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Sinfonia alpestre
Sinfonia alpestre
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E-book209 pagine3 ore

Sinfonia alpestre

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Info su questo ebook

"E questo è il mondo nuovo a cui tu, artista dei quarant'anni, sei pervenuto dal tuo secolo di calma e di fierezza, la nuova scena che ti accoglie". Così si dice il protagonista di "Sinfonia alpestre" – racconto lungo, già pubblicato da Linati in Svizzera nel 1932 – un musicista che ha visto tramontare le proprie ambizioni con la Prima Guerra Mondiale. La presente edizione dell'opera, che raccoglie gli altri racconti "Gentiluomo contadino" e "Bellezza e amore", potrebbe prendere in buona parte le mosse da questa frase. È infatti "Sinfonia alpestre" a dare il la (per restare in tema) a tutte le storie qui raccolte: in un mondo orfano di sé stesso, popolato da artisti, creativi, sfaccendati, è il Sublime a fare da contraltare alle miserie della vita. Che si tratti di quello che si riflette nell'opera d'ingegno umano, nell'arte, oppure nella sconvolgente bellezza della Natura... -
LinguaItaliano
Data di uscita10 ott 2022
ISBN9788728447901
Sinfonia alpestre

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    Anteprima del libro

    Sinfonia alpestre - Carlo Linati

    Sinfonia alpestre

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1937, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728447901

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    SINFONIA ALPESTRE

    Questo racconto già pubblicato sul Convegno, è apparso, in puntate, sulla "Neue Zürcher Zeitung„, nel Marzo-Aprile 1932.

    I.

    21 Dicembre. — Da qualche giorno mi trovo quassù in questa pittoresca vallata dell’Alto Adige a terminare l’anno ed a fare un po’ di scì.

    È stata una buona idea. Un bel mattino ho indossato il mio costumaccio da montagna, ho collocati i miei scì nuovi sulla capote di un tassì, mi son fatto condurre alla stazione: e dopo una diecina d’ore, fra treno e trenino, son giunto quassù, in piena vallata, e ho preso alloggio in questo modesto alberghetto della Posta.

    Lo scì è uno sport affatto nuovo per me, ma i miei giovani amici di Milano me lo hanno tanto decantato che quasi mi vergognavo di non saperlo praticare. «Come, lei non sa sciare?». E questi giovani ti guardano con un’aria di pietà, come ti dicessero: «Povero rudere!». Come il ballo, qualche anno fa. «Lei non sa neanche fare due passi di fox trot?». Oppure il gioco, adesso. «Ma che sta al mondo a fare lei se ignora le regole del bridge?».

    Prevedo che trascorrerò due settimane deliziose in mezzo a questo violento candore di cime e che me ne tornerò poi a Milano rinfrancato di muscoli e di nervi, quando il più forte rigore dell’inverno sarà passato. Ma intanto voglio star un po’ a vedere se i miei muscoli mi servono bene. Non sono più un uomo giovine, ho quarant’anni, ed è logico che qualche crepa incominci ad incrinare nel mio organismo di solido lombardo.

    Fino adesso, a dir il vero, l’estro e la salute non mi hanno mai fatto difetto. Non v’è cosa al mondo che mi faccia tanta pena come l’artista che invecchia, la cui persona s’affloscia acciaccata dalle débauches dell’arte e dell’amore, a cui si fa asmatico il fiato e adiposa l’inspirazione, e cominciano a vedersi nella sua opera le tare dell’età come le macchie di sporco giallino che appaiono sulle carte invecchiate degli archivi… Ho perciò interrotto volontieri la serie faticosa dei concerti, delle riduzioni, delle conferenze, dei quartetti per venirmi a godere quassù in tutta libertà questa parentesi di gioia fisica e sana.

