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Demon's love (eLit): eLit
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Demon's love (eLit): eLit
E-book400 pagine7 ore

Demon's love (eLit): eLit

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Info su questo ebook

In una remota fortezza di Budapest, seducenti guerrieri immortali sono legati da un'antica maledizione che nessuno è mai riuscito a infrangere...

Un guerriero seducente e sospettoso... Una donna immortale in fuga dal proprio lato oscuro...

Posseduto dal demone del Dubbio, Sabin avrebbe tutte le qualità per essere implacabile nelle schermaglie d'amore quanto lo è sul campo di battaglia. Ma il suo demone rovina qualsiasi relazione, insinuando dubbi, sospetti e insicurezze nelle sue amanti, tanto che Sabin ha giurato di tenersi alla larga dalle donne. Dopo undici anni, però, l'incontro con la timida Gwen fa vacillare i suoi propositi. E quando la libera dalla prigione in cui è stata rinchiusa dai loro comuni nemici, i Cacciatori, una lotta dall'esito assai più imprevedibile si profila all'orizzonte: quella contro le conseguenze di un travolgente colpo di fulmine.
LinguaItaliano
Data di uscita31 lug 2017
ISBN9788858973011
Demon's love (eLit): eLit
Autore

Gena Showalter

Tra le autrici più amate e lette dal pubblico italiano.

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    Anteprima del libro

    Demon's love (eLit) - Gena Showalter

    1

    Sabin, custode del demone del Dubbio, era in piedi nelle camere sotterranee di un’antica piramide, ansante, sudato, con le mani coperte dal sangue del nemico e il corpo pieno di lividi e tagli e osservava la carneficina che aveva contribuito a creare.

    Le torce producevano caldi riflessi dorati sulle pareti da cui colavano rivoli di sangue e il pavimento era bagnato e scuro; mezz’ora prima aveva il colore del miele, ma ora cumuli di cadaveri ingombravano lo stretto corridoio.

    Nove nemici erano sopravvissuti all’attacco; privati delle loro armi, legati con robuste corde, erano rannicchiati in un angolo e tremavano quasi tutti di paura. Solo pochi mantenevano le spalle dritte, la testa alta e lo sguardo colmo di odio; anche se sconfitti, rifiutavano di arrendersi. Un coraggio ammirevole, che però andava annientato: gli uomini coraggiosi non parlano e Sabin voleva conoscere i loro segreti.

    Era un guerriero che faceva quanto era necessario, senza curarsi se ciò significava uccidere, torturare o sedurre, e non esitava a chiedere lo stesso ai suoi uomini. Con i Cacciatori – mortali convinti che lui e gli altri Signori degli Inferi fossero responsabili di tutti i mali del mondo – la vittoria era l’unica cosa importante. Solo vincendo la guerra i suoi amici avrebbero finalmente conosciuto quella pace che meritavano e che Sabin desiderava per loro.

    Respiri ansanti gli colmarono le orecchie. Avevano combattuto tutti fino allo stremo delle forze: era stata una battaglia del bene contro il male e il male aveva vinto, o meglio, ciò che i Cacciatori consideravano male. Lui e gli altri guerrieri la pensavano in tutt’altro modo.

    Certo, molto tempo prima avevano aperto il vaso di Pandora e liberato i demoni imprigionati al suo interno, ma erano stati puniti per l’eternità: a causa della maledizione degli dei, ogni guerriero ospitava dentro di sé uno di quei demoni. In origine furono schiavi di quella metà malvagia, distruttiva e violenta, degli assassini privi di coscienza, ma ora avevano acquisito il controllo ed erano umani a tutti gli effetti. O almeno, lo erano quasi sempre.

    A volte i demoni lottavano, vincevano e distruggevano.

    Eppure meritavano di vivere: come tutti gli altri, soffrivano se i loro amici venivano feriti, leggevano libri, guardavano film, facevano donazioni a enti di beneficienza e si innamoravano, ma i Cacciatori non la vedevano così. Erano convinti che il mondo sarebbe stato un posto migliore senza i Signori degli Inferi, un’utopia serena e perfetta. Attribuivano ai demoni ogni peccato commesso, forse perché erano stupidi, o forse perché odiavano la loro vita e cercavano qualcuno con cui prendersela. In ogni caso ucciderli era diventata la missione principale della vita di Sabin: la sua utopia era un mondo senza Cacciatori.

