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Demon's pleasure (eLit): eLit
Demon's pleasure (eLit): eLit
Demon's pleasure (eLit): eLit
E-book413 pagine6 ore

Demon's pleasure (eLit): eLit

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Info su questo ebook

In una remota fortezza di Budapest, sei seducenti guerrieri immortali sono legati da un'antica maledizione che nessuno è mai riuscito a infrangere...





Un guerriero immune alle sofferenze. Una donna che riesce a vedere nel futuro. Un'attrazione impossibile e allo stesso tempo incontrollabile...

Danika Ford sembra una ragazza come tante, ma in realtà nasconde un dono inquietante: quello della preveggenza. Proprio per questo, temendo che possa scoprire i loro segreti, dei e titani hanno incaricato i Signori degli Inferi di distruggere lei e la sua famiglia. A occuparsi della missione dovrebbe essere Reyes, il guerriero posseduto dal demone del dolore, ma quando i due si incontrano, una passione infuocata li travolge, spazzando via ogni cautela, ogni obbligo, ogni maledizione. Tutto però ha un prezzo, tanto più se si vogliono sovvertire le leggi divine...
LinguaItaliano
Data di uscita30 giu 2017
ISBN9788858972199
Demon's pleasure (eLit): eLit
Autore

Gena Showalter

Tra le autrici più amate e lette dal pubblico italiano.

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    Anteprima del libro

    Demon's pleasure (eLit) - Gena Showalter

    1

    Reyes si trovava sul tetto della fortezza di Budapest, a un’altezza di cinque piani, in precario equilibrio sulla sporgenza più alta. Sopra di lui, i raggi della luna, rossi e dorati, inondavano il cielo, intridendo l’oscurità di luce come fresche ferite sanguinanti nell’infinita distesa di velluto nero della notte. Abbassò lo sguardo nel vuoto cupo ai suoi piedi, pronto ad accoglierlo tra le sue braccia. Migliaia di anni e sono ancora ridotto così.

    Il vento gelido gli scompigliava i capelli e gli sferzava il petto nudo. Il collo era ricoperto dall’odiata farfalla tatuata e dal ricordo del sangue che l’aveva sporcata. Sangue non suo, in realtà, ma del suo amico. Ogni volta che un ciuffo di capelli sfiorava quel tatuaggio, ritornava in vita un devastante senso di colpa.

    Quante volte era venuto in quel luogo sognando cose impossibili. Quante volte aveva pregato per ottenere un’assoluzione, un sollievo dal tormento quotidiano e dal demone che portava dentro di sé... qualcosa che contrastasse il suo bisogno di farsi del male. Ma le sue preghiere non erano mai state ascoltate. Non sarebbero mai state ascoltate. Quello era il suo destino e non sarebbe cambiato. E la sua agonia non poteva che peggiorare.

    Un tempo era stato un guerriero immortale degli dei, ora era solo un Signore degli Inferi, posseduto da uno dei demoni che all’epoca erano imprigionati dentro dimOuniak. Un tempo era stato un favorito, ora era disonorato. Un tempo era stato amato e ora era disprezzato. Un tempo era stato felice e ora era in preda a una costante sofferenza.

    Strinse le mandibole. I mortali conoscevano dimOuniak come vaso di Pandora, per lui fonte di perdizione eterna. Reyes e i suoi amici avevano osato aprirlo secoli prima e ora erano loro i contenitori di quei demoni.

    Salta, lo implorò il suo demone.

    Il suo demone: Dolore. Il suo compagno di vita. Quella tentazione sussurrata, quell’entità oscura desiderosa di malvagità. Quella forza sovrannaturale contro cui lottava ogni minuto di ogni maledetto giorno.

    Salta.

    «Non ancora.» Qualche secondo di consapevolezza, per rendersi conto che all’impatto le sue ossa si sarebbero sbriciolate. Sorrise a quel pensiero. Le schegge taglienti avrebbero forato gli organi gonfi facendoli scoppiare come palloncini; la pelle si sarebbe strappata per l’edema e la linfa vitale dispersa sul terreno sarebbe stata la sua. L’agonia, benedetta agonia, l’avrebbe consumato. Almeno per un po’. Smise di sorridere. Nel giro di pochi giorni – di poche ore, se non si fosse ferito a dovere – il suo corpo sarebbe guarito completamente. Si sarebbe svegliato, di nuovo sano, con Dolore pronto a comandare nella sua mente in modo troppo deciso per ignorarlo. Ma in quei pochi attimi in cui le sue ossa, i suoi organi e la sua pelle si ricomponevano, prima che il suo sangue ricominciasse a scorrere nelle vene, avrebbe provato un’assoluta felicità. Il paradiso. L’estasi estrema. Si sarebbe crogiolato nel piacere squisito che gli procurava il dolore, sua unica fonte di godimento. Il demone avrebbe fatto le fusa dalla contentezza, ammutolito da quella sensazione e, finalmente, Reyes avrebbe raggiunto la tanto agognata pace. Per un po’. Era sempre così, ma solo per pochi attimi.