    Sono un po’ le mie scappatelle, queste. Scappatelle di scapolo perbene, si sa, onesti piaceri di un artista che trovandosi solo al mondo può permettersi di tanto in tanto qualche piccola follia. Certo se avessi moglie le cose non andrebbero così: ci sarebbero le cure della famiglia, i capricci della consorte e tanti altri grattacapi a mozzare le ali alla mia superba bramosia di libertà. Quantunque, diciamolo, non sono io forse un po’ stanco di questa stupenda e indeclinabile libertà che vo’ godendo da vent’anni?… Bah, non è poi detto che se trovassi una fanciulla di mio gusto non la sposerei. Il male si è che fanciulle simili non ne esistono più al mondo, e nessuno lo sa meglio di me. Durante la mia carriera di compositore debbo dichiarare che un discreto numero di donne è entrato nel mio cammino, a chiedere ospitalità alla mia gloria e alla mia borsa. Ho conosciuto delle fotogeniche, delle sportive, delle scandalose, delle scrittrici di romanzi freudiani; tutta una falange di falsi demonietti in gonnellino corto e zazzera al vento ha forzato i pensosi silenzi della mia creazione. Ma ahimè, ogni nuova avventura mi apportava sempre una nuova delusione. Nessuna di esse è mai riuscita a varcare la prima cintura del mio cuore. Pourquoi désirer autre chose? Ce seraient encore des affections nouvelles, et des nouveaux deuils, des déboires — et l’oubli du passé. Non, la solitude, le chaste amour des âmes fidèles.

    La miglior parte della mia giovinezza trascorse nell’anteguerra, io porto in me incancellabile il senso e la nostalgia della vita d’allora, con le virtù famigliari ancora in piedi, con la devozione (magari un po’ di maniera) di moglie a marito, con l’amore ch’era ancora idillio e passione: sicché se mi dovessi sposare vorrei una fanciulla che quei sensi e quelle virtù non li avesse ancora perduti… Ma non la troverò, amen, non la troverò di certo. Facciamo dunque dello sport che dopotutto è un eccellente compagno di solitudine.

    Il mio istruttore è un giovine di questi paesi, sulla trentina. Scabro e massiccio come un pezzo di rupe, ha un viso da bambinetto corrucciato e parla un suo strambo italiano che sta tra il veneto e il tedesco mal tradotto. Campa insegnando d’inverno a sciare e coltivando d’estate un po’ di campagna presso ad una sua casetta a nord del paese. A suo modo sembra un uomo felice.

    Stamani mentre c’incamminavamo sulla strada calpesta che mena su a Campo Pal dov’egli mi conduce a fare le esercitazioni, mi disse:

    — Lu gavrà sentito fare el mio nome, no? Mi me ciamo Sesoner. Go vinciuto tanti premi in gare di scì. Ma adesso go moglie e uno piccolo bambino e non corro più.

    A Campo Pal ci sono dei bei nevai intatti, al sole, dove io, mentre mi esercito, sprofondo fino a metà coscia. Fa caldo. Tutta la neve intorno è accarezzata dalla luce come un raso fine.

    Sesoner mi dice:

    — Adesso mi vago avanti e ghe fago una pista.

    Raggiunge la cima di un poggetto poi si lascia andare giù pel pendio, rompendo pari pari la superficie intatta. È bello allora vederlo scendere come volasse su tutto quel bianco lasciandosi dietro due bei solchi paralleli; entro i quali poi entro io, cercando di imitarlo e di ripetere la discesa. Ma ecco che giunto a metà del percorso comincio a sbilicare, vacillo e stramazzo in mezzo alla neve soffice e densa.

    Il difficile è tirarsi fuori. Annaspo con le mani e con le gambe, mi strizzo, mi divincolo, ma tutto è inutile: la neve mi tiene prigioniero nella sua mollezza ambigua. In quel momento la mia situazione è così buffa che mi vien perfino da ridere. Più tardi poi raggiungiamo insieme la strada mentre tutta la valle è piena di gente di questi paesi che ritornano in slitta dalla loro passeggiata festiva.

    Questa largura di valle s’è fatta bellissima sotto la neve. Di pomeriggio essa splende tutta al sole, a toni schietti e squillanti, con le cime delle rocce appena incipriate e la dolcezza quasi carnale dei pendii. Ma a sera che delicate emozioni fiabesche mi dà! Quando il sole tramontando sulle abetaie ritira a poco a poco il suo gran lenzuolo d’oro da tutta la conca, una luce quasi sovranaturale investe tutto il paesaggio. Si assiste qui come ad un’alchimia di colori. Le cime si tingono di ocra e tutto il cielo si riempie qua e là di laghetti di un bel verde minerale, inverosimile e adorabile come i colori sbagliati delle decalcomanie…

    A quell’ora tutti gli sciatori sono già rientrati nelle loro camere dove bollono i termosifoni. Si accendono i primi lumi lungo la strada del paese.

    L’albergo è quasi al completo, ma continua ad arrivar gente. C’è un po’ di tutto: qualche tenente degli Alpini, molta gioventù chiassosa, delle comitive di sciatori che ogni anno vengono a far Natale in montagna, e oneste famigliole.

