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Demon's destiny (eLit): eLit
Demon's destiny (eLit): eLit
Demon's destiny (eLit): eLit
E-book441 pagine13 ore

Demon's destiny (eLit): eLit

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Info su questo ebook

I Signori degli Inferi: seducenti guerrieri immortali, legati da un'antica maledizione che nessuno è mai riuscito a infrangere...



Un guerriero intrappolato nell’oscurità... Una donna decisa a salvarlo da se stesso...

Dopo aver sopportato indicibili torture negli Inferi, Kane non vuole avere niente a che fare con la bellissima Josephina. Anche se è stata lei a salvarlo, anche se è l'unica ad accendere in lui una passione divorante e, chissà come, è riuscita a insinuarsi nel suo cuore ferito. Perché quella donna sensuale e dolcissima, per metà umana e per metà Fae, rischia di risvegliare Disastro, il demone che dorme dentro di lui. E le conseguenze sarebbero terribili. Il loro amore è proibito, il loro destino inevitabile: vivere separati o morire insieme. A meno che...



In attesa dell'uscita dell'ultimo episodio della serie de I Signori degli Inferi, sempre su eLit a ottobre, non perdete l'occasione di rileggere gli altri avvincenti episodi della saga.
LinguaItaliano
Data di uscita29 set 2017
ISBN9788858975985
Demon's destiny (eLit): eLit
Autore

Gena Showalter

Tra le autrici più amate e lette dal pubblico italiano.

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    Anteprima del libro

    Demon's destiny (eLit) - Gena Showalter

    Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:

    The Darkest Craving

    HQN Books

    © 2013 Gena Showalter

    Traduzione di Anna Polo

    Questa edizione è pubblicata per accordo con

    Harlequin Books S.A.

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

    persone della vita reale è puramente casuale.

    © 2014 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

    eBook ISBN 978-88-5897-598-5

    1

    New York, oggi

    Josephina Aisling abbassò lo sguardo sull’uomo disteso sul letto nella stanza del motel. Era un guerriero immortale, di una bellezza che nessun mortale avrebbe mai potuto uguagliare. Ciocche castane, nere e dorate erano sparse sul cuscino e invitavano l’occhio a indugiare un minuto, due... Anzi, perché non per sempre?

    Si chiamava Kane, aveva ciglia lunghe, naso forte e mento ostinato. Superava il metro e novanta e possedeva il tipo di muscolatura possente che si poteva acquisire solo sui campi di battaglia. Indossava pantaloni sporchi e macchiati, ma lei sapeva che un grande tatuaggio a forma di farfalla gli ricopriva il fianco destro: l’inchiostro nero era spesso e un po’ frastagliato, le punte delle ali si allungavano al di sopra della stoffa e ogni tanto erano scosse da lievi fremiti, come se l’insetto stesse lottando per sollevarsi dalla pelle, o per affondare più in profondità.

    Entrambe le cose erano possibili: il tatuaggio era un marchio di malvagità assoluta, il segno visibile del demone custodito nel corpo di Kane.

    Demoni... Un brivido la scosse. Dominatori dell’inferno, bugiardi, ladri, assassini. Tenebre senza un solo sprazzo di luce. Attiravano e tentavano, rovinavano, torturavano e distruggevano.

    Kane, però, non era il suo demone.

    Come tutti quelli della sua razza, i potenti Fae, Josephina aveva passato gran parte della vita a studiare Kane e i suoi amici, i Signori degli Inferi. In effetti, su ordine del re le spie dei Fae avevano seguito per secoli i guerrieri, osservandoli e tornando con lunghi rapporti che poi gli scribi avevano trascritto. Ne erano nati libri pieni di storie e immagini, che le madri compravano e leggevano ai figli. E loro, una volta cresciuti, facevano la stessa cosa: il bisogno di sapere come continuava la storia era troppo forte perché potesse essere ignorato.

    I Signori degli Inferi erano diventati i protagonisti assoluti della migliore e peggiore soap opera di Séduire, il reame dei Fae.

    Josephina divorava ogni particolare, soprattutto quelli sul supersexy Paris e sul solitario Torin; Kane, la bellissima tragedia ambulante, si piazzava al terzo posto. Probabilmente conosceva la storia della sua vita meglio della propria.

    Il guerriero aveva vissuto per millenni e aveva avuto solo quattro relazioni serie, oltre a una miriade di insignificanti avventure di una notte. Aveva combattuto innumerevoli battaglie sanguinose con i suoi nemici, i Cacciatori, ed era stato catturato e torturato tre volte. Ogni volta lei aspettava trepidante di sapere se era riuscito a fuggire.