    Per questo lui e gli altri avevano rinunciato alle comodità della loro dimora a Budapest e passato le ultime tre settimane a esplorare ogni sperduta piramide d’Egitto, in cerca degli antichi manufatti che li avrebbero condotti al vaso di Pandora – quello che i Cacciatori intendevano usare per distruggerli. E finalmente lui e i suoi amici avevano fatto centro.

    Distinse un guerriero in un angolo buio e lontano: come al solito, preferiva confondersi con le ombre. «Amun» lo chiamò. Indicò i prigionieri con un brusco cenno del capo. «Sai cosa fare.»

    Amun, custode dei Segreti, annuì e si fece avanti. Era sempre silenzioso, come se temesse che i terribili segreti appresi nel corso dei secoli gli scaturissero dalle labbra se solo avesse aperto bocca.

    Alla vista dell’imponente guerriero che aveva decimato i loro ranghi, i Cacciatori sopravvissuti fecero tutti un passo indietro. Anche quelli coraggiosi. Mossa saggia.

    Amun era alto e muscoloso, con un’andatura decisa e allo stesso tempo aggraziata; quella combinazione gli conferiva il tipo di selvaggia tranquillità dei predatori abituati a portare a casa il bottino di caccia tra le fauci.

    Amun raggiunse i Cacciatori e li scrutò, poi si fece avanti e prese per la gola quello al centro, sollevandolo fino a quando i loro occhi furono allo stesso livello. Le gambe dell’umano si agitarono e le mani strinsero i polsi di Amun, mentre la pelle diventava pallidissima.

    «Lascialo andare, lurido demone» urlò uno dei Cacciatori, afferrando il polso del compagno. «Hai già ucciso un’infinità di innocenti e rovinato chissà quante vite!»

    Amun rimase impassibile, come tutti loro, del resto.

    «È un uomo buono» gridò un altro Cacciatore. «Non merita di morire, soprattutto per mano di un demone malvagio!»

    Un attimo dopo Gideon, il custode della Menzogna dai capelli azzurri, era al fianco di Amun e zittiva i due che avevano osato protestare. «Toccalo di nuovo e assaggerai i miei baci» sibilò, mostrando due coltelli sporchi di sangue.

    Nel mondo alla rovescia di Gideon baciare equivaleva a picchiare, o forse a uccidere. Sabin non ricordava più il codice complicato che l’altro utilizzava.

    Passarono alcuni istanti in un silenzio confuso, con i Cacciatori che cercavano di capire che cosa intendesse Gideon. Prima che potessero decidere, l’ostaggio di Amun si afflosciò e lui lo lasciò cadere a terra come un mucchietto inerte e scomposto.

    Amun rimase immobile, mentre i Cacciatori cercavano di rianimare il compagno caduto. Non sapevano che era troppo tardi: il suo cervello era stato distrutto e ora Amun conosceva i suoi segreti più intimi e forse anche i suoi ricordi. Il guerriero non aveva mai spiegato a Sabin come funzionava la cosa e lui non glielo aveva mai chiesto.

    Amun si girò lentamente, il corpo rigido. Il suo sguardo scuro e tormentato incontrò per un attimo quello di Sabin, senza riuscire a mascherare il dolore causato dalla nuova voce che ora risuonava nella sua testa. Poi sbatté le palpebre, nascose la sofferenza come aveva già fatto migliaia di volte e si avviò verso la parete più lontana.

    Sabin lo guardò risoluto. Niente sensi di colpa. Tutto questo è necessario.

    Il muro assomigliava a tutti gli altri, ma Amun posò una mano con le dita aperte sulla settima pietra dal basso e l’altra sulla quinta dall’alto, con le dita chiuse. Muovendosi all’unisono, ruotò un polso verso sinistra e l’altro verso destra e le pietre ruotarono con lui.

    Sabin lo guardò ammirato: quello che Amun riusciva ad apprendere in pochi attimi non cessava mai di meravigliarlo.

    Una volta che le pietre si furono allineate nella nuova posizione, si formò una fessura, una sezione del muro si ritrasse e alla fine ecco davanti a loro un’apertura da cui sarebbe potuto passare un intero esercito di possenti guerrieri.

    Un fiotto d’aria fresca penetrò nella camera sotterranea, facendo crepitare le torce. Sabin incitò le pietre: Su, forza. Gli pareva che si muovessero con lentezza esasperante.

