Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

A vento e sole
A vento e sole
A vento e sole
E-book238 pagine3 ore

A vento e sole

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Pagine di avventura, di camminate prive di meta, di viaggi sulle montagne e sulle colline della Brianza. Carlo Linati nella veste di vagabondo racconta e descrive la natura che gli si presta davanti. Sinceramente, senza inventare nulla, questo viandante riporta le sue impressioni, la meraviglia, la libertà dello stare all'aria aperta, offrendo il viso al vento e al sole. Un'opera senza rotta né bussola, senza trama, che accompagna l'autore e i lettori dovunque il sentiero li conduca.-
LinguaItaliano
Data di uscita1 giu 2022
ISBN9788728309926
A vento e sole

Leggi altro di Carlo Linati

Autori correlati

Correlato a A vento e sole

Ebook correlati

Biografie e memorie per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su A vento e sole

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    A vento e sole - Carlo Linati

    A vento e sole

    Copyright © 1939, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728309926

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    Un po’ di vecchia Spagna

    IL DESERTO

    L a cosa che a tutta prima fa impressione nell’attraversare certe regioni della Spagna, Aragona, Mancia, si è che si fanno chilometri e chilometri senza incontrare anima viva.

    Su quella terra gli spazi disabitati sono cosí grandi e avventurosi che spesso l’arrivo a un paese, a una posada dopo ore di corsa nel sole ci pareva un improvviso e sorprendente ritorno alla civiltà. Ricordo taluni di quei ritorni, nello smarrimento del deserto. Catalayud, per esempio, una cittadina di pochi abitanti, a un paio d’ore da Saragozza, patria del poeta Marziale. Dopo una lunga marcia attraverso le ambe aragonesi ecco improvvisamente degli alberi, delle case, una piazza; e su quella piazza un passeggio e la banda che suona… Ma, Catalayud, ho appena il tempo di esclamare, oasi deliziosa… Che subito gli alberi diradano, scompaiono le case e la campagna arsa e gropposa ci inghiotte di nuovo nella sua nudità implacabile.

    Ma questa desolazione non è poi tanto crudele. A lungo andare ci si famigliarizza con la selvatica solitudine del paesaggio, si sente che nel profondo ha una sua dolcezza: ch’è sincera, che non ci tradirà.

    Talvolta, in quelle lunghe giornate di auto che mi portavano al sud mi è sembrato di provare la stessa sensazione che mi dà la lettura di certi autori spagnoli: quel loro compiacimento quasi umanamente disperato per l’uomo, per l’uomo in sé, per la sua fierezza e miseria. Una disperata voluttà anacoretica, ecco il romanticismo dell’anima e del paesaggio aragonese.

    Son cosí povere d’acque quelle terre, che appena c’è caso si formi una fonte o scorra un rigagnolo subito lí sorge un paese: e un paese ch’è talvolta un’oasi di verde e di frescura. Altrimenti l’acqua è tirata su da poveri pozzi perduti nella campagna, e voi sapete che pietà fanno quelle misere bastite circolari spiccanti qua e là su l’arso gialliccio degli stoppiari, e quello scarno ronzino che ore ed ore gira sotto il sole ad occhi bendati, intorno alla macina.

    Ricordo la sensazione che mi fece l’ultimo lembo dell’Aragona intravisto dall’alto del Monserrat, sotto la vampata di un tramonto: quello squarcio di paese roccioso, voraginoso, rossastro e in tutti i sensi tagliuzzato di rughe che montava là contro il cielo, di faccia a noi, come una grande onda petrosa: una spece di rovente Purgatorio, tra le spalle della Sierra.

    Ma talora io provavo al cospetto di quella natura sensazioni di un carattere cosí estremo, delle vertigini cerebrali. La Spagna offre spesso di queste rivelazioni improvvise: visioni quasi apocalittiche di nature fuori spazio, fuori tempo; fughe verso mondi sconosciuti, verso terre di sogno, ancestrali, favolose… Poi, naturalmente, anche a questo ci si abitua. Ma io vorrei ritrovare le prime saporite rivelazioni che mi prodigò la terra spagnola in quei miei primi contatti con lei, quei deliziosi e crudeli brividi che provai penetrando nel suo regno di maestoso squallore, e che sentivo cosí profondamente intonato con l’arte tragicamente umana di Cervantes e di Calderon.