    La loro storia era cominciata quando Kane e i suoi amici avevano rubato e aperto il vaso di Pandora, scatenando i demoni custoditi al suo interno. I Greci allora al potere avevano deciso di punirli trasformando i loro corpi nei ricettacoli della malvagità che avevano liberato. Kane era diventato così il custode del demone del Disastro. Gli altri ospitavano Promiscuità, Malattia, Sfiducia, Violenza, Morte, Dolore, Ira, Dubbio, Menzogna, Segreti e Sconfitta. Ogni creatura portava con sé una terribile maledizione.

    Promiscuità doveva fare sesso ogni giorno con una donna diversa, altrimenti rischiava di indebolirsi e morire.

    Malattia non poteva toccare una creatura vivente senza scatenare un’epidemia.

    Disastro causava catastrofi dovunque andasse Kane, un fatto che aveva spezzato il cuore di Josephina e le aveva fatto provare un profondo senso di affinità. Tutta la sua vita, infatti, era un disastro.

    «Non mi toccare» mugolò Kane con voce roca e aspra. Le gambe possenti scalciarono via le lenzuola spiegazzate. «Giù le mani. Basta, ho detto!»

    Poverino, tormentato da un altro incubo.

    «Nessuno ti sta toccando» sussurrò Josephina. «Sei al sicuro.»

    Vedendo che si calmava, sospirò sollevata.

    Quando l’aveva incontrato era incatenato a una pedana nell’inferno, il torace aperto, le costole esposte, i polsi e le caviglie appesi solo ai tendini sfilacciati. Sembrava un pezzo di carne in una macelleria.

    Vorrei un chilo di fesa e mezzo di spalla macinata.

    Che linguaggio volgare. Sei disgustosa. Nel corso degli anni aveva passato così tanto tempo da sola che conversare con se stessa era diventata la sua unica fonte di divertimento e purtroppo la sua unica compagnia. Avrei ordinato un chilo e otto etti di lombo di maiale.

    Nonostante le sue condizioni pietose, averlo trovato era la cosa migliore che le fosse mai accaduta. Grazie a Kane poteva ottenere la libertà... o magari l’accettazione.

    La Principessa Synda, sua sorellastra e donna più straordinaria mai nata nel reame dei Fae, non apparteneva ai Signori degli Inferi, ma custodiva ugualmente un demone, quello dell’Irresponsabilità. Pareva che ci fossero più demoni che guerrieri e quelli in più erano stati dati ai reclusi nel Tartaro, una prigione sotterranea per immortali. Il primo marito di Synda era uno di loro e quando era morto il demone aveva trovato il modo di trasferirsi dentro di lei.

    Quando il Re dei Fae era venuto a saperlo aveva cercato di trovare una soluzione al dramma della figlia, ma fino a quel momento la ricerca non aveva dato risultati.

    Potrei portare Kane davanti all’Alta Corte dei Fae, lasciare che risponda a ogni domanda e forse allora mio padre potrebbe vedermi, vedermi davvero per la prima volta in vita mia.

    Le sue spalle si incurvarono. No. Non tornerò mai più là.

    Josephina sarebbe sempre stata la vittima reale, destinata a ricevere le punizioni riservate a Synda l’Adorata.

    E Synda meritava sempre una punizione.

    La settimana prima, in un accesso di rabbia, la principessa aveva dato alle fiamme le scuderie reali, con tutti gli animali dentro, e Josephina si era ritrovata nel Portale Senza Fine che conduceva all’inferno.

    Là un giorno equivaleva a mille anni e mille anni erano come un giorno; per un tempo che le era parso infinito era precipitata in un abisso oscuro. Aveva urlato, ma nessuno l’aveva sentita. Aveva implorato pietà, ma nessuno si era curato di lei. Aveva pianto, ma non era riuscita a trovare un appiglio.

    Poi un’altra ragazza era finita nel centro dell’inferno. Si trattava di una Fenice, una razza di guerrieri che discendeva dai Greci, dotata della capacità di risorgere dalle proprie ceneri più e più volte, fino a quando non arrivava la morte definitiva.

    Kane ricominciò ad agitarsi e a gemere.

    «Non permetterò che ti accada niente» lo rassicurò.

    Lui tornò a calmarsi.

    Se solo la Fenice fosse stata così accomodante con lei... Quando l’aveva vista, nel suo sguardo si era accesa una scintilla di odio che andava ben al di là di quello in genere presente tra i figli dei Titani – come Josephina – e i discendenti dei Greci. Eppure non l’aveva uccisa, anzi... le aveva permesso di seguirla per la caverna e di cercare l’uscita, senza dover usare la poca energia rimasta. Come Josephina, anche lei voleva solo andarsene di là.

