siete al sicuro adesso».

    Non aggiunse altro ostentando una sicurezza che in realtà non possedeva. Sapeva benissimo che con gli uomini che gli aveva lasciato il Generale della Legione non avrebbe resistito per molti giorni in caso di assedio. Aveva a disposizione la sua centuria oltre all’ausilio di un’altra unità, al comando dell’altro centurione Vatinio Aurunco.

    Quest’ultimo si era dimostrato un buon combattente, rispettoso degli ordini e rigido nel darne. Tuttavia, ad Aristarchos Temistocle dava l’impressione che fosse più portato alla professione di litteratores⁵ visto il suo modo di fare. Tuttavia, in combattimento se la cavava bene e durante la battaglia di Arles si era anche distinto per valore e coraggio. Portava sul proprio corpo numerose cicatrici che gliene ravvivavano il ricordo.

    Con il gesto di una mano Aristarchos Temistocle richiamò l’attenzione di un attendente.

    Questi si avvicinò terminando il passo con un rigido saluto militare: «Comanda centurio».

    «Cerca il centurione Vatinio Aurunco e digli di raggiungermi» ordinò.

    L’altro sparì subito dopo per eseguire il comando.

    ***

    A passo spedito attraversò il colonnato del peristilio⁶ infilando la porta della sala.

    «Centurione…» provò a chiamare l’uomo che reggeva le natiche della donna sotto di lui.

    «Centurione, ti vuole il comandante.»

    Ma niente.

    L’altro proprio non sentiva e continuava a muovere il bacino armonizzando con la donna un amplesso.

    Quando ebbero concluso, l’uomo si gettò al fianco della donna ansimando.

    Solo allora degnò di considerazione il legionario che se ne stava lì, speranzoso di attenzioni.

    «Di al primae spatha che sto per arrivare. Va!»

    Prese a vestirsi non prima di aver baciato focosamente la donna che stava per assopirsi.

    Quando il giovane centurione Vatinio Aurunco giunse al suo cospetto si irrigidì nel saluto militare.

    «Ti saluto centurione!» quasi urlò presentandosi.

    Lo sguardo fissava oltre la figura del comandante.

    Aristarchos lo studiò accennando un saluto scontroso con un gesto del mento. Il giovane si presentava con indosso la corazza perfettamente lucida. Il mantello porpora gli pendeva dietro una spalla mentre il collo era protetto dal focale.⁷ Al fianco pendeva il suo gladio. Sotto il braccio sinistro teneva l’elmo crestato trasversalmente di bianco e di nero.

    Era praticamente perfetto. Ma non bastava.

    «Stai giungendo da Ravenna, forse?»

    Vatinio Aurunco si schiarì la voce prima di replicare: «La dissenteria mi gioca brutti scherzi centurione…» mentì.

    Il comandante non gli credette. Ma poco importava adesso. Doveva dare ordini e senza perdere tempo.

    «Centurione, Silvanectum è stata saccheggiata da un reparto di eruli. Sembra che si trattasse solamente di una parte del loro esercito, di fatto ben più numeroso» fece una pausa accertandosi che l’altro avesse compreso la gravità di quanto stava dicendo. «Tuttavia, nel racconto dei profughi c’è qualcosa che non torna. La Legione di Marcellino non è intervenuta. Inoltre nessuna staffetta è giunta qui a Duro Catalaunum per avvisare di quanto stesse accadendo…» poi parve domandare a se stesso «Perché neppure le avanguardie ausiliarie di Marcellino hanno ingaggiato con i barbari?»

    Vatinio Aurunco annuiva leggermente con il capo senza tuttavia interrompere il ragionamento del superiore. Contemporaneamente rifletté sul fatto che negli ultimi tempi giungevano solo notizie infauste e portò la mano tra le gambe a fare gli scongiuri.