    «Ci sono Cacciatori in attesa dall’altra parte?» chiese. Prese la Sig Sauer che teneva alla cintura e controllò quante pallottole gli restavano: soltanto tre. La ricaricò rapido, lasciando al suo posto il silenziatore.

    Amun annuì e sollevò sette dita.

    Sette Cacciatori contro dieci Signori degli Inferi. Sabin non contò Amun, che pur volendo partecipare alla battaglia imminente, presto sarebbe stato troppo distratto dalla nuova voce nella sua testa per combattere. Poveri Cacciatori: non avevano una sola possibilità. «Sanno che siamo qui?»

    Amun scosse la testa scura.

    Dunque non c’erano telecamere nascoste. Ottimo.

    «Eliminare sette Cacciatori sarà un gioco da ragazzi.» Lucien, custode del demone della Morte, si appoggiò contro il muro; era pallido e gli occhi di colore diverso parevano brillare di... febbre? «Andate avanti senza di me: tra poco avrò delle anime da accompagnare e poi dovrò portare i prigionieri nelle segrete della nostra fortezza a Budapest.»

    Grazie a Morte, Lucien poteva teletrasportarsi da un posto all’altro e doveva spesso scortare i morti nell’aldilà. Questo non significava che fosse invulnerabile. Sabin lo scrutò accigliato: le cicatrici sul suo viso erano più pronunciate del solito e il naso pareva rotto. Inoltre Lucien era ferito alla spalla, allo stomaco e, a giudicare dalla macchia di sangue che si allargava sul fondo schiena, anche ai reni.

    «Tutto bene?»

    Lucien gli rivolse un sorriso che assomigliava a una smorfia ironica. «Me la caverò, ma non sarà una passeggiata: alcuni organi sono a brandelli.»

    «Be’, almeno non dovrai rigenerare un arto.»

    Con la coda dell’occhio Sabin vide Amun fare segno con la mano.

    «Non ci sono telecamere e i Cacciatori si trovano in una camera con muri insonorizzati» interpretò. «Anticamente era usata come prigione ed è stata costruita in modo che non si sentissero le urla dei prigionieri. I Cacciatori sono del tutto ignari della nostra presenza, il che dovrebbe facilitare l’imboscata.»

    «Non hai bisogno di me, allora. Resto qui con Lucien.» Reyes si lasciò cadere a terra e appoggiò la schiena al muro per sostenersi. Custode del demone del Dolore, provava piacere quando soffriva fisicamente e le ferite lo rafforzavano, ma alla fine della lotta era indebolito come tutti gli altri. In quel momento era ridotto davvero male, con una guancia così gonfia da rendergli difficile vedere con chiarezza. «Inoltre qualcuno deve restare a sorvegliare i prigionieri.»

    Sette contro otto, dunque. Poveri Cacciatori. Sabin sospettava che Reyes volesse restare indietro per proteggere il corpo di Lucien dai nemici: questi poteva portarlo con sé nel mondo degli spiriti solo quando si sentiva abbastanza forte, e in quel momento non lo era di certo.

    «Le vostre donne me la faranno pagare» borbottò Sabin.

    Reyes e Lucien si erano innamorati di recente e Anya e Danika gli avevano chiesto una cosa sola, prima della partenza per l’Egitto: di riportare indietro i loro uomini sani e salvi.

    Qualora i ragazzi fossero arrivati a casa così malridotti, Danika avrebbe lanciato a Sabin uno sguardo colmo di disapprovazione, prima di affrettarsi a confortare Reyes e lui si sarebbe sentito un verme. Anya, invece, gli avrebbe sparato negli stessi punti in cui Lucien era stato ferito, procurandogli un dolore atroce e solo allora si sarebbe dedicata al suo uomo.

    Sabin sospirò e passò in rassegna il resto dei guerrieri, cercando di decidere chi portare con sé e chi lasciare indietro. Maddox, custode del demone della Violenza, era il guerriero più temibile che avesse conosciuto. In quel momento era insanguinato e ansante, ma si era già avvicinato ad Amun, pronto a entrare in azione. Neanche la sua donna sarebbe stata tanto grata a Sabin.

    Poi scorse Cameo, custode del demone della Desolazione, l’unica donna soldato tra loro: era minuta, ma non meno feroce degli altri. Inoltre, le bastava aprir bocca, con tutti i dolori del mondo nella voce, che chiunque la stesse ascoltando, Cacciatori compresi, era pronto a uccidersi senza bisogno che lo toccasse con un dito. Le tre ferite sanguinanti al collo non l’avevano rallentata, visto che finì di ripulire il machete e si unì a Sabin e Maddox.