    Avevano superato muri macchiati di rosso e inalato il fetido odore dello zolfo. Intorno a loro gemiti e grugniti creavano una sinfonia terribile, a cui i loro sensi sofferenti non erano pronti. Poi si erano imbattute nel guerriero mutilato. Nonostante le sue condizioni pietose Josephina lo aveva riconosciuto subito e si era fermata.

    Un senso di reverenza l’aveva invasa: davanti a lei – proprio a lei! – c’era uno dei famosi Signori degli Inferi. Non sapeva come aiutarlo, dal momento che non era quasi in grado di aiutare se stessa, ma aveva deciso di tentare. Di fare tutto il necessario.

    Non era stata un’impresa da poco.

    Posò lo sguardo su di lui. «Eri la mia prima e unica occasione di realizzare il mio più grande desiderio» ammise. «Qualcosa che non potevo fare da sola. Appena ti sveglierai ho bisogno che tu mantenga la tua promessa.»

    E poi...

    Sospirò piano e si passò le dita sulla fronte.

    Lui sussultò nel sonno. «No!» ringhiò. «Ti distruggerò. Ti farò a pezzi insieme a tutta la tua famiglia.»

    Non erano minacce a vuoto. Le avrebbe messe in pratica, probabilmente con il sorriso sulle labbra, per tutto il tempo.

    Anzi, senza probabilmente: lo avrebbe fatto di sicuro. Tipico dei Signori degli Inferi.

    «Kane» lo chiamò. Lui si calmò di nuovo. «Credo sia ora che ti svegli. La mia famiglia mi rivuole indietro. Per me sono passati mille anni, per loro soltanto un giorno. Visto che non sono tornata a Séduire, è probabile che i soldati mi stiano cercando.»

    E quel che era peggio la cercava anche la Fenice, decisa ad asservirla e a vendicare il torto che Josephina le aveva fatto durante la fuga dall’inferno.

    «Kane.» Gli scosse con gentilezza una spalla. La pelle era di una morbidezza squisita, ma bruciava di febbre, e i muscoli al di sotto erano solidi e possenti. «Ho bisogno che tu apra gli occhi.»

    Le lunghe ciglia si sollevarono, rivelando iridi appannate di un color oro e smeraldo. Un attimo dopo due forti mani maschili le cinsero il collo e la gettarono sul letto. Il materasso rimbalzò, nonostante lei fosse leggerissima.

    Josephina non oppose resistenza quando Kane la inchiodò con il suo peso, ma la sua stretta era così forte che non riusciva a respirare. Il profumo di rose che ormai associava a lui l’avvolgeva; era una fragranza insolita per un uomo così virile, una stranezza che non riusciva a capire.

    «Chi sei?» ringhiò. «Dove siamo?»

    Sta parlando direttamente con me!

    «Rispondi.»

    Lei cercò invano di obbedire e lui allentò la stretta.

    Oh, così andava meglio. Un respiro profondo. Inspirare. Espirare. «Tanto per cominciare, sono la tua fantastica, meravigliosa liberatrice.» Visto che dalla morte della madre nessuno le faceva più complimenti, aveva deciso di pensarci da sola. «Lasciami andare e ti riferirò i particolari.»

    «Chi sei?» insistette, stringendola forte.

    La vista cominciava a oscurarsi e i polmoni bruciavano per la mancanza d’aria, eppure lei non oppose resistenza.

    «Donna.» La pressione si allentò. «Rispondi. Subito.»

    «Uomo delle caverne, liberami. Subito» replicò Josephina, inalando con avidità una boccata d’ossigeno.

    Bada a come parli. Non vorrai farlo scappare, no?

    Kane si staccò da lei e si accucciò in fondo al letto, continuando a fissarla con intensità mentre si metteva a sedere lentamente. Era rosso in viso e Josephina si chiese se fosse imbarazzato per le sue azioni, o stesse cercando di nascondere la debolezza che lo tormentava ancora.

    «Hai cinque secondi, donna.»

    «Altrimenti cosa succederà, guerriero? Mi farai del male?»

    «Sì.» Il tono era sicuro e determinato.

    Che stupido. Era il caso di chiedergli un autografo sulla maglietta? Mmh, forse no. «Non ti ricordi di quello che mi hai promesso?»

    «Io non ti ho promesso niente» replicò. Il tono continuò a essere sicuro, ma l’espressione era confusa.