    Il centurione primae spatha continuò a parlare: «Nel buco del culo del mondo in cui ci hanno destinati sta accadendo qualcosa di oscuro e pericoloso. Raccogli un manipolo di soldati e spingiti verso sud alla ricerca della Legione. Dovrebbe essere acquartierata dalle parti di Argentoratum».

    Vatinio Aurunco apprese con ansia quelle nuove. Significava che i barbari erano ormai molto vicini e le cose si sarebbero messe male.

    Aveva la consapevolezza di far parte di forze decisamente inadeguate per la necessaria difesa di quello sperduto avamposto dell’Impero in cui lo avevano spedito.

    Tra l’altro lui quel posto lo detestava. Faceva freddo e le nuvole erano quasi sempre plumbee, anche in estate.

    Invece amava le coste del Tirreno e il loro clima, le delicate fragranze dei suoi luoghi d’origine. La chiamavano Vescia, nonostante si trattasse di una città rasa al suolo molti secoli prima.

    La gente del luogo continuava a chiamarla in quel modo, fin dai tempi di Settimio Severo.

    Gli parve di rivedere dinnanzi gli occhi il fiume che scorreva lento fino alle coste di Minturnae.

    Avvertiva il sole sulla faccia.

    Fu la voce del comandante a dissolvere quelle piacevoli sensazioni.

    Senza mostrare all’altro il proprio stato d’animo, annuì dando a intendere di aver compreso l’ordine.

    Stava per voltarsi, ma il centurione Aristarchos Temistocle gli fece un ultimo avvertimento.

    «Fai attenzione. Se i miei timori sono esatti, le foreste qui intorno brulicano di barbari. E si stanno preparando al saccheggio di queste terre. Organizza una buona scorta.»

    «Centurio…»

    «Cosa?»

    «Le nostre mura sono ancora intatte, ma non li fermeranno.»

    «Ne sono consapevole, e con ciò?»

    «Potrebbe accadere che non torneremo più a casa.»

    «È il dovere che hai scelto arruolandoti nell’armata imperiale. Poter non tornare a casa.»

    «Non l’ho scelto, mi hanno comprato. Mi sento abbandonato da quello stesso Impero che ho deciso di servire.»

    «Sono frasi pericolose queste. Farò finta di non aver sentito. Adesso vai, compi la tua missione.»

    Il giovane centurione ripeté il saluto militare e uscì dalla stanza con la stessa andatura con cui era entrato.

    Ripensando alla prospettiva di rischiare il non ritorno a casa, riportò la mano tra le gambe rinnovando gli scongiuri.

    Si recò agli acquartieramenti della sua centuria passando in rassegna i suoi uomini, per decidere quali scegliere per quella missione.

    In quell’occasione udì delle urla che attirarono la sua attenzione.

    Si voltò e vide il legionario Fulcino Agricola Stazio legato per le mani e appeso a un albero.

    Aveva il capo chino e imprecava.

    «Legionario… per quale motivo sei stato punito?» gli chiese avvicinandosi nel frattempo.

    Fulcino Agricola Stazio alzò il capo sorridendo a mezza bocca. Evidentemente il dolore delle vergate subite era ancora abbondantemente percepibile a giudicare dall’espressione.

    Poi rispose: «Sono stato punito perché ho disobbedito a un ordine, comandante…» strinse i denti a causa delle fitte prima di riprendere «… ma al calar del sole mi libereranno.»

    «Chi ha ordinato la tua punizione?»

    «Il primae spatha in persona. È a lui che ho disobbedito. Mi aveva dato disposizione di raccogliere della legna al di fuori delle mura con altri quattro uomini, ma io mi sono imboscato nell’armeria nel tentativo di farla franca. Un soldato della sua centuria però mi ha notato e… la fine la vedi con i tuoi stessi occhi» ebbe la sfrontatezza di riderci sopra.

    Vatinio Aurunco represse una reazione d’ira. Non amava quando altri disponevano la punizione dei propri uomini. Anche quando si trattava di ufficiali di rango superiore. Ma in quelle circostanze litigare con il centurione comandante sarebbe stato un gran bel guaio. Avrebbe dovuto usare tutte le sue doti diplomatiche. Tuttavia, la missione che gli era stata affidata richiedeva la presenza di quel bastardo di un legionario, abile nello scontro corpo a corpo.