    «Non ho bisogno che mi ricordi di quanto sia fugace la mia felicità» borbottò a quel pensiero. Era consapevole di come il tempo scorresse in fretta. A volte, un intero anno passava in un giorno. Un giorno solo era come un minuto, altre volte invece gli sembrava infinito. Una delle tante contraddizioni della sua vita di Signore degli Inferi.

    Salta, ripeté Dolore. E continuò a insistere: Salta! Salta!

    «Te l’ho già detto. Ancora qualche secondo.» Di nuovo Reyes guardò le rocce appuntite illuminate dai raggi della luna e sferzate dal vento. La nebbia si alzò con le sue dita spettrali per attirarlo verso di sé. «Affondare la lama nella gola del tuo nemico lo uccide» disse al demone, «ma poi è tutto finito e non resta altro da sognare.»

    Salta! Un comando impaziente, spietato, come se fosse un bambino che fa i capricci.

    «Fra poco.»

    Salta, salta, salta!

    Sì, a volte i demoni erano come bambini viziati. Reyes si passò una mano tra i capelli strappandone alcuni ciuffi. Sapeva che l’unico modo per mettere a tacere la sua metà era l’ubbidienza. Perché non avesse mai tentato di resisterle e gustarsi quel momento, non lo sapeva.

    Salta!

    «Forse questa volta ti rispediranno all’Inferno» mormorò. Poteva almeno sperarlo. Alla fine, spalancò le braccia. Chiuse gli occhi. Si sporse...

    «Scendi» disse una voce alle sue spalle.

    Reyes aprì gli occhi a quella spiacevole intrusione e si irrigidì. Ritrovò l’equilibrio senza voltarsi. Sapeva perché Lucien si trovava lì e si vergognava troppo per guardare l’amico negli occhi. Benché capisse cosa Reyes doveva affrontare per colpa del demone, non ci sarebbe stata comprensione.

    «Il piano è questo: mi butto. Vattene, così lo faccio.»

    «Sai cosa intendevo dire» disse Lucien senza un’ombra di ironia. «Devo parlarti.»

    All’improvviso un forte odore di rose saturò l’aria, così inaspettato in quella notte di fine inverno che Reyes avrebbe giurato di essere finito in un prato primaverile. Un essere umano avrebbe trovato quell’aroma ipnotico, inebriante, accettando di fare qualsiasi cosa per il guerriero.

    Reyes invece ne era infastidito. Dopo aver trascorso migliaia di anni insieme, Lucien doveva sapere che quel profumo non aveva alcun potere su di lui.

    «Parleremo domani» ribatté seccamente.

    Salta!

    «Ne parliamo adesso. Dopo potrai fare ciò che vuoi.»

    Dopo che Reyes avesse confessato il suo ultimo crimine? No, grazie. Senso di colpa, vergogna e dolore provocavano una sofferenza emotiva, ma al demone non bastava. Solo la sofferenza fisica offriva sollievo ed era per questo che Reyes aveva protetto il proprio benessere emotivo con tale attenzione.

    Sì, e sei stato molto bravo.

    Si passò la lingua sui denti domandandosi chi avesse espresso quella perla di sarcasmo. Lui stesso o Dolore? «Al momento sono in un brutto posto, Lucien.»

    «Come lo sono gli altri. Come lo sono anch’io.»

    «Per lo meno tu hai una donna che ti consola.»

    «E tu hai gli amici. Hai me.» Lucien, posseduto dal demone della Morte, aveva il compito di scortare le anime degli umani in Paradiso o nelle fiamme eterne dell’Inferno. Era stoico, calmo – quasi sempre. Era il loro leader, l’uomo a cui ogni guerriero residente nella fortezza di Budapest si rivolgeva per avere un consiglio o un aiuto. «Parlami.»

    Reyes non amava contraddire l’amico, ma era convinto che fosse meglio tenere Lucien all’oscuro riguardo ciò che aveva fatto. Persino mentre formulava quel pensiero, però, si rese conto che quella menzogna non era altro che un vergognoso atto di vigliaccheria. «Lucien» incominciò, poi si interruppe. Un grugnito.

