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Milano d'allora
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E-book341 pagine5 ore

Milano d'allora

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Info su questo ebook

Milano e i suoi locali, le luci dei negozi, le vetrine appannate e il tram che si perde oltre la nebbia. È l'inizio del Novecento, e per qualche motivo è inverno. I teatri chiudono, sul marciapiede soffia un vento gelido, le finestre sono tutte illuminate. Carlo Linati osserva tutto, poi traduce su carta le sue impressioni, le emozioni, la malinconia, ed ecco che ne offre un affresco, un ritratto della Milano che non c'è più, della sua città di ragazzo. Attraverso l'occhio e la penna di Linati si torna indietro di più di un secolo per scoprire cosa è cambiato e cosa, nonostante tutto, è rimasto sempre lo stesso. -
LinguaItaliano
Data di uscita1 giu 2022
ISBN9788728309902
Milano d'allora

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    Anteprima del libro

    Milano d'allora - Carlo Linati

    Carlo Linati

    Milano d’allora

    SAGA Egmont

    Milano d’allora

    Copyright © 1946, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728309902

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    PREFAZIONE

    La rievocazione ch’io ho voluto tentare in queste pagine di una vita milanese della fine del secolo scorso e del principio di questo non vuole per nulla aver l’ambizione di seguire un ordine cronologico e di costituire in qualche modo un quadro storico. Anzi essa è stata fatta senz’ordine e svagatamete, ubbidendo solo al capriccio della memoria e al suo divagare climaterico. Prego quindi il lettore di non voler appuntarmi se magari, dopo aver accennato a cose accadute verso il 1908, gli parlo di altre che avvennero nel 1902 e se da fatti e costumanze di tempi vicini alla guerra mondiale do un balzo all’indietro su aspetti di vita apparsi, poniamo, sotto il sindacato di Pippo Vigoni. Questi miei ricordi li ho buttati giù così come mi venivano, ora in forma di divagazioni, ora di racconti o di piccole prose, come meglio pareva suggerirmele la materia delle sensazioni e delle cose rievocate. Non pretendo difendere questo mio metodo di rievocazione antistorica, quantunque come scrittore sarei tentato di dire che ha anch’essa il suo lato buono e, se non altro, quello che le vien conferito da un più immediato e vivido sapor di verità: di quella verità appunto che la memoria sa cogliere sul vivo quando è libera di scorrazzare a suo piacere nei momenti del suo più felice rievocare. Non grande periodo storico quello che va dai primi moti socialisti all’assassinio di Serajevo, ma uno certo fra i meno noti e meno trattati dagli storici, e ch’ebbe tuttavia una sua importanza, poiché in esso vennero a maturare e a fiorire i caratteri di una vita civile e modi e climi e tendenze ch’erano in embrione sullo scorcio del diciannovesimo secolo. ma soprattutto di grandissima importanza per me che in quegli anni ho passato la mia giovinezza; per modo che quella vita ho potuto sentire ed osservare meglio d’ogni altra, massime in Milano, che godendo allora della più serena libertà fu in quel tempo città piena di spirito e di iniziative e ricca, sia nell’arte che nel costume, di un suo tipico slancio di vita. Periodo, comunque, che mediante un accorto gioco di equilibri politici ed economici seppe mantener viva per lunghi anni una pace che oggi non rimpiangiamo mai abbastanza.

    MILANO, ALLE SEI DI SERA

    Febbrajo, 1909

    Le casucce schierate sul Naviglio, grondanti d’umido e d’ombra, stagliano sulla rosea irradiazione del tramonto di Febbrajo i profili netti e bizzarri delle loro gronde: lungo la via brilla, accesa di fresco, la curva linea dei lampioni. Giù nel canale l’acqua è di un bel verde giada, lungo i muri, rosea là dove specchia il cielo e, più innanzi, le gloriose paulonie di Casa Visconti fantasiosamente irretite dalle glicine vi gettano entro un’ombra che mi rammenta le fonde pescaje del mio lago natale. Fin che tutto dilegua entro il nebbione che dilaga sulla città.