    «Che venga liberato, immediatamente. Chiederò personalmente l’approvazione del centurione primae spatha, soldato» si rivolse alla guardia che aveva il compito di vigilare sul punito.

    Ma il legionario addetto, titubante, ebbe timore di obbedire a quell’ordine.

    «Centurione, se lo facessi e…» cercò di spiegare.

    «Forse ci legherò te a quella fune.»

    «Obbedisco centurio!» si limitò a rispondere.

    Necessitava di quella canaglia che avrebbe berciato per tutto il tempo, imprecando e mettendo in discussione ogni suo ordine, ma se ci fosse stato bisogno di estrarre la spada e combattere non sarebbe stato certo il tipo da tirarsi indietro.

    Fulcino Agricola Stazio, liberato dalle funi, si sciolse i polsi e le braccia indolenzite.

    Salutò il giovane centurione e, imprecando, si avvicinò a un angolo e prese a urinare.

    Vatinio Aurunco rimase a fissarlo.

    Il legionario si voltò: «Vieni centurione, piscia con me!».

    Non ne seguì una risposta.

    La mano del centurione si portò alla fronte, imprecando la sorte.

    Fulcino Agricola Stazio invece, sorridendo si recò in armeria a recuperare il suo equipaggiamento.

    ***

    Il manipolo, in tutto quindici uomini, uscì dalla porta sud mandando i cavalli al passo. Le bestie a ogni respiro emettevano nubi di vapore dalle froge, ma si mostravano abbastanza calme. A eccezione del cavallo di Fulcino Agricola Stazio, che scalciava smanioso.

    «Anche il cavallo è irrequieto come lui!» ironizzò Vatinio Aurunco vedendo il legionario che insultava l’animale cercando di calmarlo.

    Si voltò per controllare che il manipolo lo seguisse e che gli equipaggiamenti fossero stati ben preparati. Ogni soldato aveva con sé scorte di cibo per due giorni, che se opportunamente razionate sarebbero potute durare anche quattro.

    Le guardie sui camminamenti delle mura videro la breve colonna sfilare fino a perderla di vista. Continuarono a scaldarsi accanto ai bracieri accesi, discutendo sul futuro incerto dell’Impero e della città.

    Il drappello di legionari era ormai in cammino.

    Silenzioso, cavalcava un po’ in disparte l’optia Severino Maggioriano, un veterano proveniente dalla XXII Legione. Anche lui aveva partecipato alla famigerata battaglia di Arles, assieme al reggimento che i galloromani appellavano come Italici.

    Uno di poche parole certamente, ma quando si trattava di menar le mani era tra i migliori.

    I centurioni lo stimavano e così pure gli uomini.

    Aveva una memoria di ferro e nessun dettaglio gli sfuggiva in ogni circostanza, perfino nelle situazioni più critiche.

    Era capitato, si diceva, che durante la battaglia di Sicilia contro i vandali, sotto il comando di Marcellino, avesse tenuto testa a cinque barbari contemporaneamente, abbattendoli uno dopo l’altro. Inoltre aveva tirato fuori da un accerchiamento un manipolo di legionari altrimenti spacciati e ci era riuscito solo grazie alla sua particolare capacità di mantenersi freddo nel considerare le cose. Come se in qualunque condizione avesse una sorta di visione distaccata.

    Alla sera, dopo aver attraversato fattorie saccheggiate e date alle fiamme, sfilando davanti ai corpi martoriati dei fattori e le loro famiglie, decisero di accamparsi per la notte.

    Approfittarono di una stazione di posta abbandonata, di cui rimanevano in piedi solamente due muri. Da secoli ormai le stazioni di posta non funzionavano più come un tempo.