    «Nessuno sa dove sia Aeron» disse Lucien. «Nessuno sa cosa stia facendo e se è stato lui a sterminare quegli umani negli Stati Uniti. Maddox mi ha detto di averti chiamato dopo la fuga di Aeron dal seminterrato. Inoltre, Sabin mi ha raccontato che tu hai lasciato Roma e il Tempio degli Innominabili in gran fretta. Mi dici dove sei andato?»

    «No, ma sta’ certo che Aeron non potrà più massacrare gli umani» rispose deciso.

    Ci fu un attimo di silenzio e il profumo di rose divenne più intenso.

    Reyes alzò le spalle.

    «Lascia che ti dica cosa credo che sia successo.» Lucien non era più così deciso e la sua voce lasciò trasparire incertezza e, forse, paura. «Hai seguito Aeron nella speranza di proteggere la ragazza.»

    La ragazza. Aeron aveva rapito la ragazza. Aeron era stato incaricato dai nuovi dei, i Titani, di uccidere la ragazza. A Reyes era bastato guardare una volta la ragazza per rimanerne colpito fino nel profondo dei suoi pensieri, perché ogni sua azione prendesse colore e lo facesse diventare uno stupido innamorato. Con una sola occhiata, gli aveva cambiato la vita, e non in meglio. Tuttavia, il fatto che Lucien si rifiutasse di pronunciare il suo nome lo faceva incazzare. Reyes desiderava quella ragazza più di una martellata in testa. Per Dolore, non era una cosa da poco.

    «Allora?» chiese Lucien.

    «Hai ragione» rispose Reyes a denti stretti. Perché non ammettere la verità?, pensò. Era emotivamente sconvolto e tacere non faceva che peggiorare le cose. Oltretutto, i suoi amici non avrebbero potuto odiarlo più di quanto già odiasse se stesso. «Ho seguito Aeron.»

    Quella confessione rimase sospesa nell’aria, pesante. Poi aggiunse: «L’ho trovato. E l’ho distrutto».

    Alcune pietre rotolarono sotto gli stivali di Lucien quando si sporse in avanti.

    «L’hai ucciso?»

    «Peggio ancora.» Reyes non si voltò e continuò a osservare il vuoto in attesa ai suoi piedi. «L’ho seppellito.»

    «L’hai seppellito senza ucciderlo?» chiese Lucien in tono confuso. «Non capisco.»

    «Stava per uccidere Danika. Ho visto i suoi occhi tormentati e ho capito che non voleva farlo. L’ho fermato e mi ha ringraziato, Lucien. Mi ha ringraziato. Mi ha implorato di fermarlo per sempre, di tagliargli la testa. Ma non ci sono riuscito. Ho sollevato la spada, ma non sono stato in grado di farlo. Così ho chiesto a Kane di portarmi le catene di Maddox, dato che lui non ne ha più bisogno, e le ho usate per incatenare Aeron sottoterra.»

    Un tempo, a Reyes era toccato incatenare Maddox al letto tutte le sere e pugnalare allo stomaco il suo amico sei volte, sapendo che il guerriero si sarebbe risvegliato il mattino seguente e che lui, Reyes, avrebbe dovuto ucciderlo di nuovo la sera stessa. Bell’amico che sono. Dopo centinaia di anni, Maddox aveva accettato la sua maledizione. Incatenarlo, tuttavia, era stata una necessità. Posseduto dal demone della Violenza, Maddox aveva l’abitudine di attaccare senza preavviso, compresi i suoi amici. Ed essendo un guerriero molto forte, in pochi secondi poteva spezzare qualunque catena costruita da mani umane. Per questo motivo, si erano procurati delle catene forgiate dagli dei, catene che nessuno, nemmeno gli immortali, potevano aprire senza la chiave giusta. E, come Maddox, neanche Aeron poteva liberarsi. All’inizio, Reyes non voleva usarle, per non rubare la libertà del guerriero, ma purtroppo, come era accaduto con Maddox, l’uso delle catene era diventato una necessità.

    «Dov’è Aeron, Reyes?» Sotto quella domanda si celava l’autorità di un uomo abituato a ottenere ciò che voleva, un uomo capace di punire severamente ogni più piccolo indugio.

    Reyes non ne era intimorito, ma gli dispiaceva deludere quel guerriero che amava come un fratello. «Non te lo svelerò. Aeron non vuole essere liberato.» E anche se lo volesse, non lo libererei.

