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E-book163 pagine2 ore

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Info su questo ebook

Ritiratosi in un lungo ozio creativo, assorbito dai suoi amati studi di anglistica e dalla collaborazione col Touring Club Italiano (rinominato, sotto la spinta ultranazionalista del regime, "Consociazione Turistica Italiana"), Carlo Linati ha vissuto i suoi ultimi anni tenendosi ben lontano dalla società, ai suoi occhi ormai precipitata nella follia. È in questa fase della sua opera – coeva al disincanto espresso in "Decadenza del vizio e altri pretesti" – che si colloca dunque "Arrivi" (1944): una preziosa raccolta di racconti, impressioni e lucide considerazioni che Linati fa sfoggiando un umorismo irresistibile, che a tratti ricorda quella stessa letteratura inglese di cui egli fu un sensibilissimo traduttore e critico. -
LinguaItaliano
Data di uscita22 lug 2022
ISBN9788728411346
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    Anteprima del libro

    Arrivi - Carlo Linati

    Arrivi

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1944, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728411346

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    UN FERRAGOSTO COSÌ

    L a sera dopo altre comitive salirono a invadere l’albergo, ma parte di quella gente, non avendo trovato modo di allogarvisi, finì ad accamparsi sui prati vicini, donde poi, di rabbia si diede a disturbare con canti e berci i fortunati che vi avevan trovato alloggio. Questi spalancarono le imposte, di rimando scagliavano improperi ed altre cose nella notte: e gli altri a. ribattere con sassi e con risa. Insomma fu putiferio da ricordarsene per un pezzo.

    Alle cinque della mattina tutti eran addormentati.

    Ma il giorno dopo daccapo: altre comitive ed altre guerriglie.

    Il cavalier Giacomo Storani, il proprietario, diceva alla moglie Micaela:

    — Quest’anno è il finimondo. Non è mai stato un ferragosto così.

    — Farem soldi, — ribatteva Micaela Storani, nata Trombetta, ritirandosi soddisfatta nel burò.

    Tale straordinaria affluenza di popolo la si doveva sì al Ferragosto, ma anche, diciamolo, alla fama che si era fatta in quegli ultimi anni l’Alba d’Oro di essere un alberghetto di mezza montagna tra i più puliti e a buon mercato. Solo un’oretta di ferrovia, poi mezza di corriera bastavano a recarvi lassù dove poi trovavate vitto eccellente, belle passeggiate, vino buono e acqua di monte. Le compagnie arrivavano su a folate, da ogni parte, con una voglia matta di lasciare al piano i fastidi e i calori e godersi in lungo e in largo i cosidetti benefizi della montagna.

    Non era gente elegante, perché la gente elegante d’estate va al mare o in Val d’Adige, ma una gente di bottega, di magazzino e di sobborgo: quella in genere che il Dopolavoro raccoglie sotto le sue grandi ali paterne. Una gente la quale avendo sgobbato tutto l’anno a far su quattrini in fondaci, negozi o studi verso cortile, poste da parte un po’ di palanche, intendeva darvi fondo allegramente in quel paio di settimane di libertà spensierata. Artigiani, fattorini, magazzinieri: brava e cara gente che costituisce, del resto, un buon terzo della popolazione di una città. I treni erano partiti in quei giorni stracarichi di tutto quel materiale umano e dopo un’ora e mezza le corriere lo riversavano, puntuale, sul piazzaletto dell’albergo.

    Ma pure altrove sembrava che le cose non andassero diversamente. Dicevano che per un raggio di circa cinquanta miglia intorno, alberghi, osterie, pensioni e camere ammobigliate eran saturi, che non si trovava più «un buco».

    Appena smontate, all’improvviso contatto del verde e dell’aria fresca le chiassose, brigate venivano possedute dal demone naturista. Impadronitesi del luogo, si davano a scorrazzarlo in ogni senso, e saltacchiavano e si chiamavano a gran voce, si abbracciavan di gioia, intonavano cori a badalucco. Sotto quel sole sferzante, con la prepotenza esplosiva che può star compressa in trecentosessantacinque giorni di prigionia coatta, si scagliavano attraverso boschi e prati, e si sarebbe detto prendessero un gusto matto a pigliar pel collo quella divina natura e farne tonnina.

    Proprio vicino all’albergo è un bel bosco. Lo invasero, ne dilapidarono i fiori, diramaron gli alberi, si rotolarono sui prati, giocarono alla cavalchina, vi accesero falò.