    Ecco Paris, custode del demone della Promiscuità. Un tempo era allegro e gioviale, ma ora pareva sempre più duro e irrequieto, anche se Sabin non riusciva a capire che cosa avesse provocato un simile cambiamento. In ogni caso ora sembrava vibrare di un’energia brutale e sanguinaria; nonostante le due ferite alla gamba destra, Sabin era certo che non avrebbe chiesto di restare indietro.

    Accanto a lui c’era Aeron, custode del demone dell’Ira. Gli dei lo avevano da poco liberato da una maledizione così violenta che lo aveva reso inavvicinabile da chiunque. Aeron viveva per uccidere e ferire e quel giorno aveva combattuto come se quella sete di sangue lo consumasse ancora. In battaglia era un’ottima cosa, ma Sabin si chiedeva come si sarebbe sentito, alla fine dello scontro successivo. Forse avrebbero dovuto chiamare Legione, il piccolo diavolo femmina che adorava Aeron ed era l’unica in grado di calmarlo nei suoi momenti più cupi. Purtroppo al momento Legione si trovava all’Inferno, in una missione di ricognizione che Sabin le aveva affidato. Essere sempre aggiornato su ciò che succedeva laggiù era fondamentale: la conoscenza è potere.

    All’improvviso Aeron colpì la tempia di un Cacciatore con un pugno e questi si afflosciò a terra.

    «Perché lo hai fatto?» chiese Sabin, stupito.

    «Stava per attaccare.»

    Paris scattò con la stessa velocità e mise fuori combattimento tutti gli altri Cacciatori. «Così resteranno tranquilli come Amun» borbottò cupo.

    Sabin sospirò piano e si concentrò su Strider, custode del demone della Sconfitta: non poteva perdere senza provare un dolore tremendo e così cercava sempre di vincere. Forse per questo stava estraendo una pallottola dal proprio fianco, in preparazione della battaglia imminente. Bene; Sabin sapeva di poter sempre contare su di lui.

    Kane, custode del demone del Disastro, si fece avanti e una pioggia di sassolini cadde dal soffitto in una nube di polvere, facendo tossire diversi guerrieri.

    «Perché non resti anche tu, Kane?» propose Sabin. «Puoi aiutare Reyes a sorvegliare i prigionieri.» Era una scusa debole e lo sapevano tutti.

    Nel silenzio che seguì l’unico suono era prodotto dallo stridio della pietra contro la sabbia, mentre l’apertura continuava ad allargarsi. Poi Kane assentì; odiava restare indietro, ma spesso la sua presenza causava più problemi che altro. E, come sempre, Sabin anteponeva la vittoria ai sentimenti degli amici: non gli piaceva agire così, ma qualcuno doveva pur usare la fredda logica, se volevano trionfare.

    A quel punto erano sette contro sette. Poveri Cacciatori: non avevano comunque la minima possibilità di cavarsela. «Qualcun altro vuole rimanere?» chiese Sabin.

    Gli rispose un coro di no. Tutti, lui compreso, erano ansiosi di gettarsi nella mischia.

    Fino a quando non fossero riusciti a trovare il vaso di Pandora quegli scontri erano una necessità, ma per trovarlo avevano bisogno di quei dannati quattro oggetti magici: pareva che uno di essi fosse in Egitto e dunque quello scontro in particolare aveva una grande importanza. Sabin era deciso a impedire ai Cacciatori di impossessarsi di quei manufatti: il vaso avrebbe potuto distruggere lui e tutte le persone che amava, attirando i demoni fuori dai loro corpi e lasciandoli simili a gusci vuoti e privi di vita.

    Era sicuro di vincere, ma sapeva che non sarebbe stato facile conquistare quella vittoria: guidati dal nemico giurato di Sabin, Galen, un immortale sotto mentite spoglie, anch’egli posseduto da un demone, i Cacciatori, protettori di tutto ciò che era buono e giusto, erano a conoscenza di informazioni che gli umani avrebbero dovuto ignorare. Come per esempio il modo migliore di distrarre, catturare e distruggere i Signori degli Inferi.

