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Due tempi in provincia
Due tempi in provincia
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E-book184 pagine2 ore

Due tempi in provincia

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Info su questo ebook

Sono due le storie contenute all'interno di questo volume: "Cupido tra gli Alambicchi" e "La Barbogeria". A tratti intrecciate, per altri versi separate, ruotano entrambe intorno al tema del ritorno, del ritorno in provincia per essere precisi. Da una parte un matrimonio combinato che costringe il giovane Alessandro a trasferirsi in un paesino della campagna lombarda, dall'altra la storia di una coppia, marito e moglie, che fanno ritorno, dopo tanto tempo speso tra le capitali europee, in un piccolo paese del nord Italia.
LinguaItaliano
Data di uscita14 dic 2023
ISBN9788728327739
Due tempi in provincia

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    Anteprima del libro

    Due tempi in provincia - Carlo Linati

    Due tempi in provincia

    Copyright © 1944, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728327739

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    AVVERTENZA

    Di questi due Romanzi, «Barbogeria» è uscito nel 1917, «Cupido fra gli alambicchi» nel 1942: alla distanza, dunque, di ben 25 anni.

    Se mi è piaciuto accoppiarli e mandarli fuori insieme si è perché ciascuno, a suo modo, mi par rappresenti un aspetto singolare della vita di provincia, dei suoi caratteri e del suo clima, in tempi diversissimi.

    So che «Barbogeria» sembrerà al lettore d’oggi un romanzo affatto giú di moda e per lo stile e per l’intreccio. Ebbene dirò che proprio questa fu una delle ragioni che meglio m’indussero a ristamparlo e lasciare alle sue pagine tutta quella semplicità, ingenuità e naturalezza, forse un poco gratuita, ch’esse ebbero quando mi uscirono dalle mani. E penso infine che bene o male quel Romanzo possa costituire il curioso documento di una giovinezza di quell’epoca svagata e ornatissima. E, se non altro, possa giovare a constatare quanto lungo, procelloso e stravagante cammino, anche nel costume letterario e psicologico abbia compiuto da allora, a cavallo di due guerre, la nostra cosidetta umanità.

    CARLO LINATI

    CUPIDO FRA GLI ALAMBICCHI

    CAPITOLO I

    UNA COTTA DEL RETTORE MAGNIFICO

    U na notte di maggio del 1788 un gentiluomo alto di statura, snello ed elegantemente vestito, passeggiava con certa impazienza nel ridotto del Teatro dei Quattro Signori di Pavia, fiutando di tanto in tanto una presa di rapé per ingannare l’attesa.

    Era un bell’uomo sui quaranta, con un viso arguto e sereno, con due forti rughe verticali fra ciglio e ciglio, labbra sottili e un paio di basette ai lati, che caratterizzavano l’uomo di scienza e di pensiero. Le poche persone che si trovavano in quel ritrovo lo avevano salutato con rispetto, ancorché egli facesse del suo meglio per sottrarsi ai loro sguardi, un po’ come un ragazzo che fosse stato colto in fallo. C’erano fra essi alcuni giovani nobiluomini che si distinguevano per le loro lunghe giubbe di seta, a ricami, per le ampie lattughe di trina sul petto e qualcuno persino per una vestigia di parrucca. Chi avesse avuto l’occhio esercitato a quei luoghi galanti, non avrebbe mancato di classificarli come dei gaudenti piú o meno squattrinati che aspettavano l’uscita delle danzatrici; che da qualche tempo, in quel piccolo teatro pavese l’impresario aveva messo su un Barbiere di Siviglia, melodramma buffo di Giovanni Paisiello, e lo andava intero lando, fra un atto e l’altro, di un balletto del Manzoli, con una troupe di danzatrici fatte venir da Milano.

    Quei giovani spiantati stavano là ancora in crocchio sussurrandosi il nome del maturo gentiluomo e commentandone la presenza, quando d’un tratto la porticina, in un canto del ridotto, s’aprí e un gruppo indiavolato di ragazze in abiti vistosi e fruscianti e bizzarre acconciature, irruppe nell’atrio. Subito i nobilastri diedero di piglio ai loro occhialetti e ciascuno si precipitò sulla sua beltà preferita. Dopo di che usciron tutt’insieme, mentre dalla porta del teatro, finita l’opera, sfollava anche il pubblico, che si veniva poi disperdendo qua e là per la piazza, fantasticamente illuminata dalle fiaccole dei lacchè.

    Di li a poco tutto tornò tranquillo e il gentiluomo riprese ancora le sue impazienti passeggiatine per l’atrio. Presto da quella medesima porticina una fanciulla piuttosto piccola e graziosa, in mantiglia e cappuccio, sbucò fuori, e verso di essa egli accorse afferrandole le mani con calore.

    — Divina, divina ancor una volta, Marianna! — egli le disse chinandosi su di lei e baciandole le mani col rattenuto entusiasmo di un signore di belle maniere. — Non potevate essere piú diabolicamente gaia e perfetta! Le vostre note son raggi di sole, fragranze di fiori. E il vostro spirito, Marianna, il vostro brio!