    Ma quasi non bastasse, il giorno diciotto arrivò su all’Alba d’Oro una robusta comitiva di metallurgici e di lattai.

    Erano una ventina. Invano avevan cercato alloggio in altri posti, e giunti lì verso sera, stracchi morti, s’erano ben decisi a farsi alloggiare ad ogni costo.

    Il cavalier Storani, in redingotta sul portone dell’albergo, disse ch’era assai spiacente, ma…

    — Ci accontentiamo anche dei divani.

    — Anche i divani occupati.

    — Di qualche poltrona. Del bagno. Del bigliardo.

    — Tutto, tutto preso.

    Allora un minaccioso lagno si levò dalla turba. Mio Dio, come si fa? Come si fa? gemevano le donne coi bimbi in collo.

    Il lattaio Filipponi, un pezzo d’omone col gozzo, si cacciò avanti attraverso la folla, traendosi dietro la moglie e due figlie.

    — Come si fa? — urlò salendo deciso i tre gradini dell’ingresso. — Ve lo dico io come si fa, si entra e ci si accomoda lo stesso. Ecco come si fa! — E con una manata buttò in disparte il cavaliere e passò. — Vorrei un po’ vedere!

    Quell’atto di prepotenza ne autorizzò altri.

    Capeggiati dal materassaio Pentecoste un altro gruppo d’artigiani si fece avanti remando a gomitate, pestandosi i calli a vicenda, baccanando e ridendo: fin che, dàlli dàlli, pur quel gruppo passò.

    Davanti all’irrompere dell’orda il cavalier Storani per prima cosa cercò reagire, ma alla fine travolto fu costretto a indietreggiare sino al burò, dentro al quale si rinchiuse. — Ma dove li metto, in nome di Dio, dove li metto stij viran? — gemeva stringendosi la testa fra le mani.

    Micaela s’attaccò al telefono.

    — Pronti?… È l’albergo dell’Alba d’Oro che parla… Signor Maresciallo, signor Maresciallo, qui stan succedendo cose di una violenza inaudita. Abbiamo l’albergo zeppo, ma sono arrivate altre comitive che han voluto entrare a forza. Mio marito è stato malmenato. Chiedo formalmente l’aiuto della forza pubblica.

    E agganciò risoluta. — E adesso la vedremo!

    Senonché dopo qualche minuto ecco che usciti fuori, con loro grande sorpresa trovarono l’atrio deserto.

    Che era mai successo?

    Ripartita tutta quella gente?

    Quella gente, cavaliere, si era bravamente accomodata da sé. O meglio, con quella solidarietà che contraddistingue la gente del popolo aveva trovato lì conoscenti ed amici i quali mettendosi la mano sul cuore, avevano un poco rinunciato ai loro comodi e, bene o male, l’avevano allogata. La pietà del popolo, cavaliere: formidabile!

    — Dove gh’en sta dés ghen sta cent! — badava a ripetere a tutti il lattaio Filipponi tafanando intorno per scale e corridoi, col suo gozzo scarlatto che gli ballonzolava sotto il mento. — Dove ghen sta dés ghen sta cent! — E ficcava qua la moglie, là le due piccine e tutti quelli che gli venivano sotto intrufolava a forza, fra un letto e l’altro delle stanzette ripiene. E siccome tutti avevan paura di quello stangone e delle sue manacce: — Ma sì, ma sì, — si udiva qua e là per le stanze, vecchiarelle che aderivan spaventate. — Ma sì, bisogna ben jutass a sto mond… Se stringium su un cicinin… Scià, scià, nel lecc chi del pà ghe méttum i doo tosanett e la sora Filipponi. E nun? Nun dormirem de coo e de pee… Semm chi per jutass, vera?… A la ghèr com’a la ghèr…

    Questo dormir de coo e de pee, bisogna dirlo, cavaliere, è pure una gran risorsa. In un letto di una piazza ci si sta benissimo in due e in uno d’una piazza e mezzo in quattro. Se poi in camera c’è un divanello, lo si può raffazzonare a lettuccio. A parte, poi, che, alla peggio, un paio di coperte stese per terra con un paletò buttatovi sopra può servire per uno che abbia l’ossa dure. E poi, perché non trar profitto anche dei corridoi e delle terrazze? In conclusione, ficca qua, stipa là, ecco che arriva mezzanotte e tutta quell’acciugaia ha trovato alla diavola la sua cuccia.

    Cosicché l’alberghetto di mezza montagna, stipato come un uovo, anche per quella volta poté intrapprendere il suo viaggio nella notte, accompagnato dalla più straussiana orchestra di russii, gemiti, ruggiti e lài che dormitorio umano abbia mai esalato ne’ secoli de’ secoli.