    Eccomi in Verziere. E qui mi accoglie una gentuccia briosa, tutt’olezzante la polenta e il soffritto, che mi pinge al vivo la qualità del rione. Poiché qui siamo proprio nel cuore di una Milano giocondamente vecchia, di una Milano cordialona, pappona e festevolmente urlacchiante, ma indigena, genuina: qui brillano ancora aspetti e sensi cari al Porta e allo Stendhal, e meglio che altrove la città si denuda, mostra la sua natura spensierata e ventrajola. La piacevolezza saporosa del popolino, la sua spassosità badiale e ridanciana, massime all’ore dei pasti, qui tocca il suo vertice. Zeppe le botteghe di commestibili, per la piazza brulica una folla piena di pacchetti e di corbe, di bon’appetito! e di chelstagaben! di discorse sul cibo e le sue cotture.

    Questi cantucci di vita schietta popolare si fan di giorno in giorno più radi. Queste casettine blu o bigie, questi cortiletti d’ardesia dove erbajole tonde e colorite sciaguattano erbaggi nei vecchi dogli: queste vecchiarelle in vestaglia di calicò che s’affacciano a veroncini minuscoli a mondar dal secco un cespo d’erbasavia o ad accarezzarvi il soriano, li gusteremo per poco tempo ancora. Già doviziose mostre di salumi e pesce fresco inframezzano la sfilata delle bottegucce, già qualche rosticceria tutta majolica fa brillare i suoi fuochi cruenti sotto la schidionata dei polli o ostenta in vetrina quel piatto incomparabile per cui il Porta scrisse la famosa quartina:

    Ed i tordi più di trenta

    in lardosa maestà

    stavan là sulla polenta

    come turchi sul sofà.

    La cànova è rimasta, e dentro, operaj intorno al tavolone coperto di panno verde giocano a morra in quel resticciolo di giornata viva, accompagnando le cifre vociate con pugni sonori. Traballano mèzzi e bicchieri e quelle facce, quelle schiene curve sotto la cetra a gas son belle, ci lèggi forza, bestialità serena. E le lor voci fan tutt’uno coi gridi ciompeschi dei venditori di finocchi e di caldarroste che lì sulla soglia si sgolano, ritti, a gara, coi lor cavagni al piede.

    Fo una traversa, giungo in Piazza Beccaria: ed ecco all’improvviso, là al di sopra del tetto di una locanda, agile, veloce, come una mistica ditata d’inchiostro sullo sfondo del crepuscolo, l’estremo pinnacolo del Duomo. In certe ore del giorno certi particolari di Lui che ti arrivano addosso così all’impensata dal fondo di una via, affacciandoti a una finestra, guardando al di sopra di un’altana, qualche pezzo d’ogiva e qualche santone ritto sulla sua guglia fiorita che ti càpiti di cogliere impreveduto, da lontano, e come mescolato in questa vita strapazzona di case e di traffici, ecco ti mettono nel cuore un anelito improvviso. Ti dici: «Lì certo è una grandezza ch’io credevo obliata».

    Dal fondo della piazza un caffè mandava il suo lume giallo focoso il cui riflesso veniva giù guizzando sui selciati umidicci. Figurine nere, annoiate passavano in quel lume.

    È questa l’ora in cui Milano si toglie le sue maschere, in cui dà fuori il suo intimo genio d’atti e di colori. La brumettina che s’alza dall’umido e vela senza smorzarli i contorni delle cose, la vita un po’ misteriosa, un poco grave ma non sognante ne lontana che tanto mi appassiona errando fra questi aspetti di cose e d’uomini, soltanto in quest’ora io me le godo nella loro patetica delicatezza di toni e d’odori.

    E io ti ho cara, Milano, per gli inattesi doni che tu mi porgi in questi scorci di giornata morente. È proprio fra queste tue nebbie ch’io sento per te un amor caldo ed oblioso quasi tu mi fossi madre davvero, e non solo adottiva.

    VECCHIE MUSICHE

    Cembalo 1908

    «Compermesso ?»