    Era questa la croce di Reyes, la causa del suo senso di colpa. Ci fu un momento di silenzio carico di aspettative. «Posso trovarlo da solo, lo sai bene.»

    «Ci hai già provato e hai fallito, altrimenti non saresti qui.» Reyes sapeva che Lucien poteva teletrasportarsi nel mondo degli spiriti e seguire la traccia psichica che ogni persona emanava. A volte, però, la traccia svaniva o veniva contaminata. Reyes sospettava che quella di Aeron fosse stata contaminata perché il guerriero non era più l’uomo di un tempo.

    «Hai ragione. La sua traccia si conclude a New York» ammise Lucien in tono cupo. «Potrei continuare le mie ricerche, ma ci vorrebbe troppo tempo e il tempo è ciò che adesso ci manca. Sono già passate due settimane.»

    Reyes ne era consapevole, perché in quelle due settimane la sensazione di avere un cappio al collo era peggiorata giorno dopo giorno. I Cacciatori, i loro più grandi nemici, erano alla ricerca del vaso di Pandora perché speravano di risucchiare i demoni dal corpo di ogni guerriero, intrappolandoli per sempre e distruggendo coloro che li avevano ospitati per millenni. Se i guerrieri volevano sopravvivere, dovevano trovarlo per primi. E siccome la vita di Reyes era nel caos, non era pronto a porvi una fine definitiva.

    «Dimmi dove si trova» insistette Lucien, «e lo porterò alla fortezza incatenandolo nel seminterrato.»

    Reyes grugnì. «È già scappato una volta, potrebbe scappare di nuovo. Persino dalle catene di Maddox. La sua sete di sangue gli conferisce una forza che non ho mai visto prima. Credo sia meglio che resti dov’è.»

    «È un tuo amico. È uno di noi.»

    «Al momento è fuori di sé e tu lo sai. Non è consapevole delle proprie azioni. Potrebbe uccidere anche te se ne avesse la possibilità.»

    «Reyes...»

    «La distruggerà, Lucien.»

    Lei. Danika Ford. La ragazza. Reyes l’aveva vista poche volte e quasi non le aveva rivolto la parola, ma la desiderava con tutto se stesso. Una cosa che non comprendeva. Lui aveva una personalità oscura, lei era luminosa. Lui rappresentava l’angoscia, lei era innocente. Reyes non andava bene per lei, sotto ogni punto di vista eppure, quando lei lo guardava, il mondo si riempiva di luce. Era più che sicuro che se Aeron l’avesse raggiunta di nuovo, l’avrebbe uccisa. Niente e nessuno l’avrebbe fermato. Non più. Ad Aeron era stato ordinato di uccidere Danika – e sua madre, sua sorella e sua nonna – e non poteva fare altrimenti, perché il potere degli dei era troppo forte. L’avrebbe uccisa.

    Reyes si sentì assalire dalla rabbia e dovette guardare le rocce sotto di lui per calmarsi. Aeron aveva cercato di rifiutare l’incarico criminoso che gli avevano affidato gli dei. Anzi, si era comportato bene, ma, a mano a mano che passavano i giorni, il suo demone si era fatto più potente, più chiassoso dentro la sua testa, fino a riuscire a prendere il controllo della sua mente. Ora Aeron era diventato il suo demone. Era Ira. E ubbidiva. Era cambiato. Finché quelle quattro donne non fossero state distrutte, Aeron avrebbe vissuto solo per dar loro la caccia e ucciderle. Tuttavia, nel rifugio temporaneo di Danika, quattordici giorni, quattro ore e cinquantasei minuti prima, una piccola parte di lui si era resa conto del crimine che stava commettendo. Una piccola parte che odiava chi era diventato e che desiderava la morte sopra ogni cosa. Voleva porre fine a quel tormento. Altrimenti perché avrebbe chiesto a Reyes di ucciderlo? Mi sono rifiutato. Reyes non poteva fare del male a un altro guerriero. Non un’altra volta. Tuttavia, quale mostro avrebbe lasciato soffrire un amico? Un amico che si era battuto per lui, che aveva ucciso per lui. Un amico che lo amava. Doveva esserci un modo per salvare sia Aeron sia Danika, si era detto per la millesima volta. Aveva passato un numero infinito di ore a cercare di trovare una soluzione.

    «Sai dove si trova la ragazza?» chiese Lucien, interrompendo i suoi pensieri.

    «No, non lo so.» Era la verità. «Aeron l’ha trovata e io ho trovato Aeron, e abbiamo lottato. Lei è scappata e io non l’ho seguita. Può essere ovunque.» Meglio così. Nonostante quella consapevolezza, desiderava disperatamente sapere dove si trovasse, cosa stesse facendo... se fosse ancora viva.

