Brotherhood 2: away from you
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Riuscirà Aurora a rivedere Nick? Potranno vivere il loro amore alla luce del sole? Ma, soprattutto, Natalie accetterà la loro relazione?
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Anteprima del libro
Brotherhood 2 - Caterina Giorgi
iolanda1976@hotmail.it
CAPITOLO 1
Nick's point of view
Due occhi blu cianite, incorniciati da folte ciglia scure e sormontati da perfette sopracciglia arcuate, mi fissavano con un misto di timidezza e speranza. Scesi con lo sguardo sulla sua morbida bocca, piegata deliziosamente in un sorriso lieve. Avevo lasciato il mio cuore su quelle labbra.
Strinsi la cornice dorata tra le dita, digrignando i denti.
Da oltre un mese Aurora era scomparsa, portando con sé la promessa di un amore mai vissuto. Mia madre era stata l'ultima persona a parlare con lei. Malgrado la sfumatura di panico nella sua voce, Natalie non aveva sospettato di nulla fin quando non si era accorta che una consistente somma di denaro era sparita dalla villa.
Solo allora aveva capito che Aurora era scappata via, lasciandomi nel buio più totale.
Avevo fissato il nulla per giorni interi, aspettando, immobile, il suo ritorno. Non capivo perchè avesse fatto un tale gesto.
Le avevo confessato il mio amore, spogliandomi di ogni diffidenza. Mi ero fidato di lei, dei suoi occhi gelidi e colmi di sofferenza, sentendomi leggero per la prima volta in vita mia. Quell'ultima sera insieme avevo assaporato la vera felicità, che avevo capito non equivalesse a qualche breve attimo di gioia.
Non mi ero mai sentito così vivo, ma la realtà era che lei aveva scelto di scappare. Forse avevo irrimediabilmente ferito la sua intimità con la mia cattiva condotta, o forse per tutto quel tempo mi aveva solo preso in giro. Di una cosa però ero del tutto certo, da quando Aurora se n'era andata via, Justin era scomparso.
Trassi un profondo respiro, sforzandomi di ritrovare la calma. Ogni qualvolta tale pensiero affiorava alla mente, un'amara prospettiva minacciava la mia quiete. La cornice che gelosamente stringevo tra le mani, finì per terra con uno schianto, infrangendosi in mille schegge di vetro.
Emisi un gemito rabbioso, serrando i pugni.
Il solo pensiero che lei avesse architettato tutto al solo fine di dissipare il mio denaro insieme a Justin, mi fece tremare.
Malgrado sapessi della terribile malattia che lo affliggeva, una parte di me sperava vivamente che la sua vita si frantumasse poco a poco.
La sua morte mi avrebbe così restituito Aurora.
Posai un ginocchio per terra, stordito da quel macabro e delizioso pensiero.
Tolsi uno a uno le schegge di vetro, ripiegando con cura la foto per riporla nella tasca interna della giacca.
Se solo avessi saputo dove cercarla...
Serrai i pugni, stringendo con forza i frammenti.
Il sangue che gocciolava dalla piccola ferita non bastò a distrarmi.
Un dolore molto più grande logorava il mio cuore.
Odiavo chiunque incrociassi sul mio cammino.
Odiavo Justin, che col suo aspetto da bravo ragazzo era riuscito a strapparmi dalle mani colei che era perennemente al centro dei miei pensieri.
Odiavo Ellie, e tutte quelle ragazze che, come lei, si lasciavano portare a letto, speranzose di attingere in qualche losco modo al mio patrimonio. Ma più di qualsiasi altra cosa odiavo il mio lavoro, che da sempre teneva lontano i miei genitori da me, costringendomi ad un infanzia fatta di solitudine ed insicurezze. Inizialmente, avevo creduto di detestare Aurora, un sentimento viscerale e distruttivo. L'avevo ferita nel corpo e nell'animo innumerevoli volte, senza risparmiarle nessuna parola. Avevo letto un dolore colmo di memorie nei suoi occhi innocenti, ma ciò non mi aveva trattenuto dal vomitarle addosso tutto il mio livore.
Dopo qualche tempo, capii che il risentimento che credevo di provare per lei si era in qualche modo sciolto, lasciando spazio ad una folle paura. Quegli occhi di ghiaccio mi avevano ormai ipnotizzato. In lei avevo rivisto me stesso, la medesima sofferenza che mi attanagliava l'animo. Eravamo così uguali e tuttavia così diversi.