    Il decadimento dell’Impero e le continue incursioni barbare, oltre al disinteresse dell’amministrazione per la Cosa Pubblica, avevano sensibilmente mandato in degrado quello che una volta si poteva definire l’efficiente apparato di comunicazione Romano. E di conseguenza le reti viarie ormai erano totale stato di abbandono.

    Un giovane soldato si occupò del fuoco raccogliendo la legna necessaria, ammassandola all’interno di una cerchia di grosse pietre che avrebbero trattenuto le braci.

    Severino Maggioriano lasciò i soldati affaccendati a preparare l’improvvisato accampamento e si allontanò per controllare che non vi fossero esploratori barbari in giro. Sparì dentro la fitta boscaglia avanzando prudente come sempre.

    Fulcino Agricola Stazio invece stava rompendo a calci un letto tricline, per ricavarne altra legna da ardere.

    «Non voglio prendere freddo mentre dormo» si giustificò, incontrando lo sguardo disapprovato del centurione.

    Vatinio Aurunco cercò di impedirglielo riconoscendo in quell’oggetto un mobile di pregevole fattura. Si trattava effettivamente del lavoro di un artigiano molto bravo a giudicare dagli intarsi e dalle rifiniture. I due discussero animatamente per qualche minuto fino a quando il legionario non desistette dal farlo, gettando lontano i pezzi di legno che teneva tra le mani, e solo allora il giovane centurione lo lasciò stare.

    Fulcino Agricola Stazio però non riuscì a trattenersi dal borbottare: «Cosa può valere questo pezzo di legno marcio. Proprio a me doveva capitare un centurione sensibile alle forme d’arte?».

    Gli occhi del centurione, che aveva sentito, si volsero al cielo.

    Il manipolo consumò una cena arrangiata attorno al fuoco.

    I soldati, che avevano considerato l’arrivo dei profughi come l’inizio di eventi ancor più nefasti, commentarono lo stato di un Impero ormai allo sbando, mischiando pareri di carattere politico a battute sarcastiche rivolte alla sacra figura dell’Augusto.

    Con una fortuna inaspettata, la notte trascorse tranquilla.

    Tuttavia, il centurione fece strani sogni e ne attribuì la colpa ai presagi che gli attanagliavano finanche lo stomaco.

    Il manipolo si rimise in viaggio che era appena giunta al termine la quarta vigilia.

    Il pallore del sole invernale iniziava a fare da contorno alle cime degli altissimi abeti.

    Pochi minuti soltanto e lame di luce si infilarono tra i tronchi, costringendo la caligine sospesa sul suolo a svanire.

    Dopo aver percorso poche miglia, si cominciava a percepire nell’aria tersa un tremendo olezzo di morte che si faceva sempre più persistente.

    Stormi di corvi svolazzavano ovunque e le espressioni dei legionari si facevano via via più preoccupate.

    Severino Maggioriano, l’optia, fece un segno con il mento al giovane centurione Vatinio Aurunco, che a sua volta, compreso al volo cosa avesse voluto intendere, annuì…

    A quel punto l’optia spronò il suo cavallo e si avvantaggiò rispetto al resto del gruppo lasciando il sentiero e sparendo ancora una volta nel bosco.

    Il manipolo, tuttavia, continuava ad avanzare cautamente e a passo molto più rallentato.

    Solamente il rumore degli zoccoli dei cavalli violava quel silenzio carico di tensione.

    Vatinio Aurunco era vistosamente torvo. Aveva l’espressione del volto tirata, come se si aspettasse qualche brutta sorpresa da un momento all’altro.

    Chiamò a sé i suoi più fidi, Fulcino Agricola Stazio e Druso Variato, i due veterani del gruppo.

    Poi alzò il braccio e chiuse il pugno, senza dire una sola parola.

    Gli altri legionari che lessero il quel gesto un ordine ben chiaro, assunsero una formazione a difesa. Ma erano tutti in ansia perché consapevoli di essere in numero esiguo e di trovarsi in svantaggio nel caso fossero stati preda di un assalto nemico.