    «Lucien, perché ci stai mettendo tanto?»

    A quella seconda intrusione, Reyes finalmente si voltò. Paris, posseduto da Promiscuità, si era avvicinato a Lucien ed entrambi lo guardavano sospettosi, circondati dai raggi cremisi della luna. Raggi troppo intimoriti per illuminare il male, male che lo stesso Inferno non era riuscito a contenere. Essendo immortale, però, Reyes riusciva a distinguere i loro sguardi persino nell’oscurità.

    Paris era alto, il più alto del gruppo, con i capelli tra il castano e il nero, la pelle pallidissima e gli occhi così azzurri che nemmeno la poesia più sublime avrebbe reso loro giustizia. Le donne umane lo trovavano irresistibile, affascinante, offrendosi a lui senza ritegno anche solo per una carezza, un bacio appassionato. Lucien, benché al momento avesse una compagna, non era così fortunato. Le donne si tenevano a distanza perché il suo viso era sfigurato da cicatrici persino grottesche, che lo facevano sembrare il mostro delle favole. Gli occhi di colore diverso non miglioravano il suo aspetto, uno marrone che vedeva il mondo naturale e uno azzurro che vedeva quello spirituale, ma entrambi messaggeri di morte. Tutti i guerrieri erano muscolosi, armati e pronti a combattere in ogni istante. Non avevano scelta.

    «Non ricordo di aver organizzato una festa quassù» disse Reyes.

    «Be’, stai perdendo dei colpi, data l’età» replicò Paris. «Non dimenticare che dobbiamo discutere le nostre prossime mosse, tra le altre cose.»

    Sospirò. I guerrieri facevano ciò che volevano, quando volevano e nessun commento sarcastico li avrebbe fermati. Lo sapeva bene, perché anche lui era fatto così.

    «Perché non cerchi anche tu uno dei nascondigli di Idra?»

    Quelle labbra invitanti, più adatte a una donna, si tesero in un sorriso confuso. Paris lo guardò con lo stesso sguardo angosciato che Reyes vedeva osservandosi allo specchio, subito sostituito, però, dalla solita irriverenza.

    «Allora?» Reyes chiese inutilmente.

    Alla fine, l’amico disse: «Anche gli immortali hanno bisogno di una pausa caffè ogni tanto».

    C’era dell’altro, naturalmente, ma Reyes non insistette. Non sono l’unico ad avere dei segreti.

    Alcune settimane prima, i guerrieri si erano divisi per cercare Idra, una creatura ostile, mezza serpente e mezza donna, che si era divisa in quattro per fare la guardia ad alcuni giocattoli del re dei Titani. Quei giocattoli – preziosi manufatti, in realtà – avrebbero dovuto condurli al vaso di Pandora. Fino ad allora, erano riusciti a recuperarne solo uno, la Gabbia della Costrizione. Sull’ubicazione degli altri, avevano solo una vaga idea.

    «Sì, ma se paragonata all’estinzione, la pausa caffè perde d’importanza. Inoltre, sì, capisco che devo fare di più per la nostra causa e lo farò. Dopo.»

    Paris fece spallucce. «Anch’io faccio quello che posso. Gli Stati Uniti sono enormi e studiarli da lontano è altrettanto difficile che percorrerli tra tanta gente.» Ciascun guerriero si era recato in nazioni diverse per scovare indizi sull’ubicazione del vaso ed era ritornato a mani vuote cercando di scoprire qualcosa da casa. Senza distogliere la propria attenzione da Reyes, Paris chiese a Lucien: «Ti ha detto dov’è Aeron?».

    Lucien sollevò un sopracciglio. «No.»

    «Te l’avevo detto che non sarebbe stato facile.» Paris si accigliò. «Da settimane non è più se stesso.»

    Reyes avrebbe potuto dire la medesima cosa di Paris, perché aveva notato il viso affaticato e le rughe intorno agli occhi dell’amico, di solito vivaci e pieni di entusiasmo. Forse toccava a lui insistere per avere delle risposte da Paris. Era evidente che gli era accaduto qualcosa. Qualcosa di grave.

    «Abbiamo poco tempo, Reyes.» Nelle parole di Paris si coglieva un rimprovero. «Collabora. Aiutaci.»

    «I Cacciatori sono più che mai decisi a sterminarci» aggiunse Lucien. «Gli umani hanno scoperto il tempio degli Innominabili, impedendoci l’accesso e facilitandolo ai Cacciatori. Abbiamo solo un artefatto su quattro, ma per trovare il vaso ci vogliono tutti quanti.»