Io ero il male, lei era la cura.
Avevamo reagito in due modi ben distinti alla solitudine che aveva segnato le nostre vite. Io detestavo chiunque incrociasse anche solo per sbaglio il mio sguardo, lei, invece, per quanto si sforzasse di apparire indifferente al mondo esterno, riusciva a lambire l'animo delle persone che incrociava sul suo cammino.
Fu quello il principale motivo per cui me ne innamorai.
La invidiavo, ma di un'invidia rispettosa, che celava tanta ammirazione.
Aurora era speciale.
Al pensiero di quello che avevo perso un'unica lacrima mi solcò la guancia, smascherando la mia disperazione.
E fu in quel momento, così avvolto in quel dolore da non accorgermi del leggero cigolio della porta, che la sua mano si poggiò lievemente sulla mia spalla, facendomi sobbalzare.
Mi voltai, confuso, dimenticando la lacrima solitaria che mi rigava il volto, e incontrai il suo sguardo dispiaciuto.
In quegli occhi lessi comprensione, nonostante sapessi che non poteva realmente capire. Nessuno sapeva del mio amore per Aurora.
Tornerà
, disse d'un tratto Candice, mentre schiudevo la bocca dallo stupore.
Cosa ne poteva mai sapere lei?
Si inginocchiò davanti a me, portandosi alla mia altezza. Con estrema cautela mi prese la mano e tolse i frammenti di vetro, mentre immobile la guardavo. I suoi occhi si posarono sulla ferita sanguinante e un'ombra di tristezza le velò il volto.
Sono sicura che tornerà da te alla fine
, sussurrò, sollevando un braccio per avvicinare la mano al mio viso. Le bloccai il polso a mezz'aria, dilatando le narici. Non le avrei permesso di sfiorarmi, non desideravo la compassione di nessuno.
Il suo sguardo perso e desolato mi spinse ad allentare lentamente la presa, fino a lasciarla del tutto andare.
Scusami, cercavo solo di starti vicino
, mormorò, mordicchiandosi nervosamente il labbro inferiore. Sai, manca tanto anche a me
. Candice era così angosciata che le parole le erano uscite tremanti.
Rilassai le spalle, fissandola con intensità.
Dopo un mese di silenzio e solitudine, qualcuno mi stava finalmente tendendo la mano.
Aurora's point of view
You never brought me anything but grief, silence wrapped me, I was drowning in my own tears...
.
Osservavo affascinata la ragazza dalla pelle scura mentre si esibiva con una sincerità che arrivava dritta al cuore.
Era elegantemente seduta al pianoforte, avvolta da una tunica rosso porpora. Folti capelli, color cioccolato, ricadevano ad incorniciare un viso dai lineamenti dolci, illuminato da occhi scuri e profondi.
La melodia creata dal pianoforte mi avvolgeva come un caldo abbraccio. Ero incantata dalla disinvoltura con la quale la ragazza percorreva la tastiera, senza mai interrompersi. Aveva lo sguardo assente, del tutto assorta nel suo triste canto.
Trassi un profondo sospiro, risciaquando gli ultimi bicchieri sporchi. Il pub dove lavoravo da ormai tre settimane, proponeva, nei weekend, spettacoli d'intrattenimento dove potersi divertire al ritmo di musica live.
Avevo assistito alle performance di svariati artisti, eppure, in nessuno di loro avevo colto quel particolare luccichìo che, invece, faceva brillare la ragazza.
Cantava con un tono sorprendentemente delicato, le palpebre semichiuse, il tocco furioso, selvaggio. Era una strana contraddizione, quasi come se in lei arbergassero luce e tenebre.
...Your lips will be my grave...
, intonò, facendomi rabbrividire. Ci volle tutto il mio autocontrollo per fermare il flusso di pensieri che, sapevo, mi avrebbe arrecato solo dolore.
In nessuna circostanza mi sarei più permessa di rievocare alla mente il suo ricordo...
Manhattan era un'ombra nella memoria, oscura e confusa. Niente mi avrebbe riportato in quella città. Il mio futuro sarebbe stato a Londra, dove avrei continuato a prendermi cura del mio amico.
...I don't want to die
. A quell'ultima frase mi sentii stringere il cuore.
Avvertivo nella sua voce la stessa bruciante determinazione di Justin. Lui non voleva morire, e io non avrei mai permesso che ciò potesse accadere.
Mi sistemai i capelli in una coda bassa, permettendo all'angoscia di sopraffarmi.
