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Un'infanzia straordinaria. Noi bambini degli anni '60
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E-book128 pagine1 ora

Un'infanzia straordinaria. Noi bambini degli anni '60

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Info su questo ebook

L'autrice ripercorre gli anni della propria infanzia, dal 1962 al 1969, trascorsi in una tranquilla cittadina della provincia veneta. Le vicende personali si intrecciano con quelle storiche; tutto viene filtrato dalla sensibilità di una bambina entusiasta di condividere con i suoi coetanei esperienze indimenticabili a contatto con la natura o nell'ambiente scolastico, momenti di fede sincera in parrocchia, di festa nella città natale. E' comunque felice, nonostante la vita in famiglia non sia priva di conflitti. Grande attrazione suscita sulla protagonista e in generale sui piccoli spettatori di quegl'anni la televisione, in particolare la "Tv dei ragazzi", con i suoi cartoni e film ricreativi, ma è anche una finestra sul mondo, che informa su eventi tristi, come la morte del Papa buono o l'alluvione del '66, e stupefacenti, come lo sbarco sulla Luna. Dopo brevi flashback sul passato rurale della città e sulla recente tragedia bellica, l'autrice evidenzia il clima di serena operosità che caratterizza il periodo della Ricostruzione e lo sguardo ottimistico rivolto al futuro che si percepisce anche in provincia e viene offuscato, solo alla fine degli anni '60, dalla contestazione giovanile, pienamente giustificata per il suo carattere pacifista ed antiautoritario. La narrazione del percorso formativo della protagonista viene interrotto all'inizio della fase adolescenziale, ma, dopo un'elissi di vent'anni, se ne intravvede lo sbocco nella ritrovata certezza della fede.
LinguaItaliano
Data di uscita18 mag 2022
ISBN9791220398176
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    Anteprima del libro

    Un'infanzia straordinaria. Noi bambini degli anni '60 - Antonietta Casagrande

    Prefazione

    Può una bambina abbandonata a se stessa, con i genitori sempre assenti per lavoro, parcheggiata dalle zie materne, in una situazione familiare complicata da difficoltà economiche e relazionali, essere felice?

    Sì, negli anni ’60 questo era possibile! Il mondo che girava intorno ai piccoli era ricco di meravigliose opportunità, capaci di rendere l’infanzia una favola fantastica.

    I bambini di ogni epoca e condizione sociale vivono le prime esperienze di vita con uno stupore ed un entusiasmo tali, che neppure le situazioni di povertà ed abbandono possono spegnere.

    Nel periodo preso in considerazione, i servizi sociali non erano ancora organizzati in modo efficiente, come oggi, ma non mancavano gli interventi di solidarietà delle istituzioni quali la Chiesa e la scuola e anche i parenti e gli amici si adoperavano per accudire i bambini in tenera età, offrendo un valido supporto morale ed economico alla famiglia.

    Possiamo quindi affermare che negli anni ’60, nelle città grandi e piccole della nostra Italia, i bambini ebbero l’opportunità di vivere un’infanzia straordinaria.

    Certo l’infanzia viene considerata il periodo più felice della vita in molte testimonianze letterarie di tutti i tempi; pensiamo agli illustri esempi della produzione letteraria italiana, innanzitutto all’opera di Giacomo Leopardi che nel Sabato del villaggio considera l’infanzia come ..età fiorita, giorno d’allegrezza pieno… a cui si contrappone l’età adulta, con tutte le sue difficoltà, delusioni e sofferenze, capaci di spazzare via ogni speranza di felicità.

    Lo stesso Pascoli, nel saggio di poetica Il Fanciullino, afferma che il poeta dovrebbe rimanere un bambino nel cuore, per dare valore alle piccole cose e sminuire quelle grandi e tragiche che sovrastano l’umanità.

    Per non dimenticare il più recente Pavese, per il quale l’infanzia è l’unico periodo della vita in cui ogni individuo riesce ad essere veramente se stesso, a scoprire con viva curiosità ed entusiasmo il mondo che lo circonda e vivere in modo autentico, perchè libero di esprimere la propria personalità, senza i condizionamenti morali e sociali dell’età adulta.