    Reyes inarcò un sopracciglio imitando Lucien. «Pensi che Aeron possa aiutarci?»

    «No, ma dobbiamo andare d’accordo. E non possiamo permetterci il lusso di preoccuparci per lui.»

    «Potete smettere di preoccuparvi» disse Reyes. «Non vuole essere trovato. Odia se stesso e non desidera che lo vediamo in quello stato. Vi assicuro che è contento così, altrimenti non lo avrei abbandonato.»

    La porta di accesso al tetto si spalancò e Sabin, posseduto dal Dubbio, uscì con i capelli scuri che danzavano nel vento.

    «Maledizione!» esclamò alzando le braccia. «Cosa diavolo succede?» Vide Reyes e comprese la situazione. Esasperato, disse: «Accidenti, Dolore, sei bravo a rovinare le riunioni».

    «Perché non sei a Roma a fare le ricerche?» gli chiese Reyes. Dannazione, nella mezz’ora che era stato sul tetto, avevano tutti smesso di lavorare?

    Gideon, posseduto da Menzogna, seguiva Sabin a ruota e gli impedì di rispondere con un gelido commento: «Che rimpatriata divertente». Nel linguaggio di Gideon, bella significava noiosa. L’uomo non poteva dire la verità senza soffrire le pene più atroci.

    Dolore, ecco di cosa ho bisogno. Se a Reyes fosse bastato solo mentire per soffrire, la vita sarebbe stata molto più facile.

    «Non dovresti essere negli Stati Uniti ad aiutare Paris?» chiese Reyes. Non aspettò la risposta. «Sta diventando un circo. È possibile che un uomo non possa soffrire e farsi un po’ di male in santa pace?»

    «No» rispose Paris, «non può. Basta con le ciance e basta cambiare discorso. Dacci la risposta che vogliamo o, lo giuro sugli dei, vengo lì e te lo schiaffo in bocca. Il mio ragazzo è affamato e in cerca di cibo. Potresti andargli bene.»

    Reyes non dubitava delle intenzioni di Promiscuità, ma, conoscendo Paris, sapeva anche che preferiva le donne.

    Falli andare via. Reyes osservò i nuovi arrivati. Gideon era vestito di nero con i capelli tinti di blu elettrico, le sopracciglia piene di piercing scintillanti e le ciglia annerite dal rimmel. Gli umani lo trovavano spaventoso. Anche Sabin era vestito di nero, ma i capelli e gli occhi castani e quel suo viso squadrato non lo facevano sembrare minaccioso né pericoloso. Entrambi erano testardi fino al midollo.

    «Ho bisogno di tempo per pensare» rispose Reyes sperando di far leva sulla loro compassione.

    «Non c’è nulla a cui pensare» replicò Sabin. «Farai ciò che è giusto perché sei un guerriero d’onore.»

    Non è vero? Forse sei debole come la ragazza umana che desideri. Altrimenti perché faresti del male a coloro che ami?

    Cavolo, pensò Reyes. Era debole. Era... «Sabin» grugnì. «Smettila di insinuare dubbi nella mia mente, ne ho già abbastanza.»

    Il guerriero fece spallucce e non cercò nemmeno di negare. «Scusa.»

    «Dato che la nostra riunione non è stata cancellata» intervenne Gideon, «non andrò in città al Club Destiny e non farò gridare di piacere un paio di umane.»

    Un attimo dopo, era già scomparso dietro la porta scuotendo la testa, esasperato.

    «Non cancellate la riunione» disse Reyes agli altri. «Iniziate senza di me.» Guardò dietro le spalle il cielo sempre più scuro. Le tinte sinistre della notte erano in attesa e lo invitavano a saltare. «Io sarò giù tra poco.»

    Paris storse le labbra. «Giù, eh? Buffo. Magari ti aspetto di sotto e giochiamo a Nascondi-il-pancreas. Costringerti a rigenerarti e non semplicemente a guarire mi diverte.»

    Lo stesso Lucien sorrise a quelle parole.

    «Oh-oh, voglio giocare anch’io! Posso nascondergli il fegato questa volta?»

    Nel sentire la voce sensuale di Anya, Reyes emise un gemito.