    SERATA MADRILENA

    Quando arrivammo in Spagna, ai primi di settembre del ’34, era scoppiato lo sciopero generale a Madrid. Ce n’eravamo accorti dal ritardo di tre ore con cui l’espresso di Parigi ci aveva deposti alla frontiera spagnola. Ma ecco che alla dimane lo sciopero era finito.

    La Spagna attraversava in quei giorni ore di quiete paurosa: cominciavano a delinearsi per tutta la sua vita quei prodromi febbrili che sarebbero scoppiati poi nelle sanguinose sommosse dell’ottobre. Passeggiando per le sue città si aveva già fin d’allora la sensazione dell’avanzarsi del disordine. Ad ogni momento i giornali recavano notizie di arresti, di fermi, di contrabbandi d’armi, di conflitti fra polizia e pistoleros. Barcellona era continuamente attraversata da piccoli cortei dimostrativi che recavano fiori e bandiere ai caduti dell’indipendenza catalana e qua e là per Madrid comparivano grandi camions carichi di guardie d’assalto pronte ad accorrere al primo accenno di sommossa. L’aria era piena di elettricità e come di un tragico senso d’agguati.

    Tuttavia io ebbi subito fin d’allora il convincimento che il Governo sarebbe riuscito a dominare la situazione.

    — Qui — mi diceva Filippo Silva, un industriale italiano che dirigeva a Madrid una grande Casa d’importazione, e che appena arrivati ci fu largo d’infinite cortesie — qui, ogni spagnolo si crede politicamente un Dio, immagina che il suo partito sia il solo meritevole di esistere e spesso lotta disperatamente pel trionfo della sua idea. Il male si è che non v’è terra come la Spagna dove parole e gesti sien piú capaci di produrre sangue!

    Queste cose il Silva ce le andava dicendo mentre con una sua splendida Ventidue ci conduceva intorno in un rapido giro per la città. Avevamo pranzato sull’alta terrazza del «Capitol», l’edificio a quindici piani piantato nel cuore della Gran Via, ed ora, come siesta, riprendevamo la nostra corsa. Guidando lui stesso la macchina in mezzo alla fiumana dei veicoli, ci presentava le strade piú belle e gli edifici piú insigni. E intanto da uomo esperto ci metteva a parte della situazione politica ed economica del paese; commentando uomini e cose con una certa sua arguzia lombarda.

    Cosicché quando ci ebbe presentato anche il monumento a Cervantes, in Plaza de las Cortes, volse la macchina verso la periferia e ci portò in una zona bellamente giardinata che immagino dovesse essere il Buen Retiro. Alti olmi fiancheggiavano adesso la strada asfaltata stormendo al vento della notte, e al di là si vedevan boschi e misteriose ondulazioni di terreno scendere verso il deserto castigliano, tutto picchiettato di lumi. Il nostro compagno rallentò un poco la macchina e apri la radio.

    Ricordo l’emozione che provai ad udire improvvisamente balzar dalla macchina, quasi cullato dal suo ritmo, il canto virile e doloroso di un flamenco; un di quei canti popolari che allora infuriavano per tutte le notti di Spagna e che canzonieri erranti avevano recato dalle Sierras. Si udiva una voce baritonale, rozza, calda e potente far una dichiarazione d’amore ad una donna; ma violenta, strozzata, rabbiosa quasi di dolore e di furore erotico: come per irretire la donna in una serie di modulazioni rigirate, un poco simili alla maniera dello stornellare romano.

    Il caffè dove ci riducemmo piú tardi, sulla Gran Via, era rigurgitante. Il locale era nuovissimo, poiché Madrid si stanca presto dei vecchi ritrovi e allora bisogna mettergliene su dei nuovi, con decorazioni piú audaci, luci piú sgargianti. Sicché allora il Caffè del Molinero era dei piú à la page: zeppo dentro e fuori.

    C’erano qua e là delle cocottes, che se ne stavano monumentalmente sedute davanti alle loro bibite e mi facevano pensare all’immobilità spettrale e jeratica delle mañolas dipinte da La Gandara o a certe meretrici meravigliose descritte da Quevedo o da Cervantes nei suoi «Intermeres»; e alcune avevano la loro servetta al fianco.