    Poi anch’essi uscirono, svoltarono l’angolo del teatro e si persero lungo una stradicciola che lo fiancheggiava, romita e già invasa dalla luna: una di quelle patetiche contraducce come solo Pavia ha il segreto di possedere, un poco storte, fiancheggiate da casine giallastre e silenziose, dalle lunghe gronde.

    I due amici rallentarono il passo.

    — Oh professore, professore! — esclamò la fanciulla. — Ma quando la finirete con le vostre lodi e i vostri complimenti? Sapete che mi fate insuperbire? Che finirò a credermi la prima «buffa» di tutta l’Europa?

    — Ma lo sei, lo sei, graziosa Rosina! — fece il gentiluomo mettendole un braccio attorno alla vita, mentre passavano in un’ombra piú cupa. — Tu sai che sono stato a Parigi, che ho frequentato quei teatri: ebbene ti assicuro che neanche là mi è accaduto di udire una voce piú fresca e piú manierosa. E che tratto, che fuoco!

    — Mi vuoi bene davvero, Alessandro? — ella fece fermandosi sui due piedi e volgendosi a lui con impeto di tenerezza.

    Per tutta risposta egli la strinse a sé, appassionatamente, poi si chinò a baciarla sulla bocca.

    Ella s’abbandonò felice.

    Adesso il cappuccio le era caduto all’indietro e la sua testolina, illuminata dalla luna che faceva capolino sopra di loro, apparve in tutto il fulgore della giovine bellezza.

    Era una di quelle fragili creature, tutte sangue e spirito, come soleva dipingerle il Longhi, quel tempo. Uu groppo di capelli bruni e ricciuti le faceva da cornice a un visetto birichino ma quanto mai dolce, tutto luce e calore, mentre le forme giovinette del corpicino frugolo e tondetto dinotavano in lei un’elastica forza che si spargeva piena di baldanza, per tutte le membra.

    Tosto si riprese e mormorò con una risatella:

    — Pensa, Alessandro, se ti vedessero in questo momento i tuoi allievi!

    — Oh, già, già, — ribatté il professore ripigliando il cammino, contegnoso. — Adesso sta a vedere che tu mi fai proprio diventare come loro.

    — E te ne spiace?

    La cosa era ormai nota a parecchi in Pavia. Alessandro Volta, il rettore magnifico dell’Università, il grande fisico, lo scopritore delle nuove leggi della materia la cui fama s’andava diffondendo per tutta l’Europa e che aveva assicurato all’Italia il primato nello studio dei fenomeni elettrici, era innamorato cotto di una prima «buffa» che cantava nel Barbiere di Siviglia di Paisiello, al Teatro dei Quattro Signori.

    E fin che la cosa fosse rimasta in Pavia, pazienza: lontano dal centro dei suoi affetti familiari, nessuno avrebbe trovato da ridire se uno scapolo, sui quaranta, s’avesse a pigliare qualche svago, cosi di straforo, tanto piú che lo si sapeva uomo amante di liete compagnie e a suo tempo, autore di versi amorosi; oltreché la città in cui egli insegnava e alla quale dava tanta vita l’Università con le sue centinaia di studenti, festosa di bei carnovali e di feste balzane, e la pianura pingue e irrigua che le si stendeva lieta intorno, suadevano a serenità e a spensieratezza. Ma il guaio fu quando i soliti zelanti referendari, le solite lingue invidiose, che non difettano mai in provincia, s’incaricarono di mandare attorno quella voce, esagerandone magari la gravità, per il semplice gusto di fomentare uno scandalo: tanto piú che alla fine la notizia non tardò a giungere anche a Como, patria dello scienziato, dove naturalmente fu appresa con quella sorpresa irritata e quell’incredulità con cui in un piccolo centro si sogliono accogliere notizie miranti a menomare il prestigio di un uomo che tutti eran d’accordo a considerare come una gloria cittadina, un’istituzione municipale.

    A questo riguardo la gente si era divisa in due: i soliti moralisti che deprecavano quasi come una calamità nazionale che una cosí stupenda intelligenza e gloria scientifica d’Italia fosse miseramente caduta nelle trappole di una canterina qualunque e che magari invocavano l’intervento dell’I. R. Governo a strapparvela energicamente e d’autorità; e quegli altri, invece, piú saggi e navigati, che per averli provati loro capivano benissimo che cosa volessero dire certi improvvisi cedimenti del cuore e dei sensi; che, anzi, lodavano l’indipendenza e il coraggio di quel brav’uomo nel seguire con quelle della materia le leggi del suo cuore, e dicevano: «Fa benone, fa benone! Arte e Scienza, insieme, chissà che magnifici figlioli vorran nascere!».

    Quanto a lui, il professore, se ne infischiava di tutti e due, faceva il comodo proprio e conduceva avanti quel suo amoretto cosí alla chetichella, giorno per giorno, coi dovuti riguardi alla sua posizione e sentendosi stranamente ringiovanito al contatto di quella passione.

