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Destinazione felicità
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E-book186 pagine2 ore

Destinazione felicità

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Info su questo ebook

Un’infanzia infelice, una fuga disperata e l’incessante ricerca della felicità da sempre desiderata. Il giovane Sean si racconta attraverso i ricordi, lasciati dalle innumerevoli avventure vissute, e le pagine di diario scritte durante l’anno di svolta della sua vita. Esperienze nuove e avventurose, incontri speciali, forti emozioni, amicizie e speranza accompagnano il protagonista nell’indimenticabile viaggio verso la realizzazione dei propri sogni, in un coinvolgente e appassionante racconto, sempre in bilico fra presente e passato.
LinguaItaliano
Data di uscita12 dic 2018
ISBN9788868673598
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    Anteprima del libro

    Destinazione felicità - Guendalina Bosio

    aperta.

    CAPITOLO 1

    Sono passati ormai dieci anni da quando presi la decisione che cambiò drasticamente la mia vita, e la presi proprio perché volevo che le cose cambiassero. Ancora non riesco a capacitarmi del fatto che sia già passato così tanto tempo da quel giorno, poiché ricordo con tale precisione il momento in cui decisi di intraprendere quel viaggio così importante, che mi sembra di averlo vissuto solo ieri. Eppure, nonostante i ricordi riaffiorino spesso alla mente intromettendosi nella mia vita presente, il tempo è passato, ma il suo trascorrere non ha minimamente sbiadito la memoria di quell’avventura così rischiosa e improvvisata, che alla fine mi ha portato dove sono ora.

    Decisi di intraprendere il viaggio senza pianificare nessuna tappa e nessun percorso, mi posi solo una meta, e il desiderio di raggiungerla mi diede la forza di affrontare tutto ciò che incontrai lungo il mio cammino. Era una meta importante quella che mi ero prefissato, sapevo che avrei dovuto faticare moltissimo per raggiungerla, e infatti fu così: vagai a lungo, da solo, in posti sconosciuti, e vissi tante esperienze, la maggior parte delle quali dolorose, anche se non mancarono di certo quelle belle e piacevoli. Viaggiando mi procurai inoltre un sacco di ferite, e alcune mi fecero soffrire molto, ma l’enorme desiderio di raggiungere il mio magnifico obiettivo mi permise di non arrendermi mai, dandomi la forza di rialzarmi ogni volta che le difficoltà e lo sconforto mi schiacciavano a terra.

    Insomma, fu un viaggio difficile, e una volta concluso mi lasciò una quantità tale di ricordi che archiviarli non fu affatto semplice. Inizialmente cercai di dimenticare tutto, non volevo più avere niente a che fare con tutte quelle lacrime, paure, incertezze e sofferenze, volevo vivere serenamente come avevo sempre desiderato e come finalmente mi era possibile fare. Tuttavia, ogni volta che mi sentivo felice il mio passato riaffiorava con una forza tale da farmi soffrire. Per anni ho cercato di scacciare questi ricordi quando emergevano dagli abissi della memoria in cui tentavo di rinchiuderli, ma inutilmente. Era come se cercassi di spingere una palla sul fondo del mare: con quanto impegno la schiacciavo, con tanta forza lei tornava a galla. Così facevo con i miei ricordi, e più mi sforzavo di respingerli sul fondo della mia memoria, più loro invadevano la mia mente.

    Solo adesso mi rendo conto che esperienze che segnano l’anima così profondamente non meritano di essere dimenticate, al contrario, devono essere rievocate in quanto parte fondamentale del nostro essere, e va accettato il bisogno irrazionale di tenersi stretti tutti i ricordi, per quanto dolorosi possano essere stati.

    Dopo questa presa di coscienza, ho perciò deciso di dare ascolto al mio cuore e, rievocando il mio triste e tormentato passato, racconterò il mio viaggio.

    CAPITOLO 2

    Prima di iniziare a parlare della mia grande avventura, è bene che il racconto parta da quando tutto è cominciato, il che coincide con il primissimo ricordo che ho della mia infanzia.