    — Ma i tipi piú interessanti — mi disse Silva — lei li troverà al Casino de Madrid: là dove passano la giornata i figli di papà… Li avrà notati laggiú, sull’angolo dell’Aquarida, appoggiati braccia conserte al parapetto delle ventane, a guardar nella contrada, all’ora dell’aperitivo. Sono i veri fanagottoni — soggiunse. — Se ne stanno tutto il giorno al Club, a parlar di politica o a far l’occhiolino alle ragazze che passano di sotto. Là pranzano, dormono e là anche… amano.

    — Al Club?

    — Il Club è dotato pure di graziose garçonnières, se lei non lo sa — mi mormorò, ridendo, all’orecchio.

    — Ma tutta questa gente — gli domandai accennando alla folla minuta ch’era intorno a noi, — come vive?

    — Intanto pur che possa frequentare il caffè, la zarzuela e la corrida lo spagnolo s’accontenta di ben poco. Poi le dirò: tutti qui s’arrangiano. L’arte dell’arrangiarsi è un’arte tutta locale. Un impieguccio qua, una pensioncina di là… l’amico al Ministero che ti scova fuori una piccola prebenda, l’amico deputato che favorisce il sussidio; e cosí tirano avanti. Poi, oh lei non conosce l’elasticità d’uno spagnolo, il suo eroismo a stringer la cintura! Avrà notato per strada la grande quantità di poveraglia. Eppure vede, bene o male, quella è tutta gente che vive, campa… Bisogna dire che lo spagnolo da secoli è attrezzato per la miseria, vi è come mitridatizzato. Asceta involontario nasce col senso della povertà nel sangue… Quando uno ha piú di quel che gli bisogna per non morire, è milionario.

    — Popolo felice.

    — A suo modo sí, se non ci fosse la politica a guastargli il sangue.

    Uscimmo fuori e rimontammo in macchina. Erano le due di notte e la Gran Via era ancora piena di gente, sfolgorante di luci. Un enorme flusso di macchine andava e veniva ancora lungo le due corsie della strada. Passavano le grandi Hispano-Suiza. Tutti i caffè splendevano e sui frontoni dei cinematografi raggiavano i grandi titoli dei films. Dappertutto si gesticolava, si mangiava, si chiacchierava, quasi fosse mezzodí.

    Dopo un poco, com’ebbimo raggiunto i paraggi quieti ed eleganti del Paseo del Prado, il nostro amico riaprí la radio. Una voce diceva che lo sciopero generale era scoppiato anche a Cadice e a Xeres e che v’erano stati parecchi morti e feriti in un conflitto fra dimostranti e gendarmi.

    CARNE E VESTI

    Alcuni quadri di una Rivista che vidi in uno dei primi teatri di Madrid mi fecero comprendere meglio di altre cose come lo spagnolo sia propenso a mescolare aspetti e visioni religiose alla sensualità piú sfrenata.

    Il soggetto era quanto mai piccante. Il Re di una fantasiosa reggia del dugento partiva coi suoi guerrieri per una Crociata dopo aver applicata la cintura di castità a tutte le spose del palazzo e averne lasciate le chiavi nelle mani di un cortigiano malingambe. Il quale, fedele alla consegna e nonostante le continue disperate suppliche delle donne, tiene fede al suo Re e non cede le chiavi per tutto l’oro del mondo. Ma gli equivoci, gli scherzi maliziosi che nascono da questo mazzo di chiavi e dalle relative lor serrature formavano appunto la donnée della Rivista ch’era stata messa in scena con gran sfarzo di luci, ragazze seminude e accompagnata da una musichetta piuttosto rumorosa di Padilla. Danze, visioni, tirate e pezzi esornativi di ogni genere intramezzavano la scena. Fra questi uno mi colpi soprattutto.