    L’accordatore Bagliardi, stretto nella sua vajanetta spelacchiata, con la busta dei «ferri» sotto il braccio, entrava inchinando la compagnia con un saluto strasciconi del cappellaccio alla Verdi: attraversava la sala e filava dritto in salone.

    Era un ometto di mezza età dai capelli grigi e irti sopra una fronte strapazzata di rughe: nel complesso un tipo di quelli che nel primo decennio si solevano comunemente definire tipi d’artisti.

    Da quel momento, per un pajo d’ore si sentiva per tutta la casa il rintoccare monotono delle note e degli accordi che il Bagliardi sgranava sulla tastiera. Seduto sul taburè, gli occhiali sul naso, tenendo una mano sui tasti, manovrava con l’altra la chiavetta nel cuore dello strumento a cui aveva alzato il coperchio e denudate le viscere di metallo.

    Alla fine vi strimpellava su una mazurchetta e allora, quasi ad un segnale, compariva la cameriera con un bicchierino di marsala e un paio di savojardi.

    Talvolta era la padrona stessa, Donna Edvige, che si degnava portarglieli. «E così, come andiamo, Bagliardi?»

    «Era molto giù di corda, sa?»

    «Lo imagino… I miei ragazzi lo han pestato per tutto Carnovale. Poi abbiamo avute ben tre festicciole da ballo, si figuri!»

    Allora, per congedo Bagliardi strimpellava un potpourri della Lucia o del Rigoletto che la signora stava a sentire, complimentandolo. Dopo di che, rimettendo i ferri nella sacca, Bagliardi le diceva che oh Dio, ai suoi tempi, sa, anche lui, ai suoi tempi avrebbe voluto dedicarsi al comporre, che ci aveva una grande vocazione… e finiva a confessare che aveva scritto romanze e pezzi concertati e perfino un’opera: Adalgisa. «Ma lei sa, lei sa, quei benedetti editori…»

    «Il vero genio non è mai compreso», sentenziava la signora. «Il suo disturbo Bagliardi?»

    «Le solite dieci lire.»

    La signora gliele dava. Bagliardi faceva un profondo inchino e si congedava.

    1940

    Il vecchio verticale giace solo in un canto del salone, nessuno va più a sonarlo.

    Non s’usa più suonare il cembalo. È giù di moda. Solo nei concerti e nei jazz è ancora tollerata la sua ironica dentiera e la sua risata funebre. E nei jazz più sconquassato è, meglio è.

    Ma in salone il cembalo è rimasto: forse perché non si sa dove metterlo e forse perché come mobile è ancora abbastanza decorativo.

    La signora è morta, le ragazze di casa si sono sposate, han avuto figlioli. Bagliardi è morto dopo l’altra guerra.

    Ma alle volte ho il sospetto che sia rimasto lì anche per far un po’ di compagnia a quel pacco di vecchie musiche da camera, sgualcite, polverose e giù di moda anche loro, che se ne stanno accatastate sul suo ripiano o sullo sgabello accanto.

    Hanno ormai quarant’anni di vita e più quelle musiche, dimenticate perfino dagli organetti di Barberia, le ingenue, semplicette musiche che han fatto sospirare e ballare le nostre mamme, espressioni di una vita spiritualmente povera ma intima, sognante e piena di sentimento. Tanto che quando in un momento di nostalgia mi metto a sonarmene qualcuna mi vien da sorridere pensando all’ingenuità di quei tempi, eppure mi fanno tanta tristezza!

    Potpourri d’opere di Verdi e di Donizetti, Albums di danze, Canzoni e Serenate, Melodie e Romanze: romanze in quantità. Il Segreto, L’ideale di Tosti: che furono cantate e ricantate a rompitìmpano dalle pallide, eteree signorine d’allora, in gonne lunghe, maniche a sbuffi, pettinatura alla Vetsèra, i guanti a metà braccio e quelle loro care boccucce a pomponìn. Se ne stavano là ritte impalate accanto alla candela del cembalo col foglio tra le mani lanciando pel locale i loro strazianti urli sentimentali.