    In una società in continua evoluzione, come quella a cui mi riferisco, dovuta al notevole progresso tecnologico, iniziato col boom economico degli anni ’50 e proseguito negli anni ’60, la solidarietà e la spontaneità nei rapporti umani erano rimaste immutate, ereditate dalla mentalità contadina dei predecessori che faceva sentire ancora il suo benefico influsso.

    I giochi all’aria aperta, il desiderio di ritrovarsi insieme per trascorrere ore in allegria, facevano vivere a noi bambini esperienze indimenticabili.

    Nella rievocazione del periodo della mia infanzia, trascorsa negli anni Sessanta, in una piccola cittadina della provincia veneta, desidero far emergere tutto l’entusiasmo per la vita, mio e dei miei coetanei, figli del baby boom del secondo dopoguerra.

    Oggi provo un misto di tristezza e nostalgia nel rammentare le persone che svolsero un ruolo affettivo ed educativo determinante quand’ero bambina, ed ora non ci sono più, ma si sa, il tempo terreno non è eterno: i miei genitori e le mie zie, la cugina Anna, le suore dell’asilo e i sacerdoti della parrocchia di quei fantastici anni.

    1. La bicicletta rossa

    In primavera cavalcavo ogni pomeriggio la mia bicicletta rossofiammeggiante e mi divertivo a percorrere le strade di tutto il paese; non c’era molto traffico in quel tempo nella tranquilla cittadina della provincia veneta in cui ero nata, dalle strade ampie e alberate, dall’aspetto rassicurante e, allo stesso tempo, monotono.

    Ero riuscita ad organizzare con scrupolo la mia vita di bambina che trascorreva tra gli impegni scolastici e gli svaghi pomeridiani.

    I mei amati genitori non potevano essermi vicini e seguirmi nel processo educativo; ero la più piccola di tre figli, l’ultima venuta al mondo, una femmina, dopo la nascita, alcuni anni prima, di due maschi; mio padre era sempre lontano per lavoro e, in seguito, anche mia madre era stata costretta a trovare un impiego, per rimpinguare le modeste entrate della famiglia.

    Come ero arrivata a possedere la mia prima bicicletta, colore rosso?

    La mamma col suo lavoro di impiegata, presso una grossa ditta locale, era occupata fino a tarda sera, non poteva più starmi vicina e seguirmi nei compiti, così, rimasta a casa sola a sette anni, piangevo ogni giorno. Un pomeriggio mio fratello Edoardo mi aveva trovata, per strada, appoggiata ad un albero, mentre, tra le lacrime, stavo chiamando disperatamente mia madre.

    Dalla mia nascita fino ai quattro anni circa, con la mia famiglia abitavamo in una villetta con giardino, di cui non ricordo nulla, ma che ho potuto rivedere nelle vecchie foto in bianco e nero che mi avevano scattato in tenera età, mentre muovevo i primi passi in mezzo ai fiori e ne accarezzavo i petali. In quelle foto ingiallite tutto sembrava idilliaco: mia madre stendeva i panni. mentre io sedevo sul carrozzino in cortile; i miei due fratelli maggiori mi tenevano in braccio e mi facevano giocare; io mi aggiravo barcollante tra i gerani e le violette. Ho ancora il vago ricordo di una casa enorme a tre piani, nell’ultimo c’era una soffitta che fungeva da camera per la donna che veniva ad aiutare mia madre nelle pulizie, dove ricordo un lettone con un copriletto rosso porpora.

    In seguito il proprietario della casa ci aveva comunicato che voleva venderla, noi eravamo in affitto, ma per acquistarla ci volevano troppi soldi e non ne avevamo la possibilità economica, così ci riducemmo ad andare a vivere in un piccolo appartamento scuro con tre camerette, in uno stabile poco lontano, che aveva il solo pregio di affacciarsi davanti a un vasto campo di erba verde; questo fu, per diversi anni, uno dei miei luoghi di esplorazione e di gioco preferiti.

