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Sognavo un viaggio in mongolfiera (il destino ha cambiato destinazione): La storia vera di Natalina Di Blasi
Sognavo un viaggio in mongolfiera (il destino ha cambiato destinazione): La storia vera di Natalina Di Blasi
Sognavo un viaggio in mongolfiera (il destino ha cambiato destinazione): La storia vera di Natalina Di Blasi
E-book223 pagine2 ore

Sognavo un viaggio in mongolfiera (il destino ha cambiato destinazione): La storia vera di Natalina Di Blasi

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Info su questo ebook

SOGNAVO UN VIAGGIO IN MONGOLFIERA, si tratta di una storia vera, e proprio in questo risiede il suo valore. È una narrazione che coinvolge e fa riflettere il lettore. Gli alti e bassi della vita, le vicende più comuni e quelli peculiari vissute dalla protagonista, si sviluppano nei 19 capitoli che compongono il romanzo, affiancando normali esperienze quotidiane a eventi che sconvolgono e travolgono chi li vive. Tutto questo proposto da Zia Giada con realismo e naturalezza, consente a chi legge di empatizzare con Natalina e i suoi cari.
LinguaItaliano
Data di uscita19 dic 2022
ISBN9791221426441
Sognavo un viaggio in mongolfiera (il destino ha cambiato destinazione): La storia vera di Natalina Di Blasi

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    Anteprima del libro

    Sognavo un viaggio in mongolfiera (il destino ha cambiato destinazione) - Zia Giada

    Capitolo 1

    Se vado a ritroso con la memoria, il primo ricordo che ho di me stessa risale a quando avevo circa cinque anni. Vivevo in collina, nella periferia che circonda la città di Paola, in provincia di Cosenza. Paola è nota principalmente per aver dato i natali a San Francesco da Paola, oggi patrono della Calabria. Si narra che un barcaiolo si fosse rifiutato di traghettare il Santo dalla costa calabra a Messina e che lui, in risposta, sarebbe passato stendendo sulle acque il proprio mantello. Il santuario dedicato a San Francesco è una delle mete di turismo religioso del Sud Italia. Nei primi quattro giorni di maggio si tengono grandi festeggiamenti con processioni a terra e per mare, con la statua del Santo e del suo mantello. Questi giorni di festa sono una grande opportunità per gli abitanti del luogo di incontrare e conoscere gente che viene da fuori città.

    Antistante la facciata principale del santuario c'è un ampio piazzale dove, negli anni della mia adolescenza, i giovani di Paola si riunivano per passare il tempo libero, comunicare e condividere ciò che facevano o che avrebbero potuto fare insieme. Qui non di rado nascevano i primi amori, le prime cotte tra i ragazzi e le ragazze.

    A Paola vivevo con i miei genitori in una grande casa di campagna, circondata da prati verdi e terreni coltivati. Per raggiungere il centro città, dove si trovavano i principali servizi, bisognava percorrere poco più di un chilometro.

    Santuario di San Francesco da Paola

    Ripensando alla mia prima infanzia mi rendo conto di essere stata una bambina felice e molto amata. Spesso mi ritorna in mente il nostro frutteto e mi sembra di sentirne ancora i profumi e i sapori, rivedo le immagini di me bambina che corro tra gli alberi da frutto, sempre accanto a mamma e papà.

    Quando avevo cinque anni, arrivò la mia sorellina Emma e, con lei, anche i cambiamenti di abitudini. Le attenzioni di mamma e papà, che erano state per cinque anni solo per me, erano divise con mia sorella. Mi rendevo conto che stavo perdendo la mia esclusività, ma in cambio guadagnavo una sorella per la vita. L'ho amata fin dal primo giorno. Nata paffuta, Emma era il ritratto della salute, a differenza di me che ero sempre stata gracile e magrolina. Cominciai subito a giocare con lei come se fosse una bambola nuova.

    Quei cinque anni di differenza mi hanno permesso di collezionare ricordi preziosi sulla crescita di mia sorella che ancora mi accompagnano. Certo, nei primi anni della nostra vita non potevamo fare gli stessi giochi. Quando avevo sette anni, infatti, la mia compagna di giochi preferita era Elisa, che abitava vicino a casa nostra e frequentava la mia stessa scuola. Con lei trascorrevo pomeriggi spensierati. Andavamo nel frutteto che curava mio papà, proprio dietro casa. Salivamo sugli alberi e, a cavalcioni dei rami, guardando lontano fantasticavamo a occhi aperti.