    «E invece sì. Ripensa al tuo ultimo giorno all’inferno. Eravamo tu, io e varie migliaia dei tuoi peggiori nemici.»

    Kane aggrottò la fronte e gli occhi si incupirono per il ricordo, la comprensione... e l’orrore. Scosse la testa come se volesse scacciare i pensieri che ora gli turbinavano nella mente. «Non parlavi sul serio.»

    «Sì, invece.»

    «Come ti chiami?» chiese, frustrato e aggressivo.

    «È meglio che tu non lo sappia. Così non ci sarà alcun attaccamento emotivo e potrai fare più facilmente quello che ti ho chiesto.»

    «Non ho mai promesso» sbottò. «E perché mi guardi così?»

    «Così come?»

    «Come se fossi... una scatola gigante di cioccolatini.»

    «Ho sentito parlare di te.» Non aggiunse altro: era la verità, senza tante spiegazioni.

    «Non ci credo. Se sapessi qualcosa di me, a quest’ora te la saresti già data a gambe per la paura.»

    Davvero? «So che nel corso delle numerose guerre che avete combattuto, i tuoi amici ti hanno lasciato spesso indietro, per paura dei disastri che potevi combinare. So che ti isoli spesso, terrorizzato da quello che potrebbe succedere, eppure sei riuscito a uccidere migliaia e migliaia di nemici.»

    Lui si passò la lingua sui denti candidi e perfetti. «Come lo sai?»

    «Pettegolezzi.»

    «I pettegolezzi sono spesso infondati» borbottò Kane. Passò lo sguardo sulla piccola camera e tornò a puntarlo su di lei.

    Josephina sapeva che quella sorta di carezza visiva era un’abitudine acquisita nel corso degli anni: serviva a rendersi conto di ogni particolare – entrate, uscite, armi che potevano essere usate contro di lui, armi che lui poteva usare.

    Questa volta avrebbe visto solo la carta da parati gialla che si stava staccando dalla pareti, il comodino malconcio con una lampada scheggiata, il condizionatore che funzionava solo a tratti, il tappeto marrone e il cestino della carta straccia pieno di pezzuole insanguinate e di flaconi di medicine ormai vuoti, usati per medicare le sue abrasioni.

    «Quel giorno all’inferno mi hai detto quello che volevi e poi hai commesso l’errore di pensare che avessi acconsentito alla tua richiesta» cominciò.

    Sembrava un rifiuto. No... non può rifiutare. Non adesso. «Hai farfugliato il tuo assenso. Io ho fatto la mia parte; ora tocca a te.»

    «No. Non ho mai chiesto il tuo aiuto.» La sua voce era tagliente come un colpo di frusta. «Non l’ho mai voluto.»

    «E invece sì! Avevi uno sguardo implorante, non puoi negarlo. Non potevi vederlo, dunque non hai idea di come appariva.»

    Una pausa prolungata. «È l’argomento più illogico che abbia mai sentito» commentò poi con calma.

    «No, è il più brillante, ma il tuo patetico cervello non è in grado di comprenderlo.»

    «Non avevo uno sguardo implorante» tagliò corto Kane in tono definitivo.

    «Lo avevi» insistette Josephina. «Per tirarti fuori di là ho fatto una cosa terribile.» Purtroppo mandare alla Fenice un biglietto di scuse non avrebbe risolto il problema.

    In preda alla debolezza e consapevole di aver bisogno di aiuto – Marcisci all’inferno, puttana dei Fae era stato tutto ciò che la sua compagna di viaggio le aveva detto – aveva usato il talento di cui era dotata, una benedizione nelle circostanze giuste, ma anche una maledizione che la imprigionava in un mondo privo di contatti fisici: con un semplice tocco aveva rubato tutta la forza alla Fenice.

    L’aveva comunque portata su una spalla fuori dall’inferno, la stessa cosa che aveva fatto con Kane, lottando con i demoni per tutto il percorso – un miracolo, considerato che non aveva mai combattuto in vita sua – e alla fine aveva trovato una via d’uscita.

    «Non ti ho mai chiesto di fare cose terribili.» La voce del guerriero conteneva un cupo avvertimento.

    «Forse non in modo esplicito; in ogni caso mi sono quasi rotta la schiena per salvarti.» Si mise in ginocchio, facendo ondeggiare il materasso. Kane era così indebolito che finì quasi per terra. «Sembrava che pesassi quattro tonnellate... ma erano tonnellate magnifiche» aggiunse in fretta. Smettila di insultarlo!