    Era una bella e tranquilla giornata di inizio estate, avevo circa quattro anni. Quella mattina i miei genitori mi svegliarono alla solita ora, facemmo colazione tutti e tre insieme, come sempre, e tutto lasciava presagire che sarebbe stata una normalissima giornata come tante altre. Invece non fu così. Papà prese la sua bicicletta, mamma salì sul portapacchi e mi tenne stretto a sé per tutto il tempo. Le chiesi dove stessimo andando, e lei mi rispose che eravamo diretti in un posto speciale, dove mi sarei divertito tanto tutto il giorno. Non capivo a cosa si riferisse, ma la cosa non mi importava, finché restavo abbracciato a lei.

    Dopo un po’ arrivammo in un grande parco giochi pieno di bambini che si divertivano con i loro genitori. Subito corsi a giocare, seguito da mamma e papà, e in quel parco con loro mi divertii per ore, tutti attorno a me erano felici, e anch’io lo ero assieme ai miei genitori. Quando cominciò a scendere la sera, mentre ero seduto sull’altalena a guardare tutte le altre famiglie che si avviavano per tornare a casa, mamma e papà si avvicinarono dicendomi che andavano a riprendere la bicicletta e che poi saremmo tornati a casa anche noi, sarebbero tornati subito, dovevo solo aspettarli lì, e così feci.

    Aspettai... E ancora... E ancora. Attesi per un tempo che sembrava interminabile, ma forse era solo una mia impressione. Mamma e papà sarebbero arrivati presto, dovevo solo aspettare. Venne buio, i lampioni si accesero, le strade si fecero sempre più deserte; nessuno mi vedeva perché nel frattempo, dopo essermi diretto nel luogo in cui era stata messa la bicicletta a vedere se mamma e papà erano pronti per tornare a casa, non avendo trovato né loro né la bicicletta mi ero seduto su una panchina nascosta tra gli alberi, ad aspettare ancora. Poco dopo mi diressi verso il centro del parco, pensando che forse i miei genitori non avevano visto che mi ero spostato, ma quando attorno a me non vidi più nessuno, mi resi conto di una terribile realtà: ero stato abbandonato.

    Uscii dal parco, tremante di terrore, e iniziai a chiamare i miei genitori, ma nessuno arrivava, nessuno mi sentiva. Vagavo per le strade senza una meta, solo, affamato, impaurito, nell’immensa oscurità della notte che tanto mi inquietava. Camminai a lungo, il mio viso era un miscuglio amaro di lacrime e sudore, non sapevo cosa fare, cosa pensare, dove dirigermi, mi sentivo smarrito e non sapevo cosa ne sarebbe stato di me. Ero ormai esausto quando, nell’ennesima via deserta e silenziosa che attraversavo, passai davanti a un enorme cancello leggermente aperto che conduceva a un grande giardino circondato da un alto muro, al centro del quale si ergeva una struttura gigantesca con tante finestre, la maggior parte di quelle ai piani superiori illuminate. Spinsi il cancello, entrai nel giardino, attraversandolo a passi lenti e silenziosi, e camminai verso l’edificio, sperando che qualcuno mi accogliesse e aiutasse a ritrovare i miei genitori. Salii sui gradini, mi avvicinai alla porta e allungai il braccio per bussare, ma in quell’istante chiusi gli occhi e caddi a terra.

    Non mi accorsi di nulla di ciò che accadde dopo. Al mattino mi svegliai in un letto in una grande stanza, attorno a me c’erano una donna con un grembiule bianco e lo sguardo piuttosto ostile e, accanto a lei, qualcosa che mi pareva una specie di angelo sceso dal cielo apposta per starmi vicino e aiutarmi a capire cosa stava succedendo. Quella creatura fatata si chiamava Aklim Whiteheart, era una dolcissima ragazzina di undici anni, con i capelli lunghi e biondi e gli occhi color del cielo. Fu lei che da subito si prese cura di me e mi aiutò ad ambientarmi nell’orfanotrofio dove ero capitato a mia insaputa.