    Le spade erano sguainate e gli scudi pronti.

    Il nervosismo era tangibile e i cavalli parvero percepirlo. Sbuffavano e scalpitavano irrequieti.

    Severino Maggioriano si coprì il volto con il focale. Il puzzo della putrefazione si era fatto ormai irresistibile. Un conato di vomito lo colse di sorpresa. Ma si impose di proseguire oltre deciso a capire cosa fosse accaduto.

    Quando si trovò di fronte a un soldato dell’armata romana, legato a un palo con la pelle sanguinolenta e rivoltata fino al bacino, ebbe conferma dei suoi timori. Quel corpo martoriato indossava ancora la tunica e il cinturone. Il capo del poveretto pendeva innaturale, probabilmente gli avevano spezzato anche l’osso del collo.

    «Dei degl’inferi… cos’avrà potuto patire quest’uomo?» bisbigliò.

    L’attenzione era alta, rivolta a ogni minimo rumore.

    Sarebbe bastata una freccia lanciata da distanza a farlo risvegliare nell’Ade.

    La Legione era stata sterminata. Cominciava a esserne certo.

    Smontò da cavallo e proseguì a piedi. Risalì una dolce collina fino a raggiungerne la cima. Lo spettacolo che si presentò ai suoi occhi era agghiacciante.

    Migliaia di corpi giacevano cosparsi sul vasto campo di battaglia. Molte teste erano accatastate in tetre piramidi putrescenti.

    I vessilli avevano perso il loro onore, erano stati tutti raccolti su una di queste, come a mostrare lo scherno con cui venivano trattati i credi dei romani.

    Sul suolo rimanevano solamente le armi spezzate, le altre erano state requisite dai vincitori, mercenari di chissà quale tribù.

    Si trattava della disfatta dell’esercito del nord.

    L’ultima possibile resistenza dell’Impero d’Occidente all’avanzata dei barbari era stata spazzata via.

    Intanto gli occhi del legionario, ancora increduli, spaziavano sulla piana.

    Centinaia di corvi si stavano nutrendo dei brandelli di carne dei cadaveri, uno spettacolo raccapricciante.

    Finalmente scorse l’aquila della Legione.

    Era stata conficcata in cima a una delle piramidi di teste.

    Severino Maggioriano si avvicinò per raccoglierla ma, in quel frangente, riconobbe il volto tumefatto del generale Marcellino, il comandante dell’armata.

    Era davvero finita, pensò, preso dallo sconforto.

    Tornò velocemente al cavallo e si avviò verso il manipolo che lo attendeva in attesa di notizie.

    Quando lo raggiunse, avanzò al passo verso i commilitoni senza fare segni di saluto.

    Dall’espressione del suo volto, il centurione Vatinio Aurunco comprese immediatamente cosa avrebbe riferito di aver visto.

    L’optia fermò il suo cavallo: «Centurio… la Legione è stata completamente sterminata. Oltre quelle colline c’è il campo di battaglia. Una vasta pianura cosparsa di cadaveri. Dalle armi e dal modo in cui erano abbigliati i corpi dei nemici barbari ho capito che si trattava di goti, burgundi, eruli, turingi e alani».

    Vatinio Aurunco aprì la bocca per lo stupore. La notizia aveva il sapore acre della disfatta e avvertì un senso di sconforto tale da fargli abbassare lo sguardo. Poi si accorse che gli altri lo stavano guardando e recuperò l’assetto marziale, mostrando una calma che non aveva.

    «Dobbiamo tornare a Catalaunum, difendere la guarnigione. Almeno fino a quando non riceveremo rinforzi. Manderemo dei messaggeri a Ravenna con la speranza che l’Imperatore invii l’esercito…» la sua voce era poco più di un sussurro, ma quelle speranze in realtà erano pura illusione. L’esercito era in rotta. Gli alti ufficiali dell’armata d’Italia, alla testa dei loro contingenti ormai prevalentemente composti di

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