    Alla fine la pietra smise di ruotare e Amun sbirciò all’interno. Agitò una mano per segnalare che potevano entrare, ma nessuno si mosse: gli uomini di Sabin e quelli di Lucien avevano ripreso a combattere insieme da poco, dopo una separazione durata migliaia di anni, e disporsi nella migliore posizione di combattimento non veniva ancora istintivo a tutti quanti.

    «Allora, vogliamo muoverci o aspettiamo che ci trovino?» ringhiò Aeron. «Io sono pronto.»

    «Ma guarda che scarso entusiasmo» sogghignò Gideon. «Non sono per niente impressionato.»

    Era ora di prendere la situazione in mano, decise Sabin.

    Considerò la strategia migliore da adottare: negli ultimi secoli lanciarsi in battaglia a testa bassa, con l’unico proposito di uccidere più Cacciatori possibile, non lo aveva portato da nessuna parte. Il numero dei nemici aumentava, invece di diminuire, e lo stesso valeva per il loro odio e la loro determinazione.

    Era giunto il momento di cambiare sistema e di esaminare bene punti forti e debolezze prima di entrare in azione.

    «Vado io per primo; sono quello ferito meno gravemente» dichiarò, rimettendo a posto la pistola con una certa riluttanza. «Voglio che ogni uomo nelle mie condizioni si abbini a uno ridotto peggio di lui. Lavorerete insieme: quello ferito in modo più grave guarderà le spalle all’altro, che mirerà al bersaglio. Cercate di lasciarne vivi il maggior numero possibile: so che questo va contro tutti i vostri istinti, ma non preoccupatevi, tanto moriranno presto. Una volta che avremo trovato il loro capo e lo avremo fatto parlare, per noi diventeranno inutili. A quel punto potrete farne quello che vorrete.»

    Il terzetto davanti a lui si fece da parte e Sabin entrò per primo nell’apertura, seguito da tutti gli altri.

    Lampade a batteria illuminavano le pareti coperte di geroglifici; Sabin li osservò per un secondo, ma fu sufficiente a imprimergli quelle immagini nella memoria. I pittogrammi rappresentavano tutti prigionieri giustiziati in modo crudele, con il cuore rimosso dal petto mentre erano ancora vivi.

    Nell’aria aleggiavano odori umani – colonia, sudore, cibo. Da quanto tempo erano là i Cacciatori? Che cosa facevano? Avevano già trovato l’oggetto magico?

    Le domande gli rimbalzavano nella mente e il suo demone ne approfittò subito: come Dubbio, non poteva trattenersi. Sanno di sicuro qualcosa che tu ignori. Forse sarà sufficiente a fregarti. Stanotte i tuoi amici potrebbero esalare l’ultimo respiro.

    Il demone del Dubbio non poteva mentire senza fargli perdere conoscenza, ma usava con abilità lo scherno, i sospetti e le supposizioni. Sabin ormai l’aveva accettato, ma quella sera non intendeva fallire.

    Continua così e passerò la prossima settimana chiuso in camera a leggere, così da non pensare troppo.

    Ma io ho bisogno di nutrimento!, protestò il demone. Le preoccupazioni che causava erano ciò che più lo rafforzava.

    Sabin alzò una mano e i guerrieri dietro di lui si fermarono: davanti a loro c’era una sala dalla porta aperta, da cui proveniva un suono di voci e di passi. I Cacciatori erano distratti e pronti a lasciarsi cogliere di sorpresa.

    E io sono l’uomo che tenderà loro una bella imboscata.

    Ne sei sicuro? L’ultima volta che ho controllato..., cominciò il demone.

    Lasciami stare: qui davanti hai cibo in abbondanza.

    Dubbio raggiunse subito con la mente i Cacciatori e li colmò di pensieri distruttivi: Tutto questo per niente... E se ti fossi sbagliato? Non siamo abbastanza forti... Presto moriremo...

    La conversazione si spense. Forse qualcuno si mise perfino a piagnucolare.

    Sabin alzò un dito, poi un altro. Quando alzò il terzo, tutti i guerrieri si gettarono in avanti urlando.

    2

    Gwendolyn la Timida si rannicchiò contro la parete più lontana della sua gabbia di vetro, mentre l’orda di guerrieri alti, muscolosi e insanguinati faceva irruzione nella sala che per oltre un anno aveva amato e odiato. Amato perché altrimenti sarebbe stata fuori, nel mondo esterno libero e pericoloso, e odiato per tutti i crimini accaduti in quel luogo, crimini a cui aveva dovuto assistere.