    Lui strinse gli occhi e la squadrò da capo a piedi; non era lo sguardo furtivo con cui aveva scrutato la camera, ma sembrava comunque una carezza. Si era accorto che ora lei aveva la pelle d’oca?

    «Come ha fatto una ragazza come te a compiere un’impresa simile?»

    Percepiva forse la sua inferiorità? Josephina sollevò il mento. «Lo scambio di informazioni non faceva parte del nostro accordo.»

    «Per l’ultima volta, donna: tra noi non c’è nessun accordo.»

    Un tremito desolato la scosse, oscurando le sensazioni che aveva provato prima. «Se non mantieni la tua promessa, io... io...»

    «Tu cosa?»

    Soffrirò per il resto dei miei giorni. «Come posso farti cambiare idea e indurti ad agire nella maniera giusta?»

    Lui parve chiudersi in se stesso, nascondendo ogni pensiero. «A quale specie appartieni?»

    Cosa c’entrava in quel momento? D’altra parte la risposta poteva spingerlo all’azione. I Fae infatti non erano una razza benvoluta: gli uomini erano conosciuti per il comportamento disonorevole in battaglia e l’insaziabile bisogno di andare a letto con qualsiasi creatura si muovesse, e le donne per la tendenza ai tradimenti e agli scandali e la capacità di confezionare un guardaroba da urlo.

    «Sono mezza umana e mezza Fae.» Scostò i capelli, mostrandogli le orecchie appuntite.

    Lui strinse gli occhi. «I Fae discendono dai Titani e i Titani sono i figli degli angeli caduti e degli umani. Al momento dominano il livello più basso dei cieli.» Le scagliò addosso ogni fatto come se fosse una pallottola.

    «Grazie per la lezione di storia.»

    Kane aggrottò la fronte. «Dunque sei...»

    Un nemico? Un essere malvagio?

    Scosse la testa senza completare la domanda, poi arricciò il naso, come se avesse sentito un odore... non sgradevole, ma nemmeno piacevole. Inspirò in profondità e parve ancora più torvo. «Non assomigli affatto alla ragazza che mi ha liberato... alle ragazze che mi hanno liberato... No, era una sola.» Scosse di nuovo la testa, come se stesse cercando di ricostruire l’accaduto e dargli un senso. «Il viso e i capelli continuavano a cambiare. Ricordo ogni particolare, eppure ciò che vedo adesso non è quello che ho visto all’inferno. L’odore però...»

    Era lo stesso. «Possedevo la capacità di cambiare aspetto» spiegò Josephina.

    Lui inarcò le sopracciglia. «Possedevi. Verbo al passato» notò.

    Nonostante il suo stato pietoso, aveva colto ciò che intendeva. «Infatti. Ho perso quella capacità.» La forza e i talenti che rubava agli altri si mantenevano per un tempo che poteva andare da un’ora a qualche settimana, senza che lei potesse esercitare alcun controllo sulla durata. Ciò che aveva preso alla Fenice era svanito il giorno prima.

    «Tu menti. Nessuno possiede una capacità un giorno e la perde quello dopo.»

    «Io non mento mai... a parte le rare volte in cui lo faccio, ma mai in modo intenzionale. E comunque ora sto dicendo la verità.» Sollevò la mano destra. «Giuro.»

    Lui strinse le labbra. «Da quanto tempo mi trovo qui?» chiese.

    «Una settimana.»

    «Una settimana!» trasecolò.

    «Sì. Abbiamo passato la maggior parte del tempo a giocare al medico inesperto e al paziente ingrato.»

    Il suo cipiglio divenne ancora più minaccioso. I libri non gli avevano fatto giustizia. «Una settimana» ripeté.

    «Non ho fatto errori di calcolo, te lo assicuro. Ho spuntato i secondi nel calendario del mio cuore.»

    Kane le lanciò un’occhiata di fuoco. «Hai una bella boccaccia, eh?»

    Lei si illuminò. «Davvero?» Era il primo complimento che riceveva da quando era morta la madre e se lo sarebbe tenuto caro. «Grazie. Dunque pensi che abbia una bocca molto bella, o appena sopra la media?»

    Lui parve sul punto di rispondere, ma non riuscì a emettere alcun suono. Le palpebre si chiudevano e si aprivano e il corpo imponente ondeggiava. Stava per cadere a terra.

    In quel caso, lei non sarebbe riuscita a riportarlo sul letto. Protese verso di lui le mani coperte dai guanti, ma Kane indietreggiò e la respinse, deciso a evitare ogni contatto tra di loro. Che tipo sveglio!

    Poi cadde sul tappeto con un tonfo.