    Ho una ferita in cor che gitta sangue,

    che a poco a poco mi faraaa morir!…

    È inutile, il Tosti è stato il fascinatore dell’epoca.

    E davvero come si combinavan bene quelle sue luminose melodie col clima d’allora, con quella moda di strazi signorili, in frac e decolté, di disperati e casti languori! Ed era un così bel uomo. Dicevano che a Londra, dove fece fortuna, frequentasse la Corte elegantissima di Edoardo VII, e vi si recasse con abiti che si confezionava bravamente da sé. Aveva una magnifica barbetta corta. Ha fatto delirare mezza Inghilterra.

    Ma fra queste vecchie musiche ci sono dei ballabili.

    Il primo che mi capita fra mano è uno del Beccucci. Labbra coralline, polka.

    È la più melensa polchettina che sia mai uscita dalle mani di un allineatore di note. Ma ecco che come ho terminato il primo tempo m’è balzato subito in mente un ricordo. Ma non è dunque questo il ballabile con cui la banda milanese diretta da Pio Nevi, soleva spesso incominciare il suo concerto in Piazza della Scala, ogni Giovedì sera?

    E allora scusate, scusate, se per un istante diserto il salotto borghese, e me ne vado laggiù a salutare la mia vecchia banda.

    Che impressione mi faceva da bambino quel semicerchio d’omoni in stiffelius e feluca piumata, ponzanti a dirotto dentro i lor lucidi strumenti! E come mi commoveva quella maestria d’alti suoni, voluminosi caldi potenti, che salivano su su quasi incavernandosi di tra i fastigi della Commerciale e della Galleria e si sperdevano poi verso il pallido cielo di Lombardia, così bello quand’è bello, nei sereni Giovedì dei concerti in piazza!

    Vero è che io ho avuto, sempre, una gran gina per la banda.

    Devo essere un po’ come Carducci: più forte si suona più mi piace.

    Mi ha sempre entusiasmato il suono asprigno ed eroico delle trombe. La cornetta in si bemolle ritta lassù su l’ultimo rango dell’emiciclo che lancia all’aria il suo squillo celeste, e vi ricama come una frustata la sua cavatina, il suo cantabile sfavillante. E il bombardino? questo baritono in giustacuore e coturni alla scudiera che sempre mugugna per una sua pena d’amor segreta e non corrisposta? Come mi faceva gustare la tristezza tenera e accorata ch’è nella passione dei vecchi quando intonava l’«Abbietta, Zingara» oppure «Eri tu che tradivi quell’anima…» E la famiglia petulante dei flauti e dei clarini che il Maestro, a bon conto, si teneva sempre davanti a sé perché non gliene combinassero una delle loro, ed eran tutti strilli e piroette come un branco di monelli?

    Musica per il popolo.

    Seduto s’una panchina di quelle che allora c’erano intorno al monumento di Leonardo, vedevo sciamarmi intorno una minuta genterella d’artigiani, di bottegai, di pensionati con pipa: buona e brava gente di melomani da sobborgo venuti su dalla periferia a sentire la loro banda… Tutto avveniva all’aperto, alla buona, tra il ron ron dei tram e delle carrozze, nel cuore della vita cittadina a cui la banda conferiva come un accento di semplice bontà e di sogno. Quasi mi piaceva più dell’orchestra. Era chiara onesta popolare, senza malizia. L’anima mia pur incline alle musiche più decadenti perché era sempre disposta a lasciarsi andar in braccio a quel gustaccio di buon Barbera?

    Il fatto è che quel Barbera era di spina. Mentre non lo era sempre lo sciampagna di quei centoventi Professori sprofondati nel Golfo Mistico della Scala.

    Mi torna a mente, nelle chiare sere di Giugno, quando il suono della banda m’entrava a folate dalla finestra dischiusa della mia cameretta di Via Santo Spirito, insieme al profumo delle gore e delle marcite che si assopivano intorno alla città al canto fitto e triste delle rane in amore sulle risaje lontane.