    I loro autori gridarono sorpresi e lasciarono cadere aghi, fiale e strumenti vari. Gli intrusi si lanciarono in avanti ruggendo e abbattendo i loro avversari uno dopo l’altro. Non c’era dubbio su chi avrebbe vinto.

    Gwen si mise a tremare, incerta su ciò che sarebbe accaduto a lei e alle altre alla fine del combattimento. I guerrieri non erano umani, proprio come lei e le donne imprigionate nelle celle tutt’intorno: erano troppo duri e forti per essere mortali, ma Gwen non capiva comunque chi fossero, perché si trovassero là e che cosa volessero.

    Nel corso dell’ultimo anno era rimasta delusa tante volte e ora non osava sperare che fossero venuti a salvarla. Le avrebbero lasciate là a marcire, o magari le avrebbero usate come quegli odiosi umani?

    «Uccideteli!» urlò una delle prigioniere ai guerrieri con voce stridula e dura. «Fateli soffrire come abbiamo sofferto noi.»

    Il vetro che le separava dal mondo esterno era a prova di pugni e pallottole, ma ogni minimo rumore era come un’esplosione nelle orecchie di Gwen. Sapeva come bloccare ogni suono – glielo avevano insegnato le sorelle da piccola – eppure voleva sentire la disfatta dei suoi rapitori: gemiti e grida di dolore per lei erano come dolci ninnenanne.

    Per quanto fossero forti, i guerrieri parevano decisi a risparmiare gli avversari: si limitarono a ferirli e a metterli fuori combattimenti, fino a quando ne rimase in piedi uno solo, il peggiore.

    Uno dei guerrieri si fece avanti: erano tutti abili e letali, ma questo aveva combattuto nel modo più implacabile, mirando all’inguine e alla gola. Sollevò un braccio come per assestare il colpo di grazia, ma poi incontrò lo sguardo di Gwen, si bloccò e lo abbassò lentamente.

    Lei si sentì mozzare il respiro. I capelli castani intrisi di sangue erano appiccicati alla testa e gli occhi color del brandy avevano un bagliore rossastro. Ma no, era impossibile: se l’era di certo immaginato. Il viso dai tratti marcati sembrava scolpito nel granito, eppure in lui c’era anche qualcosa di fanciullesco. Una contraddizione davvero strana.

    Sotto la maglietta a brandelli si intravedevano i muscoli possenti e abbronzati. Ah, il sole! Come le mancava. Una farfalla viola era tatuata sulla cassa toracica e scompariva sotto la cintura dei pantaloni; le punte delle ali erano affilate, così che appariva come una strana mescolanza di maschile e femminile. Gwen si chiese perplessa come mai un guerriero così forte e feroce avesse scelto un simile disegno, ma in qualche modo quel tatuaggio la confortò.

    «Aiutaci» lo pregò, sperando che l’immortale potesse udirla attraverso lo spesso vetro. Lui però non diede segno di averla sentita. «Liberaci.» Ancora nessuna reazione.

    E se ci lasciassero qui? O, peggio ancora, se fossero qui per le stesse ragioni degli umani?

    All’improvviso un’ondata di pensieri le colmò la mente e Gwen aggrottò la fronte, pallida in viso. Erano le stesse domande che si era posta poco prima, eppure sembravano diverse, come se fosse un’altra voce a pronunciare quelle parole.

    L’uomo si morse il labbro inferiore con i denti candidi e si strinse le tempie con aria furiosa.

    E se...

    «Smettila!» ringhiò.

    Il pensiero che si stava formando nella mente di Gwen si interruppe di colpo e lei sussultò confusa. Il guerriero scosse la testa, sempre più scuro in viso.

    Il Cacciatore approfittò di quel momento di distrazione per lanciarsi su di lui.

    «Attento!» gridò Gwen.

    Senza distogliere lo sguardo da lei, il guerriero dal viso di granito allungò un braccio e afferrò l’umano per il collo. Chris – così si chiamava – prese ad agitarsi in modo scomposto. Era giovane, sui venticinque anni; era anche il capo degli scienziati e delle guardie e l’uomo che Gwen odiava più della prigionia.

    Tutto quello che faccio è per il bene superiore, era solito dire, appena prima di violentare una delle altre donne davanti a lei. Avrebbe potuto ricorrere all’inseminazione artificiale, ma preferiva umiliarle con quei rapporti forzati. Vorrei che fossi tu: ognuna di queste donne è una tua sostituta, aggiungeva.