    Mentre Josephina correva al suo fianco, la porta della stanza si aprì, mentre frammenti di legno venivano scagliati in ogni direzione. Un guerriero alto, bruno e muscoloso si stagliava sulla soglia, il viso in ombra e l’aria minacciosa, forse perché stringeva due pugnali insanguinati.

    Dietro di lui ce n’era un altro: era biondo e... aveva delle budella appese ai capelli.

    Gli uomini di suo padre l’avevano trovata.

    2

    Kane lottò contro un’ondata di dolore, umiliazione e fallimento. Era stato creato già del tutto formato, un guerriero fatto e finito, e aveva combattuto in innumerevoli guerre. Aveva sterminato un nemico dopo l’altro e se ne era andato dal campo di battaglia coperto di ferite, ma sempre con il sorriso sulle labbra. Aveva combattuto e vinto, inferto sofferenze ai suoi avversari e inseguitori, eppure ora era riverso sul pavimento di uno squallido motel, troppo debole per muoversi, in balia di una donna bella e fragile che l’aveva visto nelle condizioni peggiori: incatenato, violato e devastato dalle torture.

    Voleva strapparsi dalla mente quelle immagini, anche a costo di farlo con un coltello.

    I Cacciatori, sempre pronti ad accusarlo di ogni disastro. La loro bomba. Il viaggio all’inferno. Un’orda di demoni che lo attaccava, uccideva i Cacciatori e lo portava via per sottoporlo a tormenti senza fine. Manette, sangue che colava, grugniti soddisfatti, zanne insanguinate, mani dappertutto, bocche invadenti, lingue guizzanti.

    Come musica di sottofondo, gemiti di dolore – i suoi – e di piacere – di altri. Carne contro carne, unghie che graffiavano e affondavano, scoppi di risa.

    Effluvi orribili gli riempivano le narici: zolfo, eccitazione, sporco, rame vecchio, sudore. L’odore pungente della paura.

    Emozioni brutali lo bombardavano: disgusto, rabbia, un senso di profonda violazione, dolore, umiliazione, tristezza, impotenza, panico, ancora disgusto.

    Emise un gemito disperato. Nel tentativo di evitare un crollo completo, aveva eretto un muro intorno alla mente, bloccando le emozioni più intense. Non ce la faccio... Non posso... Finalmente era libero. Non doveva dimenticarlo. Erano arrivati i soccorsi.

    No, all’inizio non era stato un vero soccorso. I guerrieri lo avevano liberato dai demoni, solo per legarlo e sottoporlo a una forma di tortura tutta speciale. Poi era arrivata la ragazza, chiedendogli di aiutarla con un compito infame.

    «Che cosa gli hai fatto?» ruggì una voce maschile. «Perché c’erano dei soldati Fae pronti a entrare in questa stanza?»

    «Ehi, un momento. Non siete con loro?» chiese Josephina interdetta.

    «Chi sei, donna?»

    Kane riconobbe quella voce: apparteneva a Sabin, il suo capo, custode del demone del Dubbio. Non avrebbe esitato a rompere il collo a una donna, se avesse pensato che aveva fatto del male a uno dei suoi soldati.

    «Io? Non sono nessuno e non ho fatto niente. Davvero» rispose la ragazza.

    «Le bugie possono solo peggiorare la situazione.»

    A parlare era stato Strider, custode del demone della Sconfitta. Anche lui era pronto a ferire una donna per difendere un amico.

    La loro comparsa avrebbe dovuto confortarlo. Erano come fratelli, rappresentavano la famiglia di cui aveva bisogno; lo avrebbero protetto e portato in salvo e si sarebbero prodigati per guarirlo. Lui però si sentiva coperto di cicatrici, pesto, con tutte le emozioni esposte, e non sopportava l’idea che gli amici assistessero alla sua vergogna.

    «Ohhh! Perché non siete usciti prima dall’ombra? So chi siete» sbottò la ragazza. «Siete... siete voi...»

    «Sì, siamo noi e anche la tua rovina» scattò Sabin.

    Il guerriero era convinto che la ragazza dai capelli neri fosse responsabile delle condizioni pietose di Kane. Un errore.

    Lui cercò di mettersi a sedere, ma i muscoli dello stomaco non si erano ancora ricostituiti del tutto ed erano inservibili.

    «Per favore, non prendertela, ma questa è la cosa più stupida che mi abbiano mai detto... e Kane ne ha già dette parecchie. Sei un guerriero magnifico, famoso in tutte le terre per la tua forza e la tua astuzia. Sono sicura che tu possa formulare una minaccia migliore di questa» dichiarò Josephina.