    Diventammo subito grandi amici: Aklim mi faceva tanta compagnia, era simpatica, divertente, disponibile, altruista e gentile con tutti. Assieme a lei superai il trauma dell’abbandono, imparai a vivere secondo le regole dell’orfanotrofio, mi insegnò a leggere, a scrivere, a contare, a disegnare e a fare un sacco di giochi. Con lei mi sentivo sicuro e sereno, per quanto fosse possibile in un orfanotrofio minato dalla povertà, e i miei primi anni in quella struttura piena di bambini e ragazzini più grandi che speravano di essere adottati da nuovi genitori o che, come me, speravano che i veri genitori sarebbero venuti a riprenderli un giorno, non furono niente male.

    Tutto sembrava andare per il meglio finché, quando avevo sette anni, Aklim tornò a casa e io rimasi solo. A quel punto ebbe inizio il periodo più brutto e difficile di tutta la mia permanenza in quello che poi divenne, per me, un inferno in terra.

    CAPITOLO 3

    Il mio racconto sarei lieto di affidarlo interamente al mio fedele compagno di viaggio, che è rimasto sempre al mio fianco ascoltando i miei sfoghi e aiutandomi a trovare la forza di non arrendermi nei momenti di sconforto: il mio diario, le cui pagine custodiscono tuttora i ricordi della mia avventura.

    Voglio riportarne qui qualcuna, per esprimere la grande varietà di sentimenti provati durante l’anno più intenso e importante della mia vita.

    15 dicembre

    Caro diario,

    oggi è il mio compleanno e compio otto anni. È il primo giorno in cui ti scrivo perciò, per prima cosa, vorrei parlarti un po’ di me. Innanzitutto mi chiamo Sean, vivo in un orfanotrofio da quando avevo quattro anni perché i miei genitori mi hanno abbandonato in un parco giochi lontano da casa e così, dopo aver girato in lungo e in largo nel tentativo di ritrovarli, sono capitato qui. L’orfanotrofio si trova in un paese molto povero e la vita non è affatto facile.

    Anche se ero molto piccolo, ricordo che quando sono arrivato senza alcun preavviso, senza una valigia e senza un soldo per pagare la mia permanenza (tutte cose che, al contrario, gli altri bambini avevano fatto) non sono stato accolto con gran gioia dalla direttrice e dalle inservienti che lavorano qui. «Siamo in crisi, un solo bambino in più potrebbe rovinarci!» le ho sentite dire una sera poco dopo il mio arrivo, mentre passavo davanti alla porta dell’ufficio. Infatti non si sbagliavano, perché le porzioni durante i pasti hanno cominciato a ridursi sempre di più e d’inverno patiamo il freddo perché la legna per l’enorme camino del salone principale, che poi scalda tutte le altre stanze, costa troppo. Quando poi, dopo qualche anno, la situazione ha iniziato a peggiorare, abbiamo smesso di ricevere vestiti nuovi e giocattoli per Natale. Tutti pensano che questa situazione sia dovuta al mio arrivo non in regola, e presto mi sono tirato addosso l’odio e l’ostilità delle inservienti e dei bambini che vivono qui, ma soprattutto della direttrice.

    Nonostante ciò, i miei primi anni da orfano povero sono stati rallegrati dalla presenza di Aklim. Era una ragazzina dolcissima, aveva undici anni quando sono arrivato e subito si è presa cura di me: mi ha aiutato a integrarmi spiegandomi le regole, le attività, le cose vietate e quelle che si possono fare, gli orari da rispettare e tutto ciò che riguarda la vita qua dentro. Lei mi voleva bene, non mi considerava affatto la causa dei problemi dell’orfanotrofio, ero il suo migliore amico, il suo angioletto, come mi soprannominava ogni tanto per via del mio aspetto (ho i capelli biondi un po’ riccioluti, gli occhi azzurro chiaro e la pelle chiara). Io e lei eravamo inseparabili, giocavamo insieme, mi insegnava tutto ciò che imparava durante le lezioni scolastiche, che io non seguivo perché ero troppo piccolo, e ogni sera prima di andare a dormire veniva nella mia stanza, ci sedevamo vicini sul letto e mi leggeva delle storie, oppure mi parlava della sua famiglia, e quello era il racconto che preferivo in assoluto.