    La dea dell’Anarchia con i capelli bianchi arrivò correndo e si gettò tra le braccia di Lucien, spargendo nell’aria il suo profumo di fragole. I due tubavano e si scambiavano coccole come due pazzi innamorati, ignari del mondo che li circondava. A Reyes c’era voluto un bel po’ di tempo per affezionarsi a quella donna. Lei apparteneva all’Olimpo, patria di coloro che odiava. Inoltre, Anya si lasciava sempre un grande caos alle spalle, una caratteristica che le era naturale. Ma alla fine aveva aiutato ognuno di loro e aveva concesso a Lucien una felicità che Reyes poteva solo sognare.

    Sabin tossì. Paris emise un fischio in sordina. Reyes provò una fitta di invidia che quasi gli fermò il cuore. Il cuore che avrebbe voluto non possedere per non desiderare Danika pur sapendo di non poterla avere. In ogni caso, non era poi così importante, dato che lei non lo avrebbe mai voluto. La maggior parte delle donne non trovava apprezzabile il modo in cui lui si procurava piacere e la dolce e angelica Danika non era da meno. Le era bastato vederlo per restare inorridita. Ma forse sarebbe riuscito a sedurla, ad addolcirla. Forse... No, si era persino rifiutato di tentare. Le donne con cui andava a letto soccombevano sempre al suo demone, ne rimanevano inebriate diventando schiave dei suoi desideri. Sviluppavano la loro brama di sofferenza facendo del male a chiunque fosse nei paraggi.

    «Andate a chiamare gli altri» disse Reyes in tono sarcastico per nascondere la sua angoscia. «La riunione la faremo qui.»

    Cosa faceva Danika in quel momento? Con chi era? Con un uomo? Si stava stringendo a lui come faceva Anya con Lucien? Era forse morta e seppellita come Aeron? Strinse i pugni affondandosi le unghie nella carne, lacerandola e procurandosi un piacere immenso.

    «Piantala, Dolore» disse Anya guardandolo. Posò la testa nell’incavo del collo di Lucien e lo fissò con gli occhi azzurri che si intravedevano tra le ciocche chiare. «Stai facendo perdere del tempo a Lucien e questo mi irrita moltissimo.»

    Quando Anya era irritata succedevano brutte cose. Guerre, disastri naturali. «Ne abbiamo già parlato. Ha avuto le informazioni che voleva.»

    «Non tutte» disse Lucien.

    «Digli ciò che vuole o ti spingerò» disse Anya. «E, giuro sugli dei, maledetti bastardi, che mentre guarirai e non sarai in grado di fermarmi, troverò la tua ragazza e ti spedirò una delle sue dita.»

    A quel pensiero Reyes vide rosso dalla rabbia. Danika... ferita. Non reagire. Non farti prendere dalla collera. «Non la toccherai.»

    «Bada a come parli» lo minacciò Lucien, stringendo a sé la sua donna.

    «Non sai nemmeno dove si trova» aggiunse Reyes in tono più calmo, stupito di quanto fosse diventato protettivo Lucien.

    Anya sorrise di nascosto.

    «Anya» le intimò minaccioso.

    «Cosa?» gli chiese con aria innocente.

    «Aeron deve stare con noi» disse Lucien.

    «Aeron è fuori discussione ormai» gridò Reyes. «Voi non c’eravate. Non avete visto il tormento nei suoi occhi. Non lo avete sentito mentre mi implorava. Ho agito nell’unico modo in cui potevo agire e lo rifarei.»

    Si allontanò dai suoi amici e guardò in basso. Le pozzanghere d’acqua si increspavano sferzate dalla brezza. Lo stavano chiamando. Liberazione, mormoravano. Solo per un po’...

    «Reyes» gridò Lucien.

    Reyes saltò.

    2

    «Arrivano le ordinazioni.»

    Danika Ford prese i due piatti fumanti dal vassoio d’acciaio. Un hamburger unto senza cipolle e un hot-dog piccante con formaggio. Entrambi erano ricoperti di deliziose patatine fritte e il profumo stuzzicava le sue narici facendole venire l’acquolina in bocca e brontolare lo stomaco. L’ultima volta che aveva mangiato era stata la sera prima, un sandwich al salame. Il pane era raffermo e il salame vecchio. In quel momento avrebbe dato tutto per un po’ di pane raffermo, se avesse avuto dei soldi. Mancavano tre ore alla fine del suo turno e poi avrebbe potuto mangiare. Tre ore di male ai piedi e alla schiena. Non ce la poteva fare.

    Non fare la principessina. Alza il mento. Devi lottare. Sei una Ford. Forte e gagliarda. Nonostante quei pensieri bellicosi, lo sguardo le cadde sui piatti. Si leccò le labbra. Magari solo un assaggino. Che male c’era? Non se ne sarebbe accorto nessuno. Sollevò la mano prima di riuscire a fermarsi e con le dita...