    Le sciocchezze uscite da quella boccuccia a cuore lo avevano fatto spesso sorridere, nonostante il dolore devastante. Successe anche in quel momento; Kane non riusciva a capire per quale motivo.

    «C’è un modo giusto per prenderla?» sbottò Sabin. «Tu sorveglia la porta» ordinò a Strider. «Io la faccio a pezzi.»

    «No, capo. Voglio farlo io.»

    «Significa che combatteremo fino alla morte?» chiese lei in tono casuale.

    «Sì» risposero entrambi all’unisono.

    «Oh, va bene. Vogliamo cominciare?»

    Kane si irrigidì.

    «Parla sul serio?» chiese Sabin.

    «Certo che no» dichiarò Strider.

    «Sì, invece» ribadì lei.

    Piuttosto arrogante, la ragazzina.

    Kane era sempre più confuso.

    Lei lo aveva curato con premura e gentilezza, eppure il suo tocco gli aveva procurato un dolore lacerante, che pareva arrivare nel profondo, come una malattia che lo divorava. Allo stesso tempo, però, un istinto primordiale lo spingeva ad afferrarla, tenerla stretta, a non lasciarla più andare.

    Era bella, divertente e dolce. Ogni volta che la guardava sentiva solo una parola: mia.

    Mia. Mia. MIA.

    Era come un rumore continuo, innegabile, inarrestabile, e sbagliato. Se fosse stata sua non gli avrebbe procurato dolore. E poi lui non voleva possedere nessuno. Ogni volta che aveva cercato di avviare una relazione, il demone dentro di lui l’aveva rapidamente distrutta, insieme alla donna in questione. E ora, dopo tutto quello che gli era successo...

    Un’ondata di fremente disgusto lo spinse a stringere le mani a pugno, pronto a usarle come armi pericolose. No, non voleva possedere nessuno.

    «Hai tanta fretta di morire?» chiese Strider, girando in cerchio intorno a lei.

    «La stai tirando per le lunghe?» lo provocò. «Temi di non farcela con me?»

    Il guerriero trasse un respiro.

    Di proposito o no, la ragazza gli aveva lanciato una sfida e il suo demone l’aveva accettata. Ora Strider avrebbe fatto tutto il possibile per vincere e Kane non poteva biasimarlo: quando perdeva soffriva in modo atroce per giorni.

    I demoni portavano sempre una maledizione.

    Devo fermarlo. Che la ragazza gli appartenesse o no, non doveva succederle niente di male. Il minimo livido sulla sua pelle baciata dal sole lo avrebbe sconvolto, lo sapeva. Sentiva l’oscurità crescere e il controllo diventare sempre più tenue.

    Mentre cercava ancora una volta di mettersi a sedere, il pavimento tremò sotto l’impatto di passi pesanti. Sentì ringhi e grugniti, un fruscio di vestiti, uno scontro di carne e ossa e un clangore metallico. I suoi amici l’avrebbero distrutta.

    «Tutto qui?» li punzecchiò la ragazza ansante. «Forza, ragazzi! Facciamo qualcosa di memorabile, degno dei libri di storia!»

    «No!» cercò di urlare Kane. Neanche le sue orecchie riuscirono a distinguere quel suono spezzato.

    Strider lo superò con un salto. Risuonò un altro stridore metallico.

    «Che cosa c’è di tanto memorabile?» ruggì Sabin. «Non fai altro che saltellare via quando cerchiamo di colpirti.»

    «Mi dispiace. Non volevo, ma l’istinto ha avuto la meglio» si giustificò lei.

    Per chiunque altro che non fosse Kane, a conoscenza del suo segreto desiderio di morte, quella conversazione sarebbe apparsa assurda.

    I due uomini continuarono a inseguire la ragazza nella piccola stanza, saltando sui mobili, rimbalzando dai muri e cercando di sfregiarla con i pugnali senza mai riuscire a ferirla.

    L’impulso ad abbandonarsi alla violenza diventava sempre più pressante.

    «Non fatele del male» mugolò Kane. «O sarò io a farvelo.» Era pronto a tutto pur di proteggerla.

    Perfino in questo stato pietoso?

    Ignorò quella domanda umiliante.

    Sì, certo, aveva altre domande per la ragazza. E avrebbe preteso una risposta soddisfacente, o... In realtà non sapeva che cosa avrebbe fatto se lei non l’avesse accontentato. Nella caverna aveva perso ogni traccia di pietà e compassione.

    La minaccia indusse Sabin a bloccarsi di colpo e ad abbassare le armi.