    Che salubre scoramento quei suoni e profumi mi piovevano nell’anima piena di ansie e di giovanili tremori! E rimanevo là a lungo appoggiato al davanzale a guardar giù nella strada deserta dove tra il palpitare ventoso delle fiammelle a gas scorgevo talora il furtivo baciottarsi di una coppia che risaliva a passo a passo la contrada… Le stelle ammiccavano al di sopra dei tetti, e ricordo che mi assaliva una voluttuosa amarezza a pensarmi là solo e romito, in mezzo alla città gaudente, nella gran pace animata da tanti echi lontani… Finché la notte scendeva e allora a poco a poco percepivo soltanto, dalla stazione poco discosta, i fischi delle locomotive che mi mettevano in corpo come una smania disperata di partenze.

    Laggiù davanti alla mia finestra, nelle sere d’inverno, compariva di solito un giovane vagabondo che soleva passare la notte inginocchiato davanti alla finestrella terragna dell’edificio delle scuole, ch’era davanti a casa mia, da cui usciva un po’ di caldo del calorifero.

    Era un giovine di trent’anni piuttosto tarchiato, con certe spalle facchine, ma si vedeva che il lavoro non l’attraeva perché spesso davanti a quella stufa gratuita passava volentieri anche buona parte della giornata.

    Non so perché ma in mezzo a un mondo che sgobba e tramesta quella visibile repugnanza ad ogni mestiere che egli dimostrava, quell’insistente devozione all’ozio e al vagabondaggio, mi piacque, mi attrasse sulle prime come un che d’eroico.

    A notte alta quand’io rincasavo trovavo sempre là il mio vagabondo inginocchiato davanti alla finestrella spalancata. Aveva disteso per terra dei pezzi d’avvisi strappati dai muri e vi stava su con le ginocchia, immobile per ore intere, col busto tuffato dentro al vapore. Pareva pregasse.

    Una sera lo interrogai. «Dormite?» gli chiesi.

    Non si mosse e borbottò: «È un dormire il mio?… Me ne sto qui perché non saprei dove passare la notte… Per bellessa!…»

    «E poi?»

    «Poi, magari, vado fuor di città, vado a sdrajarmi al sole sopra un mucchio di ghiaja.»

    «E… lavorare?»

    «Non c’è più nulla da fare a Milano», rispose. «A Milano han già fatto tutto e tutti i posti son presi… Io un mestiere l’avevo, ero bronzista. Ma dacché a Milano non si fanno più monumenti in bronzo sono disoccupato.»

    «E non preferite l’asilo a questo dormire?»

    «Troppe pulci!» esclamò. «E poi ci fanno alzare troppo presto e ci fan fare il bagno. Io odio il bagno, perché nel bagno si piglian le malattie degli altri.»

    Parlava con un suo fare brusco e rozzo, a testa china, tutto chiuso in sé. Di giorno lo vedevo che si toglieva le scarpe, che esponeva i piedi al caldo del vapore: quei suoi piedi pei quali dinotava una grande tenerezza. Li mondava, se li ripuliva, sputava sulle scarpe poi vi passava su con la manica del pastrano.

    A notte d’un tratto mentre io stavo per addormentarmi lo sentivo tossire laggiù quel poverocristo inginocchiato e allora pensavo che dev’essere atroce dover passare a quel modo tutta una notte di gennajo.

    Correvo ai vetri. Il suo duro viluppo d’ombra era sempre laggiù, inesorabile, contro il muro della scuola.

    E poiché danaro e roba che gli avevo mandato giù l’aveva presi a stento, senza ringraziarmi, un dì volli aver la soddisfazione di osservarlo bene nel viso ch’egli teneva sempre celato. Aveva una faccia gonfia rossa e coriacea come pel gran digiuno e lo star sempre all’aria. Di più il sudiciume gli s’era ingrommato a chiazze sulla pelle e così con quel cappello tirato sugli occhi e quelle spallacce sbiobbe mi fece l’effetto di una di quelle figure scherane di cut-throat che si vedono in certe pitture del tempo di Giacomo Primo d’Inghilterra.

    Ma come si sentì individuato, come si vide oggetto di pietà e di studio, scomparve di netto.

    E dopo d’allora non l’ho più rivisto.