    «Sta rubando una delle mie patatine» mormorò un cliente.

    Un altro rispose: «Cosa ti aspetti da una come quella?».

    Danika si irrigidì. Per un attimo dimenticò la fame e fu assalita da un milione di emozioni diverse. Tristezza, frustrazione e vergogna erano le prime della lista. Ecco com’è diventata la mia vita. Da figlia superprotetta si era trasformata in una fuggiasca nel giro di una notte. Da artista rispettata in una cameriera.

    «Mi piacerebbe dirle che sono sorpresa, ma...»

    «Controlla il portafogli prima di uscire.»

    La vergogna passò al primo posto. Non le fu necessario guardare i due uomini per capire come la giudicassero. Erano venuti tre volte a mangiare da Enrique’s e ogni volta era stato un attacco alla sua autostima. Era strano, però. Non le avevano mai detto niente di scortese, anzi, erano sempre sorridenti e la ringraziavano quando portava loro qualcosa, ma non riuscivano a mascherare il disgusto che esprimevano con gli occhi. Li aveva soprannominati Bird Brothers, e avrebbe voluto farli scappare via.

    Non attirare l’attenzione, le diceva il buonsenso e in quel periodo era l’unica regola che contava.

    «Sarà meglio che non ti becchi più a rubacchiare il cibo» la sgridò il capo. Enrique era il proprietario e il cuoco. «Ora sbrigati. Il cibo si sta raffreddando.»

    «In realtà, è troppo caldo. I clienti potrebbero bruciarsi la lingua e denunciarti.»

    I piatti infondevano un po’ di calore alla pelle gelida che non riusciva a riscaldare da settimane. Anche in quel momento, nel caldo soffocante del diner, Danika indossava un maglione che aveva comprato per meno di quattro dollari al negozio dell’usato in fondo alla strada. Purtroppo, però, la temperatura dei piatti non era sufficiente a riscaldarla. Presto le sarebbe accaduta una cosa bella. Il Bene e il Male dovevano essere in equilibrio, giusto? Un tempo ne era convinta. Aveva creduto che la felicità la aspettasse dietro ogni angolo. Ma ormai aveva capito che non era così.

    Alle sue spalle, oltre le vetrate che si affacciavano sulla vita notturna di Los Angeles, le macchine sfrecciavano e la gente passeggiava senza pensieri. Poco tempo fa era quella la mia vita.

    Danika aveva accettato quel posto lavorando il più possibile perché Enrique la pagava in nero, senza contributi, in contanti. Poteva andarsene in un secondo. Anche sua madre viveva così? E sua sorella? Sua nonna era ancora viva?

    Solo due mesi prima, avevano deciso di fare una lunga vacanza a Budapest, la città preferita del nonno.

    Magica, diceva sempre. Dopo la sua morte, vi si erano recate per onorare la sua memoria e dirgli addio.

    L’errore più grande che potessero commettere. Erano state rapite e imprigionate da mostri, veri mostri. Creature maledette che infestano le fantasie notturne. Creature a volte dall’aspetto umano e altre no. Ogni tanto Danika aveva visto artigli e teschi sotto le loro sembianze umane.

    Per fortuna, erano riuscite a liberarsi, ma lei era stata di nuovo rapita. Poi l’avevano rilasciata senza torcerle un capello. Sana e salva, ma per quanto? L’avvertimento era stato chiaro: Scappa, nasconditi. Presto ti daranno la caccia e, se ti trovano, tu e la tua famiglia morirete.

    Quindi erano dovute fuggire. Si erano divise per rendere più difficile la loro cattura. Si erano nascoste, amiche solo della loro ombra. Danika all’inizio si era trasferita a New York, la città che non dorme mai, cercando di confondersi tra la folla. Ma i mostri l’avevano trovata di nuovo. Ed era riuscita di nuovo a fuggire raggiungendo Los Angeles in autostop, dove lavorava per guadagnare quel poco che le bastava per sopravvivere e per pagarsi le lezioni di autodifesa.

    Nei primi tempi lei e il resto della famiglia si erano mantenute in contatto grazie a cellulari ricaricabili consegnati ad amici fidati. Poi Danika aveva perso ogni contatto con sua nonna. Nessuna chiamata. I mostri l’avevano trovata e uccisa? L’ultima volta che Danika l’aveva sentita era stato quando la nonna era arrivata in una cittadina dell’Oklahoma dove aveva degli amici. Avrebbe fatto meglio ad

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