    Aklim era l’ultima di quattro figli, aveva un fratello e due sorelle più grandi e si volevano tutti molto bene. I suoi genitori non avevano abbastanza soldi per poterla mandare a scuola e sono stati costretti a portarla in orfanotrofio quando aveva cinque anni. Lei aveva sofferto molto per questa cosa ma, prima di lasciarla, la sua mamma e il suo papà le avevano promesso che appena sarebbero riusciti a mettersi a posto con i soldi sarebbero tornati a prenderla. Aklim sperava che quel giorno arrivasse presto, sapeva che sarebbe arrivato e, secondo lei, un giorno anche i miei genitori sarebbero venuti a riprendermi, e io lo desideravo tanto quanto lei.

    Alla fine, per Aklim, quel giorno è arrivato davvero. Un pomeriggio, mentre eravamo nel giardino a giocare, una macchina si è fermata davanti al cancello dell’orfanotrofio e ha portato via per sempre la mia migliore amica. I ricordi che ho di quel giorno sono molto confusi: lei che corre incontro ai genitori, la preparazione della valigia, l’emozione fortissima che provava e che le impediva di rispondere alle mie domande, le sue lacrime di gioia e un saluto rapidissimo davanti al cancello con i suoi auguri per un futuro sereno e felice... Poi Aklim è salita in macchina, è sfrecciata via e non l’ho rivista mai più. Tutto è successo molto velocemente, e solo dopo una notte passata a piangere nel mio letto freddo nel totale silenzio ho realizzato ciò che era successo: ero rimasto solo, di nuovo.

    Dopo la partenza di Aklim la mia vita non è stata più la stessa, e non solo perché mi mancava moltissimo la mia amica. La povertà non ci abbandona e, anche se una bambina se ne è andata, io sono ancora considerato la causa di tutti i mali. Sono il più piccolo, non solo di età ma anche di statura, nonché il più fragile e debole di carattere, quindi sono stato subito preso di mira da tutti gli altri bambini e ragazzi, che sfogano su di me anche la rabbia per il fatto di non essere ancora stati adottati, e non avendo più nessuno che mi protegge, non riesco a sottrarmi alle loro angherie.

    Così hanno cominciato a prendermi in giro, mi accusano e mi incolpano ingiustamente di ogni cosa brutta che succede, e ogni volta che tento di difendermi il torto passa a me, vengo punito e mi sono così guadagnato la fama di «orfano indisciplinato». Per tenere a bada la mia «aggressività» e «tendenza alla ribellione», la direttrice ha preferito affiancarmi alle inservienti invece che farmi studiare, loro hanno accettato ben volentieri l’aiuto di due mani in più e sono così diventato una specie di schiavetto. Probabilmente la scelta della direttrice è stata dettata dal fatto che, facendomi lavorare gratis, può tenere più soldi per sé... Sono infatti venuto a scoprire, ascoltando di nascosto i discorsi delle inservienti durante le ore di lavoro, che la direttrice si tiene più della metà dei soldi che dovrebbe usare per mandare avanti l’orfanotrofio, e questo non solo è il vero motivo della nostra miseria, ma è anche la causa del suo odio nei miei confronti: essendo arrivato senza nulla, deve usare i soldi dell’istituto per mantenermi.

    Da un anno questa è la mia vita in orfanotrofio. Faccio lavori di ogni genere tutti i giorni, come portare in salone la legna per il camino, lavare i pavimenti, pulire la cucina, la sala mensa e le aule dopo le lezioni, stendere il bucato, apparecchiare e sparecchiare le tavole, pulire i bagni e portare fuori la spazzatura. Vengo rimproverato o punito se non eseguo bene le mansioni che mi vengono affidate, se sono troppo lento, se faccio accidentalmente qualche disastro o se sbaglio qualcosa. Questa situazione mi ha anche

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