    Eppure Chris non l’aveva mai toccata. Come tutti gli altri aveva troppa paura di lei. Sapevano chi era, l’avevano vista in azione quando l’avevano rapita. Invece di eliminarla, però, l’avevano tenuta prigioniera, sperimentando varie droghe nel sistema di ventilazione nella speranza di metterla fuori combattimento abbastanza a lungo da usarla. Non c’erano ancora riusciti, ma non si erano arresi.

    «Sabin, no» intervenne una bella donna dai capelli scuri, battendogli un colpetto sulla spalla. La sua voce era così intrisa di dolore che Gwen si ripiegò su se stessa. «Come hai detto tu stesso, potremmo aver bisogno di lui.»

    Sabin. Che strano nome. Le ricordava una sciabola. Quei due erano amanti?

    Finalmente lo sguardo dalla luce rossastra si spostò e Gwen riuscì di nuovo a respirare. Sabin lasciò andare Chris e questi crollò a terra svenuto. Gwen sapeva che era ancora vivo perché sentiva il sangue scorrergli nelle vene e l’aria fluire nei polmoni.

    «Chi sono queste donne?» chiese un guerriero biondo. Aveva brillanti occhi azzurri e un bel viso che prometteva compassione e sicurezza, eppure non era lui quello contro cui Gwen si immaginò all’improvviso mentre si abbandonava al sonno.

    Per tutti quei mesi aveva avuto paura di addormentarsi, nel timore che Chris ne approfittasse per coglierla di sorpresa, così si era limitata a brevi sonnellini, senza mai abbassare la guardia. A volte aveva dovuto fare un enorme sforzo per non cedere alla tentazione di chiudere gli occhi e sprofondare nell’oblio.

    Un uomo gigantesco, dai capelli neri e gli occhi viola si fece avanti e guardò le celle che circondavano quella di Gwen. «Per gli dei, quella è incinta.»

    «Anche quell’altra.» Il guerriero che aveva parlato per ultimo aveva i capelli multicolori, il volto pallido e gli occhi azzurri. «Che razza di bastardi possono tenere una donna incinta in queste condizioni? Neanche i Cacciatori si abbasserebbero a tanto.»

    Le donne in questione battevano i pugni contro i vetri, implorando di essere liberate.

    «Qualcuno riesce a sentire quello che dicono?» chiese l’uomo gigantesco.

    «Io» rispose Gwen.

    Sabin si girò verso di lei: il suo sguardo castano, non più velato di rosso, la scrutò con intensità, procurandole un brivido lungo la schiena. Chissà se lui poteva sentirla.

    Gwen sgranò gli occhi mentre lui si avvicinava, rinfoderando il coltello. Con i sensi tesi al massimo colse un lieve odore di sudore, limone e menta e lo aspirò a pieni polmoni. Per tanto tempo aveva potuto sentire solo la penetrante colonia di Chris, le droghe pungenti e il terrore delle altre donne.

    «Puoi sentirci?» La voce di Sabin aveva un timbro rude e duro come i suoi tratti; avrebbe dovuto farle l’effetto della carta vetrata e invece la trovava confortante come una carezza.

    Gwen annuì incerta.

    «E loro?» Indicò le altre prigioniere.

    Gwen scosse la testa. «E tu mi senti?» chiese.

    Anche lui scosse la testa. «Ti leggo le labbra.»

    Dunque l’aveva osservata con attenzione, una scoperta non del tutto spiacevole.

    «Come facciamo ad aprire la gabbia?» le chiese.

    Gwen strinse le labbra e lanciò uno sguardo furtivo ai predatori armati e coperti di sangue dietro di lui. Doveva dirglielo? E se poi avessero violentato le altre prigioniere, come avevano fatto gli altri?

    La sua espressione dura si addolcì. «Non siamo venuti per farvi del male. Hai la mia parola. Vogliamo solo liberarvi.»

    Gwen non lo conosceva e non sapeva se fosse il caso di fidarsi di lui, eppure si avvicinò lo stesso al vetro. A distanza ravvicinata Sabin torreggiava su di lei e i suoi occhi non erano castani, come le era sembrato, ma pieni di sfumature color ambra, caffè, rame e bronzo. Per fortuna la temibile luce rossastra se n’era andata; se l’era forse immaginata?