    SVEGLIA

    Già da qualche giorno mi trovavo all’Alba d’Oro, avendo io preso per uso ogni anno di recarmi a passare una quindicina di giorni d’estate nella pace e nel candore di quella nobile montagna. Senonché vedendo così alla lontana come si mettevan le cose, durante quell’eccezionale Ferragosto, mi accontentai di andar a stare in una cameretta all’ultimo piano che l’albergatore mi aveva riservata, dietro un mio telegramma, e mi ci chiusi dentro a chiave.

    Quell’estate me ne andavo in giro bighellonando per le nostre prealpi allo scopo di svagarmi e conoscere cose e paesi a mio talento, come sempre facevo in quell’epoca dell’anno, e colà giunto, sulle prime mi ero indispettito al vedere quel mio caro alberghettino di mezza montagna inzeppirsi così irreparabilmente di una gente ignota e schiamazzante, immaginando quale brutta settimana vi avrei dovuto passare. Senonché, a poco a poco mutai parere e pensai che forse tutta quella gente, nella sua grande varietà di tipi, avrebbe potuto, dopotutto, fornirmi argomenti di osservazione e di studio abbastanza piacevoli.

    Era una gente ignota infine, ch’io non avevo mai frequentato, di cui non conoscevo affatto la psicologia e gl’istinti se non per quel tanto che mi accadeva quando entravo a far la spesa in una bottega o usufruivo dei loro servizi: era un mondo tutto a sé, che non mi sarebbe poi spiaciuto di approfondire un poco… E così, facendo buon viso a cattivo gioco, deliberai di affrontare coraggiosamente la loro mediocrità e di prender parte, il meglio che avessi potuto, alla vita famigliare e collettiva di tali invasori.

    E pazienza la notte, quando dopo le lunghe camminate che facevo per la montagna il sonno m’inchiodava sul guanciale, ma di mattino, amici miei, di mattino, quando tutto quel mondo si destava!

    Sotto di me, per quanto era vasto l’albergo, cominciavo a sentire il risvegliarsi graduale di tutta quella popolaglia, il loro rumoreggiare come di buriana incombente, che non tardava poi a screziarsi dei più sgangherati sbadigli. Di lì a poco tutti erano in piedi e venti voci si chiamavano da camera a camera, piedi nudi correvano sugl’impiantiti, e un po’ dappertutto, erano tonfi di stivali e di sedie. Poi bastava che uno cominciasse a sbraitare un motivo della «Tosca» che altri dieci gli rispondevano con una romanza dell’«Emani» o con un coro del «Nabucco». Seguiva un gran sbattacchiar d’usci accompagnato dal friggìo dei rubinetti e dei pulls che scrosciavano a dirotto nelle profondità della casa, spesso interrotti da feroci grida di Occupato! Poi pervenivan al mio orecchio i saluti festosi che si scambiavan da finestra a finestra le donne, insieme alle notizie sullo stato della loro salute, a cento freddure ambrosiane, ai programmi della giornata: e i campanelli, mio Dio, i campanelli che trillavano senza posa chiamando cameriere che non venivano mai, e che si lasciavano poi dietro tutta una coda pittoresca d’accidenti e di sagrati.

    Finalmente verso le nove il chiasso accennava a calmarsi e tutta l’umanità calava a basso, dando luogo al chiacchiericcio e allo scucchiario della prima colazione.

    Poi fuori tutti all’aperto e, a Dio piacendo, ecco finalmente il momento in cui quel caro alberghetto poteva finalmente tirare due dita di fiato. Io, sorbito il tè, uscivo allora dalla mia tana e me ne andavo a spasso lungo la costa del monte.

    Debbo confessarlo, dopo tre o quattro giorni ch’io mi trovavo all’Alba d’Oro mentre mi andavo interessando a quanto avveniva intorno a me, non fu tanto la novità o la psicologia di tutta quella brava gente che attirò decisamente la mia curiosità, quanto l’osservare un altro fatto, che mi si presentò bizzarro e fantastico allo spirito: e, cioè, la lenta e progressiva degenerazione che l’albergo andava subendo sotto la pressura inesorabile dei nuovi barbari.

    Vi prego, non mi deridete, né mi date del sadico.

    L’osservatore, lo psicologo trovano spesso il loro pascolo là dove meno se l’aspettano. Non avendo preconcetti si abbandonano volentieri al

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