La radioterapista aveva parlato di terapia combinata. Tutti i giorni chemio in pillole e radio per sei settimane esclusi sabato e domenica. Ci sarebbe stato poi un mese di stop, dopo il quale la dose di temozolomide sarebbe stata aumentata e somministrata una volta al giorno per cinque giorni, seguita da tre settimane senza trattamento. Da poco tempo Justin aveva cominciato la cura del glioblastoma di IV grado e, come ogni terapia, anche questa comportava il rischio di effetti collaterali. Il suo volto appariva sempre più stanco e tirato. Ciò era soprattutto dovuto al fatto che, oltre alle cellule tumorali, la chemioterapia riduceva i valori dei diversi componenti del sangue.
Talvolta avevo paura, paura che non riuscisse a respirare. Era molto spesso travolto da ondate di nausa, che lo costringevano a piegarsi ripetutamente sul water. La parte peggiore, quella che straziava il cuore, era stata vederlo senza la sua folta chioma caramello. L'ematologa ci aveva detto sin dall'inizio che la perdita dei capelli sarebbe avvenuta dopo tre settimane dalla prima dose e, cosciente del fatto che una simile vicenda avrebbe solo indebolito psicologicamente il mio amico, ero riuscita, col suo consenso, a radergli i capelli prima che fosse la malattia a prenderli con sè.
Una birra, ragazzina
, biascicò d'un tratto un uomo, mentre si sedeva su uno dei sgabelli di legno posizionati di fronte al bancone.
Osservai i capelli unti e spettinati, arricciando il naso in segno di disgusto. L'uomo, sulla cinquantina, aveva l'aria di chi aveva bevuto un pò troppo.
Con un sospiro, inclinai il bicchiere sotto il rubinetto, facendo scendere lentamente la birra, fino a quando la schiuma fuoriuscì dall'orlo. Dopodiché gliela porsi con distacco, mentre riprendevo a vagare con i pensieri. L'esperienza a Manhattan mi aveva profondamente cambiata. Non cercavo più alcun tipo di contatto con le persone, avevo deciso di chiudermi in me stessa.
Justin rappresentava l'unica eccezione. Mi teneva incatenato a sè come prigioniera di una promessa da cui non sarei mai potuta sfuggire. Avvertii il bisogno schiacciante di stargli vicino, mentre controllavo l'ora. Era quasi mezzanotte, ciò significava che di lì a breve sarei dovuta tornare a casa, per somministrare a Justin la compressa.
Tentai di scacciare il ricordo delle sue grida soffocate, grida di puro dolore, grida causate dalla stessa chemio.
Avevo notato che, col passare dei giorni, il suo umore peggiorava drasticamente, tanto che dal suo sguardo ormai traspariva un'ombra di rassegnazione.
Avevo paura, una paura tremenda.
Finito il mio turno di lavoro, salutai con un cenno della mano il proprietario del pub, George, un uomo riservato e taciturno, e m'incamminai verso casa, percorrendo le strade del quartiere Victoria, che avevo scoperto fosse una zona molto tranquilla di notte. Il mio piccolo appartamento distava dal pub una manciata di minuti, per cui in breve tempo fui davanti al portone semiaperto del grosso condominio.
Ero appena arrivata all'ultima rampa di scale, quando sentii una straziante angoscia impadronirsi di me.
Mi morsi l'interno della guancia, mentre tiravo fuori la chiave e la inserivo nella serratura. Non fui affatto sorpresa quando vidi ciò che mi aspettava. Mi trovavo di fronte la stessa scena ormai tutte le sere.
Lo sguardo di Justin era fisso sullo schermo, perso oltre l'orizzonte dei suoi pensieri. Neppure il mio tiepido saluto sembrò riportarlo al mondo esterno.
L'inquietudine mi divorò mentre, con passo pesante, mi dirigevo verso la cucina. La capsula bianca con la riga blu era nel cassetto, accanto al frigorifero. La presi e, con in mano un bicchiere d'acqua, andai verso Justin, seduto in una poltrona ricoperta di velluto damascato color miele. Gliela porsi, con mano tremante e determinata.
Ti ringrazio
, disse un attimo prima di ingugitarla.
Trettenni il respiro mentre i miei occhi perlustravano il suo viso, sperando ardentemente di non imbattersi in alcuna smorfia di dolore.
Ti accompagno a letto?
, mi offrii, titubante.
I suoi occhi scintillarono di pura rabbia. Ira e incredulità dipinti