    In quello stabile abitavano altre tre famiglie, una di queste aveva figlie già adolescenti, nelle altre vivevano bambini più piccoli di me, di due o tre anni, che non andavano ancora a scuola. Con loro, per tutto il periodo prescolare, giocavo ogni giorno sulle scalinate del condominio, dove facevamo salti da un gradino all’altro e correvamo su e giù, tanto che un giorno caddi sopra uno scalino e presi una forte botta in testa che mi produsse un taglio, di cui porto ancora la cicatrice.

    In seguito a quell’episodio i miei genitori decisero di mandarmi all’asilo, altrimenti sarei rimasta un maschietto e mi sarei procurata altre rovinose cadute. Ma durante l’estate continuavo a giocare ancora con i bambini della palazzina in cortile, a nascondino, correndo con le biciclettine o a pallacanestro, attaccando il cerchio vecchio di una bicicletta al muro e lanciando lì dentro la palla; successivamente trovammo un varco nella siepe che costeggiava il campo situato di fronte allo stabile, che ci consentì di entrare in quello che fu per noi un immenso territorio di esplorazione.

    Amavo raccogliere i ranuncoli e fiori di tutti i tipi e scoprivo ogni giorno nuovi insetti e nuove forme di vita. In particolare, amavo osservare i movimenti inarrestabili delle formiche sopra i mucchietti di terra dei formicai, rimanevo incantata dalle farfalle variopinte, desiderando afferrarle per le ali; questo desiderio venne appagato, quando i miei genitori mi regalarono una rete acchiappafarfalle, così iniziai a catturarle. Mio fratello Edoardo, che era un tipo molto ordinato, le prendeva in mano e dava loro dell’insetticida per farle morire, senza ulteriori patimenti, poi le incollava su un album con le ali aperte, scrivendo sotto ciascuna la tipologia di appartenenza.

    Io invece ero più sadica e mi divertivo a strappar loro le ali, divertimento che durò poco, perché, in seguito, mi resi conto di quale crudeltà stessi commettendo e smisi di catturarle.

    Gli altri bambini, inquilini dello stabile, invece, consideravano questo campo di erba verde un ottimo territorio da esplorare per cercare tesori, volevano vedere cosa c’era dentro ad una grossa buca situata al centro del campo, forse provocata da una bomba, e si spingevano fino ad una casetta di pietra abbandonata sulla parte estrema, pensando di trovarci chissà che meraviglie.

    Marino e suo fratello minore Paolino erano tranquilli, avevano dei grandi e bellissimi occhi aperti sul mondo, Gianni, invece, era un vero terremoto, correva scalmanato tutto il giorno, incurante dei continui richiami che sua madre gli urlava dalla finestra.

    Alla fine, io e la mia famiglia, ci adattammo alla nuova situazione abitativa, anche mia madre, che aveva lasciato con molto rimpianto la casetta con giardino dove eravamo nati. Ora coltivava i fiori in terrazzo ed io mi divertivo ad annaffiarli ogni sera.

    I miei genitori avevano molti anni di differenza, precisamente diciassette, mio padre era andato in Etiopia all’epoca del Fascismo, ma aveva deciso di tornare a casa dopo la guerra, per non rimanere sotto il dominio degli inglesi; mia madre, di famiglia tradizionalmente antifascista, negli anni’ 40, lavorava come contabile in un piccola ditta, lì conobbe il mio nonno paterno che si diceva preoccupato per il figlio maggiore di quarant’anni, che stava per tornare dall’Africa e non aveva lavoro, mia madre ne provò compassione e desiderò conoscerlo, subito si fidanzarono e decisero di formare una famiglia, così lei lasciò il suo lavoro per dedicarsi esclusivamente a noi e aiutare mio padre nella sua nuova azienda.

    Mio padre e mia madre avevano un’indole completamente opposta, tanto lei era riservata, quanto lui amava frequentare gli amici, tanto lei preferiva stare in casa per dedicarsi alle faccende domestiche, quanto lui desiderava uscire; aveva la passione dei viaggi e dell’ avventura che lo avevano indotto a cercare fortuna in Etiopia, per

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