    «Del resto che ci ho da fare?», si domandava quella sera stessa ritornandosene passo passo al suo quartierino dalle parti di San Francesco, dopo aver smaltito di buon appetito una piccola cena con l’amica sua all’albergo dei Tre Re, dove era alloggiata.

    «A quaranta sonati, celebre, eccomi qua innamorato cotto come uno studente. Rimedio non c’è. Ho preso fuoco come la mia pistola ad aria infiammabile. E che Dio me la mandi buona!».

    Il giorno dopo posteggiò verso Como, dove, appena arrivato, noleggiò un calessino e si fece condurre a Càmpora, il piccolo possesso sul versante della montagna di Solzago, dove era nato e che divideva con i due fratelli e le quattro sorelle. Buone giornate di famiglia e di riposo lo attendevano, in occasione delle vacanze di Carnovale, che l’insegnamento gli concedeva. Di solito il protofisico portava nella sua numerosa famiglia con la sua presenza, sempre attesa e amata, una gioviale serenità e una buona dose di buonumore.

    Ma stavolta a Càmpora tirava vento di buriana.

    Alla notizia recata in famiglia dallo zelante fratello Arcidiacono, che don Alessandro aveva pratica amorosa con una «buffa», fratelli e sorelle rimasero subito esterrefatti; poi debitamente riprovata la condotta del fratello lontano, cominciarono a fare dei grandi propositi fra di loro per affrontarlo durante la sua prossima venuta a Càmpora, ed esprimergli tutto il loro disappunto.

    Una grave vergogna stava per calare su casa Volta, minacciava la fama e il decoro del grande protofisico. Bisognava dunque combattere questa sua inclinazione. E per un po’ di tempo fratelli e sorelle non fecero che borbottare, complottare, indignarsi, alzare occhi e braccia al cielo e infine stabilir dei piani d’attacco per quando, don Alessandro tornato a Càmpora, avrebbero potuto cantargli la loro riprovazione a chiare note.

    Ma ecco bastava poi ch’egli, preceduto dalla rinomanza dei suoi grandi successi scientifici, sbarcasse dal calessino al cancello della sua graziosa villetta, tutto ilare e sereno, perché tanti fieri propositi repentinamente sfumassero e nessuno sapesse piú là dentro spiccare una sol parola contro di lui.

    Imbarazzati dalla schietta cordialità del suo carattere, dal prestigio che recava in sé e che lo vestiva come di un’aura di grandezza, dal viso e dalla parola eloquenti, cosi pieni di sapere e di misura e un poco anche dai regali che non mancava mai di portar loro, fratelli e sorelle preferivano rimandare ad un’altra volta l’attacco. Forse, chissà, il fratello Arcidiacono, pensavano alla fine, se avesse voluto, con un po’ di buona volontà… Ma si dava il caso che il fratello Arcidiacono, in quel tempo, fosse quasi sempre assente da Càmpora per i doveri del suo ufficio ecclesiastico e civile…

    CAPITOLO II

    PICCOLA SPEDIZIONE SCIENTIFICA

    D ue giorni dopo, la prima visita del Volta fu per l’amico Gattoni, il buon canonico, il suo grande amico Giulio Cesare Gattoni, mecenate, scienziato e scrittore falotico, che fin dall’infanzia con il suo acume e anche talvolta con il suo danaro (quando don Alessandro era in basse acque) lo aveva assecondato nella sua inclinazione scientifica e aveva messo a sua disposizione il suo gabinetto, senza mai fargli pesare tanta liberalità, né menarne vanto.

    Era un prete anzianotto piuttosto tozzo e corpacciuto, dal viso un poco rossastro, ma intelligente, e dai modi franchi e burberi del piccolo scienziato che vive in provincia. Aveva una casa di suo in Como, con un laboratorio di fisica in contrada di Porta Nuova, e ancorché spesso si lamentasse che il suo celebre amico lo venisse trascurando in quegli ultimi tempi, forse un po’ infatuato della sua gloria, e mai non lo nominasse nelle sue Memorie, lui che per il primo gli aveva appreso la via del sapere e della scienza, tuttavia ogni volta che lo vedeva comparire, dimenticava ogni ruggine e se ne faceva una festa.

    I due amici ragionarono a lungo dei fatti loro sopra una bottiglia di Grumello che il buon canonico aveva cavato fuori dal dispensino, poi don Alessandro mise a parte il Gattoni di una certa sua esperienza che intanto che era a Como desiderava fare sul gas delle paludi, intorno a cui si travagliava la sua mente in quei giorni. E tanto fece e disse che riuscí a persuadere il Gattoni di recarsi con lui, a certe bassure che si trovavano intorno a Cernobbio dove avrebbero passata la mattinata a individuare questo famoso gas. Era una idea che spesso passeggiava nella mente dello scienziato, questa di utilizzare il gas metano.

    Dopo una mezz’ora di cammino essi erano sulla palude e per tutta la mattinata si divertirono come ragazzi a pesticciare entro il fango e la terra, a farne schizzar fuori quel gas puzzolente per poi farlo passare,

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