    «Donna?» la chiamò.

    Se lui avesse aperto la gabbia e lei avesse raccolto il coraggio, invece di bloccarsi atterrita, la fuga sarebbe stata finalmente possibile. La speranza tornò ad affacciarsi, attenuata solo dal timore di distruggere senza volerlo quei guerrieri venuti a salvarla.

    Non preoccuparti: a meno che non cerchino di farti del male, la belva dentro di te resterà tranquilla. Una mossa sbagliata da parte loro, però...

    In ogni caso, valeva la pena di rischiare.

    «Pietre» rispose.

    Lui aggrottò la fronte perplesso: non aveva capito, era chiaro.

    Gwen incise con un’unghia la parola pietre nel vetro. Ogni lettera spariva subito dopo che l’aveva tracciata. Era un vetro incredibile; chissà come avevano fatto gli umani a procurarselo.

    Sabin fissò accigliato le sue unghie affilate. Si stava forse chiedendo che tipo di creatura fosse?

    «Pietre?» chiese poi.

    Gwen annuì.

    Si guardò intorno nel vasto ambiente. L’esame durò pochi secondi, eppure Gwen era sicura che ne avesse esaminato ogni centimetro.

    I guerrieri si assieparono alle spalle di Sabin, fissandola con un’aria d’attesa a cui si mescolavano curiosità, sospetto, odio – per lei? – e desiderio.

    Gwen indietreggiò; le gambe le tremavano con tanta violenza che temeva di crollare a terra. Calma; non farti prendere dal panico. Quando cedi al panico succedono delle brutte cose.

    Come poteva combattere il desiderio altrui? Non poteva fare niente per coprirsi: durante la prigionia i jeans e la maglietta erano stati sostituiti da una canottiera bianca e da una gonna corta che i rapitori le avevano dato per avere un accesso più facile. Una delle spalline aveva ceduto mesi prima e lei aveva dovuto legarla sotto il braccio per non scoprire il seno.

    «Giratevi» ordinò Sabin all’improvviso.

    Gwen obbedì senza riflettere, facendo ondeggiare i lunghi capelli rossi. Perché voleva che gli desse le spalle? Per sottometterla più facilmente?

    Seguì un’altra pausa tesa. «Non parlavo con te, donna.» Questa volta la voce di Sabin era gentile.

    «Oh, dai» sbottò qualcuno. Gwen riconobbe la voce irriverente dell’uomo biondo con gli occhi azzurri. «Non vorrai...»

    «La state spaventando.»

    Gwen lanciò un’occhiata al di sopra della spalla.

    «Ma lei...» cominciò il guerriero tutto coperto di tatuaggi.

    «Volete o no delle risposte?» lo interruppe Sabin. «Su, voltatevi!»

    Borbottii, proteste soffocate, strusciare di piedi.

    «Donna.»

    Gwen si girò lentamente. Come Sabin aveva ordinato, ora tutti i guerrieri le davano le spalle.

    Sabin posò il palmo sul vetro. Era grande e privo di cicatrici, ma solcato da rivoli di sangue. «Quali pietre?» chiese.

    Lei indicò un mucchietto in una cassetta alle sue spalle. Erano grandi più o meno come un pugno e sulla superficie di ognuna di esse era dipinto un modo diverso di morire: decapitazione, squartamento, accoltellamento, una lancia che trafiggeva le viscere e lingue di fuoco che avvolgevano il corpo di un uomo inchiodato a un albero.

    «Va bene, ma cosa me ne faccio?»

    Ormai ansante per il desiderio di libertà, Gwen mimò il gesto di collocare una pietra in un buco, come una chiave nella serratura.

    «È importante quale pietra usare?»

    Lei annuì e indicò ogni pietra e la gabbia che questa apriva. Era arrivata a temere l’uso di quelle pietre, giacché una volta aperta una gabbia sapeva di dover assistere a un altro stupro. Con un sospiro cominciò a incidere la parola chiave nel vetro, mentre Sabin colpiva con un pugno la cassetta, infrangendola. Ci sarebbe voluta la forza di dieci umani per fare una cosa simile, ma lui compì l’impresa senza alcuno sforzo apparente.

    Apparvero rivoli di sangue sulle nocche, ma lui li pulì noncurante e le ferite si rimarginarono subito, altro segno della sua natura immortale. Non era un elfo, visto che

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