    Ben poche cose si scorgevano in quella mia contraduccia, ch’era fra le più remote, e dove abitai tanti anni. Dalla mia finestra spiavo giorno per giorno lo scorrere di una vita monotona ed eguale, quasi di periferia. Sempre all’istessa ora passava l’uomo che vendeva i gamberi, poi l’altro con la carretta che vendeva «i bei scovitt de piuma» e, a primavera, «quel di spargitt spargiott» o della «maggiostra fresca e bella». Cari gridi della vecchia Milano, come vi ho ancora nell’orecchio!

    Ma dopo il 1905 la mattina d’ogni domenica, dalla casa attigua alla mia cominciò ad uscire un plotoncino di giovanetti in borghese armati di moschetto i quali al comando di un graduato si schieravano in mezzo alla strada e per un pajo d’ore di seguito, marciando bravamente avanti e indietro, facevano gli esercizi militari.

    Era quella, come seppi poi, una delle prime compagnie dei giovani nazionalisti, che in quella casa si radunavano e si preparavano ai futuri cimenti.

    Eravamo ai primi vagiti di quel partito che si dava gran da fare per diventare un partito anche in Italia. Ma a me pareva fosse pur sempre una disgraziata copia francese, di quella Francia da cui già troppe cose l’Italia aveva copiate e derivate: ma là almeno, mi dicevo, in fatto di nazionalismo hanno forti iniziatori, come il Barrès e il Maurras.

    Nulla era più spassoso che osservare la compunzione e l’impettitura con cui quei giovincelli, provvisti tutti di belle cravatte e di calzoni con la piega e con le chiome impomatate, evoluzionavano su e giù per la stretta contraduccia, destando lo stupore del tranquillo quartiere: e l’aria marziale del sergente che faceva echeggiare il suo un! due! tra quelle grigie casucce abitate da modesti professionisti.

    A una certa ora comparivano anche gli ufficiali del Gruppo che venivano in gran pompa a sorvegliare l’andamento e il progresso della squadretta: tutti in monture fiammanti e ripicchiate, con una sciarpa azzurra attraverso il busto, con aria da generali. E tra essi ricordo di averci anche visto Dino Alfieri che quanto ad eleganza, lasciamola lì, era proprio il più bel ufficiale-attore che avesse l’Italia. E anche lui gran discorsi alla squadretta, e dava gran passi su e giù pel marciapiede, in gran rumor di sciabola… Ma allora era quasi un ragazzo e quella sua montura e mansione gli stavano, quasi direi, bene: gli s’addicevano.

    Tutto bello, tutto lindo, pulito, azzimato e profumato in quella squadra. Le ragazze si fermavano a guardare e sorridevano ai guerrieri.

    Tutto un incanto, un idillio.

    Peccato che la guerra d’Italia abbia avuto bisogno più tardi di soldati un po’ più rudi, e di ufficiali un po’ meno eleganti. E tuttavia molti di quei nazionalisti caddero da bravi nel nome e per la forza d’Italia.

    Ma purtroppo, caro lettore, su quella mia contradetta e sulle sue adiacenze la memoria vuole ancora sospirare, vuol metter fuori qualche ricordo o qualche altra figura di quel principio di secolo milanese.

    Se dentro al grande caseggiato che stava davanti a casa mia udivo e vedevo, ad ora fissa, il chiasso delle scuole elementari, alla mia sinistra, al numero ventidue abitava, coi suoi, l’amico Raffaele Calzini. Io dovevo conoscere molto più tardi l’autore di tante colorite fantasie e vagabondaggi e critiche d’arte, ma di quei tempi ricordo piuttosto la figura serena di suo padre, uno dei giuristi più probi e intelligenti di Milano, e che fu per tant’anni Direttore del «Monitore dei Tribunali» la Rivista che si pubblicò per molt’anni prima della Grande Guerra. E ricordo quando verso le cinque vedevo quasi ogni giorno l’avvocato uscire a far un passeggino per la città con la moglie a braccetto, una donnetta in nero, non grande, come lui: li vedo tutti e due camminare con saporita lentezza lungo il marciapiedi della contrada: quadretto di squisita fedeltà famigliare, come ne ho ammirati pochi di più serenamente affettuosi in tutta la mia vita.