    Molte, come sempre, le signorine. Le osservo. Ingoffite nei loro costumi di lana blu abbottonati fino al mento, i calzoni lunghi e stretti alle caviglie, hanno decisamente perduta quella che un tempo si soleva chiamare femminilità. E si direbbe che l’hanno perduta deliberatamente e con piacere. Non sono più né maschio né femmina, e nemmeno il delicato androgino caro agli esteti. Però, bisogna convenire che quando sono sul campo, il moto le rende più interessanti. Col viso invermigliato, con le zazzerette al vento esse corrono, sparnazzano, ostinate nel gioco. Si direbbe che tutta questa ebrietà di muscoli a cui abbandonano la parte fisica della loro persona abbia sostituito in esse l’amore, la rêverie, l’antico vizio sentimentale come l’amavamo e l’intendevamo noi nati nell’altro secolo e che voleva a sfondo i lunghi riposi e le romantiche canzoni. Non si pensa più alla qualità dei loro corpi vedendole scorrazzare a quel modo su e giù per questi clivi, affondate in quei costumacci che scoraggiano ogni desiderio di flirt.

    E poi troppo candore, qui, troppo freddo; tutto ciò, si direbbe, fa smarrire il senso del sesso.

    Dopo le rudi scorrerie del giorno, la sera ce la passiamo un po’ malinconicamente nella modesta saletta dell’albergo che dà, per mezzo di un boindo, sulla piazza del paese. Si chiacchiera, si fuma o si strimpella un vecchio verticale.

    C’è fra gli altri un gruppo di signori genovesi, gente piuttosto mutriosa, che tien sempre occupate tutte le poltrone della saletta. È composto di tre signore anziane, che siedono sempre categoricamente in fila e lavorano ad un vecchio tappeto: di un giovanotto bruno, dal sorriso stereotipo e dalla fronte a scafo e di un signore di cinquant’anni dall’aria assai distinta.

    Ma tra costoro la persona che m’interessa di più è una fanciulla alta, sottile, di una grazia singolare.

    A quanto ho potuto comprendere ella è figlia del signore distinto e nipote di quelle tre Norne accigliate e filatrici. È esile, slanciata, ha modi molto semplici e l’apparente età di venticinque anni. Se non propriamente bellissima, ha un sorriso così scorato su quel viso lunghetto dai toni caldi e vivificato da due occhi azzurri, ch’essa mi ha colpito subito come una figurina d’altri tempi. E con questo mi piacque vedere che se ne stava sempre sola, appartata. Osservai che il suo viso è pochissimo dipinto e che quand’essa è sul nevaio ama provarsi da sola mettendo grande impegno nello studiare i passi e le svolte.

    Là spesso l’accompagnano le zie, le quali non scìano, ma passeggiano sulla neve, come fossero in Piazza De Ferrari, in pellicce e gioielli, armate di un lucido paio di coturni.

    La cameriera, da me interpellata, mi dice che sono i signori Adorno di Genova.

    23 Dicembre. — In questi giorni m’è accaduto di pensare a lei con una certa riconoscenza, e non tanto perché mi piacque la sua grazia, quanto perché quel suo contegno così sereno e solitario mi faceva imaginare in lei una personalità singolare di ragazza: di una ragazza, cioè, che discostandosi dal tipo comune delle fanciulle dell’ultim’ora, da queste nostre novecentesche, avesse, come per miracolo, conservato in sé la fragranza, l’armonia, e il tipo delle fanciulle del mio tempo.

    Non ch’io lo rimpianga il mio tempo, con le sue vergini pensose e casalinghe, con le sue ibseniane e le sue dannunziane, con le sue maniche a gigot e le sue romanze di Tosti, ma è innegabile ch’esso serbava nella sua vita il segreto di una gentilezza propriamente umana.

    Stasera poi ho udito che la chiamavano Elena, e mi son detto che questo bel nome antico è degno di lei.

    Progredisco abbastanza bene e Sesoner è contento di me. Mi sta al pelo, il bravomo, anche per via di quel poco guadagno. La mattina, alle nove, egli è qui, puntuale, alla porta dell’albergo, e appena mi vede:

    — Sior dotor, stavolta bisogna farse onor.

    Mi metto gli scì e andiamo su a passo a passo verso Campo Pal a far calate e capitomboli.