    Ad un certo punto un giovine romeo tornato di Terrasanta entra in una chiesa per pregare ed ecco che gli appare una donna ignuda la quale con le arti piú raffinate cerca in ogni modo di sedurlo. Il romeo resiste ma alla fine sta per cedere quando pensa d’invocare l’aiuto della Vergine e dei Santi. Si volge al primo tabernacolo, ma ecco che d’un tratto quello si spalanca e sullo sfondo dell’ombra gli appare un’altra donna raggiante di nudità. Allora si slancia verso un’altra immagine devota, ma questa crolla ed un’altra figura peccaminosa gli balza davanti. Disperato si getta ad una terza: egual sorte. Alla fine, nientemeno che sei donne il malcapitato si trova sulle braccia! Allora fugge, fugge urlando, col capo fra le mani, finché da ultimo le visioni tentatrici scompaiono e ricompare la prima sirena, ecc., ecc.

    Storia banaluccia, ma che mi fece impressione per quella sua schietta e deliberata mescolanza di rappresentazione mistica e sensuale, che da noi non sarebbe stato in nessun modo possibile o avrebbe avuto un sapor sacrilego rivoltante. Tanto piú che in quella visione, quasi per meglio illuminare il contrasto, tutto era ben definito, nulla era lasciato alla sfumatura, al sottinteso.

    Questa sensualità, direi trapela un po’ dappertutto nella vita di Spagna; la si sente mussare come un etere infocato nell’aria, la si aspira calda ed accesa nella vita spassosa delle sue città, come fosse la seconda natura di quel popolo. È comunque una sensualità diversa dalla nostra, tutta gelosia, tormento, tristezza sentimentale. È la sensualità libera e prepotente di un popolo il quale meglio che di sentimento o d’arte si nutre di luci, di colori, di danze, di canzoni: ancor primitivo nel fondo e che non fa della donna un altare e neanche un semplice oggetto dei sensi, ma l’adora in una fiamma cavalleresca, in un tripudio di suoni e di splendori.

    Quello però che a tutta prima sorprende in quest’aura accesa che par bruciare anime e corpi come una vampata di alcool è la bellezza tutta semplice, bonaria e senz’arte, quasi infantile, della donna spagnola. A noi che veniamo dal paese dell’armonia sembra perfino un po’ troppo sciapita. Non ha trucchi, raffinatezze di toilettes o di contegno. Un semplice vestito di cotonina a fiorami, un paio di gambette ignude, qualche braccialetto ai polsi e un’aria un po’ fiera e sculettante per via bastano a formare una di queste splendide maschiette che vedi passare sulla Rambla del Centro a Barcellona o sulla Gran Via a Madrid, ma a cui lasci dietro il cuore, come ad un gioiello. Non guarda in viso nessuno, cammina ravvolta, come una piccola sultana di un califfato perduto.

    Il suo maggior trionfo è nel capo. Le giovani spagnole mostrano nelle fogge e nella grazia del capo l’empireo della loro bellezza. Esso è veramente un capolavoro d’ingenuità paesana, di profumo, di garbo. Si vedon per via testoline che sembrano ceselli di un orafo squisito. I capelli son sempre nerissimi, brillantati e lucidi. Arricciati al ferro, pezzo per pezzo, quasi capello per capello, con un senso del pittoresco che parrebbe un’eredità gloriosa del pennello di Velasquez quando dipingeva per la gioia di Filippo IV le teste di Marianna d’Austria o dell’Infanta Margherita Maria de Las Meniñas.

    SIVIGLIA, 20 SETTEMBRE

    Finalmente ho udito cantare un flamenco.

    Questa tipica canzone mi aveva perseguitato nel mio viaggio da Barcellona a qui. Sulle Sierras l’ho udita cantare dai pastori che custodivan i greggi sui greppi, alla sera in città era il pezzo d’obbligo della Radio, alla mattina il mulattiere che scende dai monti di Toledo mi svegliava con quel canto fra le labbra, passando lungo la stradetta di fianco all’albergo. È la canzone di moda. Iersera all’«Olympia» dopo i numeri di danza un contadinello è venuto sul palcoscenico a cantare il flamenco, accompagnato da un vecchio chitarrista.

    La mano appoggiata allo schienale della sedia del compagno, con voce aspra ed acuta il fanciullo ha lanciato nella sala il suo stornello tra gli applausi del pubblico. Come si sgolava, poveretto! Con che sforzo penoso modulava tutti quei vocalizzi indiavolati giú giú fino ad arrivare all’ultima nota, sfinito e senza piú fiato! Il viso gli s’era fatto di brace, ci aspettavamo dovesse scoppiargli la vena del collo. Ma lo scroscio degli applausi premiava in lui quell’ardua fatica: ancorché a me parve unicamente quella fatica: non la musica, non la voce, ma lo sforzo soltanto, la bravura d’ugola prodigiosa, la stupenda resistenza di polmoni.