    Io la coinvolgevo in lunghi viaggi immaginari e lei mi seguiva nell'avventura. Da quando avevo visto una mongolfiera sorvolare la città di Paola, ero rimasta incredibilmente affascinata da quel curioso oggetto volante. Nei miei pensieri, sognavo di farmi trasportare dal vento in alto nel cielo e di guardare il mondo sottostante da un punto di vista diverso, quello che piaceva a me. Il nostro gioco era un volo infinito a bordo di una mongolfiera colorata per ammirare dall'alto luoghi a noi sconosciuti. Con la fantasia facevamo Il nostro giro del mondo in 80 giorni. Ci imbarcavamo sul grande cesto di vimini, al quale era legato con

    Io e mia mamma Franca delle corde un enorme pallone variopinto. Decollavamo e, a mano a mano che ci alzavamo da terra, le cose diventavano piccole e lontane, il silenzio aumentava e le nuvolette bianche erano sempre più vicine; allora facevamo il gioco di toccanuvole: chi ne toccava di più vinceva e decideva la destinazione successiva. Sorvolavamo le praterie dove correvano libere mandrie di cavalli selvaggi, dopo poco eravamo sul panorama di una grande città e poi nel deserto, per vedere i cammelli e i dromedari. Il viaggio continuava nella savana, dove spiavamo i leoni a caccia di zebre, e ancora nella giungla per osservare le tigri che con i loro cuccioli si abbeveravano al fiume. I nostri itinerari di giorno in giorno erano diversi. Era molto divertente e il tempo passava veloce senza che ce ne accorgessimo.

    A riportarci alla realtà erano le voci delle nostre mamme che ci chiamavano per la cena. Solo in quel momento atterravamo con la mongolfiera nel cortile di casa per riprendere i nostri viaggi all'indomani.

    La nostra grande casa era collegata ai campi da un lungo sentiero che tutta la famiglia, per motivi diversi, percorreva più volte al giorno.

    Mio papà, che dedicava tutto il suo tempo libero alla coltivazione dell'orto e alla cura del frutteto, mia mamma quando andava a raccogliere le verdure, io e la mia sorellina per correre a piedi nudi nell'erba, poi c'erano la mia amica Elisa e i nostri cuginetti. Noi bambini, tutti insieme, giocavamo a nascondino o al gioco delle sette pietre. Quest'ultimo era il mio preferito e, anche se era più adatto ai maschietti, io che ero molto vivace e svelta lo preferivo agli altri giochi, perché lo consideravo più divertente.

    Occorreva una palla e si formavano due squadre di uguale numero di giocatori: due o più. Con sette piccole pietre piatte, poste l'una sull'altra, si formava una torre e dietro si poneva un giocatore; gli altri membri della sua squadra gli si mettevano alle spalle. Gli avversari si sistemavano di fronte, al di là di una linea tracciata a una distanza di circa tre metri dalla pila di pietre. Uno dopo l'altro facevano rotolare la palla verso la torre, per buttarla giù. Una volta abbattute e sparse le pietre, scappavano via tutti, mentre l'avversario, impossessandosi della palla, la passava rapidamente ai propri compagni, i quali cercavano di colpire, uno a uno, i componenti dell'altra squadra per metterli fuori gioco. Questi ultimi, invece, dovevano schivare i colpi e cercare di rimettere le pietre una sull'altra per ricostruire la torre.

    Vinceva la squadra che eliminava tutti gli avversari oppure quella che riusciva a rimettere su la torre.

    Un altro gioco che ci piaceva era quello della campana. Si disegnava per terra uno schema con più quadrati, si lanciava a turno una pietra nel primo e, saltellando su una gamba sola, si doveva recuperarla, poi si passava al quadrato successivo fino a occupare tutto lo schema. Si veniva eliminati quando non si riusciva a tenere l'equilibrio, oppure se si saltava fuori dallo schema o ancora se si lanciava la pietra all'esterno del quadrato. Vinceva chi riusciva a completare tutto il percorso per primo.

    Capitolo 2

    Mio papà Giovanni lavorava in ferrovia, dove controllava i binari e i passaggi a livello. Era riuscito a trovare questo posto di lavoro quando era già sposato da qualche anno. Prima era caposquadra nei cantieri dove si costruivano gallerie, un lavoro faticoso e in alcune circostanze pericoloso. Per questo motivo, mio padre aveva fatto diversi tentativi per cambiare lavoro e, quando era riuscito finalmente a trovare un posto nelle ferrovie, aveva pensato di aver raggiunto il suo obiettivo... invece era rimasto deluso. I motivi erano due: innanzitutto lo stipendio mensile, di gran lunga inferiore a quello precedente; inoltre, era obbligatorio il trasferimento da Paola a Susa, in provincia di Torino, in Piemonte.

    Lo spostamento di papà fu davvero un problema per la nostra famiglia. Emma era piccolissima per affrontare un viaggio lungo in treno e si aggiungevano poi le incognite a cui saremmo andati incontro una volta arrivati in Piemonte.

    Il lato positivo di questo lavoro era che, essendo statale, dava garanzie maggiori, inoltre – particolare da non sottovalutare – era certamente meno pesante.

    A malincuore i miei genitori decisero che la soluzione migliore era che papà partisse da solo, con la speranza di rimanere qualche tempo fuori casa e di ottenere presto un trasferimento in Calabria.

    Appena arrivato al Nord, mio padre capì che integrarsi in un paese che non conosceva non sarebbe stato facile; riuscì a trovare un piccolo monolocale e, per molti giorni, fece solo lavoro e casa.