    Strider invece non si arrese e alla fine riuscì ad afferrare per i capelli la ragazza, che urlò mentre l’attirava a sé con uno strattone.

    Kane riuscì finalmente ad alzarsi, deciso a separarli. Mia. Si fece avanti, inciampò in una scarpa e crollò a terra, mentre un dolore atroce lo consumava.

    Prima che lei avesse il tempo di chiedere aiuto o maledire Strider, lui la scagliò per terra e la inchiodò al pavimento con le ginocchia, impedendole di liberarsi per quanti tentativi facesse.

    «Ho detto... di non farle male» urlò Kane con la poca forza rimasta.

    «Ehi, non l’ho quasi toccata. E ho vinto» annunciò l’amico con un enorme sorriso soddisfatto.

    Sabin accorse al fianco di Kane, si accucciò e lo aiutò a girarsi sulla schiena, poi gli passò le mani sulla testa e le spalle con un tocco leggero. Quando lo sentì trasalire a quel contatto e lo udì trattenere a fatica una protesta, lo aiutò a mettersi seduto con gesti fermi e gentili. «Ti stavamo cercando, amico mio.» Voleva confortarlo, era chiaro, ma ormai niente avrebbe più potuto farlo sentire al sicuro. «Non ci saremmo mai arresi.»

    «Come...?» riuscì a chiedere. Lasciami andare, ti prego.

    Sabin capì la domanda rimasta inespressa, ma non il segreto appello. «Un tabloid ha pubblicato un articolo su una superdonna che a New York portava in spalla un uomo gigantesco. Torin ha fatto le sue solite magie da hacker ed è penetrato nelle telecamere di sicurezza della zona. E così ti abbiamo visto.»

    Sempre intrappolata, la ragazza chiamò Sabin ansimante. «Ehi, non vedi che il contatto fisico non gli piace? Lascialo andare.»

    Come aveva fatto a capirlo, quando uno dei suoi migliori amici non se ne era accorto?

    «Sta bene» rispose Sabin. «Perché porti i guanti, donna?»

    Lei ignorò la domanda e chiuse gli occhi. «Ora mi ucciderete?» chiese speranzosa.

    «No!» ruggì Kane. MIA! MIA!

    Strider rimise i pugnali nel fodero e si rialzò, subito imitato dalla ragazza, che sistemò dietro le orecchie appuntite che lo avevano tanto sorpreso le lunghe ciocche scure che le ricadevano sulla fronte e le guance.

    La maggior parte dei Fae preferiva rimanere a Séduire. Non era una razza benvoluta e gli immortali avevano la tendenza ad attaccare per prima cosa, e fare domande solo in seguito. Nel corso dei secoli, comunque, Kane ne aveva conosciuto qualcuno: avevano tutti capelli bianchi e ricciuti e una pelle candida come il latte. La ragazza invece aveva i capelli neri e lisci e la pelle color bronzo. Segno della sua metà umana?

    I grandi occhi azzurri però erano tipici dei Fae e cambiavano a seconda dell’umore: in quel momento erano cristallini e quasi incolori. Era forse spaventata?

    Il demone del Disastro apprezzò l’idea e si mise a fare le fusa in segno di approvazione.

    Zitto, ringhiò Kane. Ti ucciderò.

    Quando le fusa divennero risatine, dovette costringersi a respirare con calma. Era tentato di tagliarsi le orecchie per non sentire più quel rivoltante divertimento. Avrebbe voluto fare a pezzi la camera, distruggere ogni mobile, abbattere ogni muro e ridurre in brandelli il tappeto. Avrebbe voluto... afferrare la ragazza e portarla lontano da quel posto orrendo.

    I loro sguardi si incontrarono e lei gli rivolse un sorriso dolcissimo. Sembrava dire: Andrà tutto bene, te lo prometto.

    La rabbia si attenuò di colpo. Come c’era riuscita?

    Tra tutte le facce che gli aveva mostrato, quella era senz’altro la più graziosa: aveva le ciglia più lunghe che avesse mai visto, gli zigomi alti, il nasino perfetto, la bocca a forma di cuore e una lieve fossetta nel mento.

    Sembrava una bambola animata e aveva un profumo di rosmarino e menta verde. Faceva pensare al pane appena sfornato e alle mentine offerte dopo cena. In altre parole, un profumo di casa.

    Mia.

    Mai, scattò il demone. Il pavimento cominciò a tremare.

    Stupido demone. Come ogni creatura vivente, Disastro conosceva la fame ma, a differenza degli altri, la paura e il turbamento erano i suoi cibi preferiti. Quando aveva voglia di

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