    Dopo il numero delle seguidillas e delle sardanas era comparsa sul palcoscenico Rosario, una superba bruna dai capelli platinati, dalle forme stupendamente sode ed elastiche, che aveva mandato in visibilio i giovani della platea con le sue esibizioni di danseuse; ma soprattutto con la bellezza, quasi oltraggiosa, di quel suo gran corpo bruno e selvaggio che pareva abbronzato da tutti i soli delle spiagge andaluse.

    Il suo viso aveva qualcosa di strano: era infantile e satanico nello stesso tempo. Fissandolo ho capito davvero la perdizione di Carmen. Una fila di denti bellissimi e la linea orizzontale degli occhi semichiusi, da cui colava uno sguardo malizioso ed ardente, creavano su quel volto un sorriso fisso ch’io avrei detto lievemente demoniaco. Poche bande di cuoio rosso e dorato ritoccavano qua e là la sua nudità fiorente e lucente, lasciando del tutto ignude le gambe e i piedi che danzavano in due scarpette d’argento, con due alette ai lati. Gambe davvero stupende di plastica bellezza: poderose, brutali, aggressive. Che se non si fossero concluse in un paio di fianchi tropp’alti ed aperti avresti detto che men belle fossero le gambe della Venere di Milo… Di numero in numero ella venne mettendo sempre piú in mostra la nudità della persona. Quando faceva qualche mossa piú ardita o dando un colpo delle reni o facendo torneare il ventre e i fianchi verso la schiera dei giovani, sul suo volto si vedeva quel sorriso diventare schiettamente canagliesco.

    L’altra, Manuela Coelò, assai men bella, tutta bianca e pastosa, con un visetto da buona madre di famiglia cercò vincere l’indifferenza del pubblico con mosse ed esibizioni piú coraggiosamente impudiche. Ricordo che da ultimo ell’era apparsa in un bellissimo velo nero tra i cui richiami s’intravedeva piú tenera e ghiotta la sua persona interamente ignuda: e cantando ella alzava ed abbassava quel velo tra gli urli e gli schiamazzi della schiera giovanile.

    Non dico che il resto della sala andasse in delirio a quelle esibizioni. La maggior parte del pubblico che gremiva il cabaret si manteneva serio, fin quasi alla mutria. Oh, son ben piú allegri i pubblici dei cabarets di Boulevard Clichy! V’erano qua e là dei lavoratori del porto ancora in blusa e basco, seduti di fianco, col viso aggrinzato e triste, dei vecchi gagas, degli amateurs, delle señoras in decolté. Giovani danzatrici in mantillas cinguettavano allegramente fra loro o stavano ai panni di qualche straniero. Avevano un tipo bonario, provinciale; portavano corpetti a fiorami, gonnellini succinti e le vedevamo poi comparire sul palcoscenico a danzar in gruppo un fandango o una seguidilla.

    FEDELTÀ

    Dacché il romanticismo scopri nel colore della Spagna una delle sue provincie piú dilette cento artisti gareggiarono in squisitezza nel definire la morente, singolare bellezza di Toledo, il pittoresco delle sue viuzze sghembe, il fascino della sua Cattedrale, delle sue terrazze aperte sul Tago, o la delicata desolazione delle colline che la cingono con linee dolcissimamente magre, in una visione d’ocra, di solitudine e di silenzio.

    Ma io amo sopra tutto la piazza centrale della città, quella piazza Zocodover dove viene a raccogliersi, sfociàtovi da viuzze laterali, il traffico, il chiasso e il pittoresco della città moderna. Per la sua tipica originalità, metterei Piazza Zocodover accanto a Piazza del Mangia di Siena o a Piazza dell’Erbe di Verona. Immagini e sensi di vecchia Spagna delabrée vi si armonizzano con la vita di un’attuale città di provincia.

    È di forma oblunga, un po’ in discesa verso il Tago, lastricata alla buona. Ha nel mezzo una bella fontana dove donne e ragazze vengono ad

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1