    Ben presto, però, i miei genitori sentirono la mancanza l'uno dell'altra e così, insieme, decisero che io e mamma avremmo raggiunto papà a Susa, mentre la mia sorellina Emma sarebbe rimasta a Paola con la nonna materna.

    Avevo poco più di sei anni, ma ricordo che il tempo trascorso a

    Papà al lavoro quando costruiva gallerie Susa fu molto difficile per me. Quel periodo coincise con il mio ingresso in prima elementare. Avevo lasciato i compagni dell'asilo per iniziare la scuola in un luogo che non avevo mai visto e dove non conoscevo nessuno.

    In Piemonte anche il clima era diverso. In Calabria l'inverno è mite, mentre al Nord già da ottobre la mamma mi imbacuccava con sciarpe, berretti e calzettoni di lana; io non ero abituata e tutti questi indumenti mi davano fastidio.

    Il primo giorno di scuola mi accompagnarono entrambi i miei genitori. Papà al lavoro faceva spesso il turno di notte, così quel mattino, invece di andare a dormire come era solito al suo rientro, venne con me e con la mamma.

    Per raggiungere la mia aula c'erano dei corridoi immensi nei quali, durante i primi giorni, mi persi più volte.

    La scuola era spesso immersa nella nebbia, un fenomeno che a Paola non avevo mai visto.

    Odiavo la divisa che dovevo indossare: un grembiule nero che arrivava appena sopra il ginocchio, con un colletto bianco, molto ampio, tenuto stretto sul davanti da un grosso fiocco rosa. I maschietti avevano un grembiule decisamente più corto, che arrivava alla vita, sempre nero, e anche loro portavano un colletto bianco con un fiocco, ma azzurro.

    Con la cartella sulle spalle, ogni mattina la mamma mi accompagnava a piedi a scuola. Le regole erano rigide e la disciplina era posta anche al di sopra dell'istruzione: gli orari di entrata andavano osservati scrupolosamente, perché con un ritardo di appena cinque minuti i cancelli si chiudevano e gli alunni non potevano più accedere alle aule.

    La classe era mista e a insegnare c'era la maestra Sandra, una bella signora, alta, bionda e con gli occhi scuri, che avrà avuto circa quarant'anni ed era molto paziente con tutti i bambini. Posso dire che la mia maestra, oltre alla capacità e alla dedizione per il lavoro, possedeva delle doti umane inestimabili: sapeva accogliere e mettere a proprio agio ognuno di noi, minimizzando così il divario sociale e culturale che purtroppo esisteva tra gli alunni del Sud e quelli del Nord. Con il suo modo di fare seppe far nascere in me la voglia di imparare. Io mi impegnavo nello studio, cercando sempre di dare il meglio, e i risultati a fine anno erano positivi.

    Io e il mio adorato papà

    A Susa frequentai tutta la prima elementare e metà anno della seconda.

    Quando suonava la campanella ero felicissima, non solo perché terminavano le lezioni, ma soprattutto perché sapevo che fuori ad attendermi c'era il mio papà. Lui veniva a prendermi in bicicletta, io salivo sul tubo tra il sellino e il manubrio e mi stringevo forte alle sue braccia. Mi sentivo al sicuro con lui e, per me, questi sono stati i momenti più belli vissuti a Susa.

    A volte mio padre mi portava addirittura al lavoro con sé, alla ferrovia dove c'era il casello, e mentre lavorava io gli facevo compagnia.

    Anche ai miei genitori il trasferimento al Nord pesava e non poco. Quando raggiungemmo papà a Susa, loro si resero conto che il locale in cui viveva da solo era troppo piccolo per tre persone, quindi si misero alla ricerca di un appartamento più grande e, appena trovato, ci trasferimmo. Quel che ricordo delle due case – e che non mi piaceva affatto – era il gabinetto all'esterno, sul balcone, che per andarci dovevamo uscire di casa. Era un piccolo quadrato circondato da quattro mura con sopra un tetto; su una parete c'era una porta di legno, che dall'interno si poteva chiudere con un chiavistello. Al centro c'era una toilette alla turca, una specie di vaso sanitario appiattito e privo di coperchio, con due pedane laterali per appoggiare i piedi e un foro di scarico al centro. Per me ha sempre avuto un non so che di inquietante, così quando si faceva sera e avevo bisogno di fare pipì chiedevo alla mamma di accompagnarmi. Durante i mesi invernali, le temperature erano molto rigide e nessuno usciva mai di casa per andare in bagno di notte. Era scomodo e mi mancava tanto il confortevole bagno che a Paola avevamo all'interno della nostra casa.

    Negli anni Sessanta e Settanta, l'inserimento dei migranti trasferitisi dal Sud al Nord per lavoro non era semplice. Da parte dei piemontesi, e più in generale di tutto il Settentrione, c'era un atteggiamento di rifiuto e di esclusione nei confronti dei meridionali.

    Le differenze culturali e identitarie si facevano sentire. All'epoca c'erano addirittura cartelli appesi ai portoni con la scritta: non si affitta ai meridionali. La gente del Sud si sentiva discriminata e

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