    Ma più in giù in fondo alla contrada era il bel palazzo dei Conti Bagatti Valsecchi passando davanti al quale, ogni volta che scendevo per entrare in Via Monte Napoleone, risentivo sempre come un’impressione di mistica solennità e di riverenziale timore. Non so, forse era l’aria claustrale e un poco tetra del cortiletto che s’intravedeva oltre i rabeschi in ferro del cancello d’ingresso, circondato da una quadruplice fila di colonnette di marmo abbinate, con un pozzo veneziano nel mezzo ed eserghi ammonitori in latino un po’ dappertutto grafitati sui muri senz’intonaco.

    Talvolta in sul mezzodì vedevo rincasare il più giovine dei due fratelli. Era un uomo bizzarro, alto, secco e rosso in viso come un nostromo, sempre in giacca doppiopetto, i pantaloni stretti e un caldanello in testa: una figura che aveva del goliardo e dell’asceta ad un tempo, specialmente quando di ritorno da qualche escursione se ne veniva giù per la contrada a cavallo di un bel roano, oppure issato e ritto su di una sua alta bicicletta: poiché egli era stato uno dei più fervidi promotori del ciclismo milanese e molti anche allora lo ricordavano da giovine quando passava sul Corso a cavalcioni d’una di quelle ruotone di ferro alte due metri, che furono le sacre bisavole della nostra birota attuale.

    Ma se pigliavo per Via Rossari e infilavo la Via Borgospesso, a sinistra, davanti al Palazzo dei Conti Gallarati Scotti, dove per molti anni più tardi ebbe sede il «Convegno» di Enzo Ferrieri, m’imbattevo nell’umile casuccia di Emma Radius Zuccari, detta Neera.

    Allora non era ancora sulla parete di faccia la lapide che la consacrava scrittrice di alti meriti e ben pochi a Milano conoscevano la romita e quasi celata dimora dell’autrice di L’Indomani. Come scrittrice poi era nota soltanto negli ambienti letterari e tra le signorine della borghesia perbene: il suo nome non echeggiava certo come quello dell’Ada Negri o della Serao, ma aveva ammiratori fedelissimi. Vorrei dire che anche per lei come pel Bettini, ci volle che il Tempo si degnasse far giustizia rivelandoci in pieno tutta la purità e la resistenza di tante squisite qualità d’anima e d’artista. Nella Milano chiassosa, gaudente, sentimentaloide e un poco parvenue d’allora, la schiva sua vita onesta e pensosa, la sobrietà degl’intrecci dei suoi romanzi, la naturalezza serena del suo stile, quel suo idealismo moralistico, quella cara pensosità della sua anima ritrosa e insoddisfatta non erano certo qualità che potessero trionfare ed imporsi. Ma quanto mi piacque qualche anno fa ricredermi della troppo fiacca stima che anch’io feci di lei allora quando mi accadde di rileggere nella bella edizione curata da Benedetto Croce la serie dei suoi romanzi e delle confessioni e constatare di quanto essa è superiore a tanti romanzieri che allora andavano per la maggiore, e di quanto essa li vinca nella verità e nel delicato equilibrio di uno stile con cui quella vita, ancorché modesta, ella rese amabilmente fine e precisa. Se «il problema della donna e dell’amore hanno formato l’oggetto principale e quasi unico del suo studio», come scrive il Croce, quanto oggi, pur nell’angusto limite del mondo ch’ella conobbe, l’imagine ce ne appare viva e avvincente!

    Ebbi la fortuna di conoscere la scrittrice una sera in casa di Donna Matilde Valerio. Era quello un mezzo salotto letterario, e accanto a lei sedeva Annie Vivanti che in quella sera pure vi si ritrovava.

    Non si poteva imaginare un più vivo contrasto di quello che appariva fra le due scrittrici che a farlo apposta sedevano vicine.

    La Vivanti, ch’era arrivata allora da un gran viaggio, era già donna

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