    Ma oggi, sentendomi abbastanza in gamba, me ne son venuto da solo sulla pendice dietro all’albergo dove salgono a provarsi in calate i più esperti.

    V’era già molta gente, come al solito, che scorrazzava per la china, e giunto in cima a quella me ne stetti un po’ ad osservare il gioco di alcuni ragazzi che facevano a gara a chi calasse meglio. Un dopo l’altro si lasciavan andare giù per l’erta, arrivavano rapidamente in fondo, e là virando con un agile telemark, s’arrestavano nella neve fresca e molle.

    Come càpita in simili casi, anch’io fui invogliato a provarmi in una di quelle discese. «Bah, per male che la mi vada, mi dissi, avrò fatto un capitombolo laggiù in quel pezzo di neve che mi par disposta ad accogliermi». E piegate le ginocchia stavo per puntare i bastoni e demarrare quando d’un tratto levando gli occhi scorgo laggiù, sulla strada, il corteo delle genovesi che saliva adagio verso di me. Davanti a tutte è Elena con gli scì e dietro le zie, in nero, coturni e pellicce. Improvvisamente terrorizzato all’idea di dover fare un capitombolo in presenza di lei penso di sospendere la prova.

    Elena giunta sulla strada della ferrovia che attraversa il nevaio, saluta le donne che si avviano verso la chiesetta e arriva quassù tutta sola con lo scopo evidente di fare anche lei qualche calata. Porta un paio di guanti alla moschettiera e ha in capo un piccolo basco che le pende civettuolo da un lato. Stamane è proprio infinitamente graziosa.

    Io la saluto chinando il capo ed ella mi risponde un po’ sorpresa. È ansante, sudata. Mi viene da lei, improvviso, un odor di fanciulla felice, di bionde carni lozionate alla lavanda. Vedo che per un po’ se ne sta lì appoggiata al bastone, mentre il sole, già alto, allunga verso di me la sua ombra sulla neve, ondosa e quasi violacea.

    Rimane un po’ a guardare quel viavai di sciatori, poi si decide e si lascia andare anche lei giù per la china.

    Allora che accadde in me? Come affascinato da quel suo volo repentino (ma in quel momento penso che fosse in me un po’ di spirito d’emulazione) anch’io dò un colpo coi bastoni e mi lancio dietro di lei.

    Adesso richiamandomi ai dettami del buon Sesoner, tutto stretto e raggruppato nel mio sforzo io scendo, io volo, procurando di discostarmi dalla sua rotta per non andarle addosso. Ma ecco che giunto a mezzo del pendio comincio a diguazzare, a sgarrare; capisco che ho presunto troppo dalla mia bravura e che andrò a finire con una bella caduta in fondo al pendio. Che Dio me la mandi buona! Ormai non mi resta che scegliermi il posto migliore dove precipitare. Vedo un largo di neve folta ch’è alla mia sinistra e mi volgo colà… Ma ahimé purtroppo anche Elena ha deciso di far altrettanto. Sicché non potendo ormai più arrestarmi nella mia corsa e giocato da quella spece di fatale attrazione che esercitano gli ostacoli sui corridori novizi, io le cado addosso, l’urto, la travolgo, e tutto abbrancato a lei, ambedue andiamo a finire a gambe levate nelle neve. E là rimaniamo per qualche istante, affondati e mescolati insieme, un po’ ridendo un po’ imprecando e cercando di trarci fuori in qualche modo da quella situazione inattesa e miserabile.

    Ella fu la prima a rimettersi in piedi. Aveva ancora il viso affocato dallo sgomento e mi guardò tra l’indispettita e la scherzosa, spolverandosi la neve di dosso.

    — Ma che ha fatto, che ha fatto!

    Io seduto lì nella neve la guardavo contrito e ammaccato.

    — Su, adesso si tiri su! — mi disse com’ebbe finito di pulirsi, stendendomi cordialmente una mano e aiutandomi a rimettermi in piedi. — Sa che m’ha fatto passare un bello spavento?

    — Ah sì — risposi — è stato proprio un magnifico capitombolo. E lei mi scuserà, mi scuserà tanto.

    — Oh niente. Son cose che càpitano.

    D’un balzo fui in piedi e anch’io mi diedi a scuotermi la neve di dosso e ad accomodarmi i panni. In quel momento, lo confesso, mi sentivo il più miserabile uomo del mondo. E tanto più ero umiliato perché un po’ ridendo e un po’ dicendo cose buffe mi

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