Il viaggio della mia vita
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Info su questo ebook
Solisca Silvio. Insegnante di Lettere in pensione da tre anni. Nata e cresciuta a Capoliveri, un meraviglioso paese dell'Isola d'Elba, dove tutt’ora vive. Ha compiuto i suoi studi superiori al Liceo classico R. Foresi di Portoferraio, Laureata in Lettere Moderne presso l'Università di Pisa. Ha insegnato per venticinque anni presso il Liceo Scientifico R. Foresi di Portoferraio. È stata sposata con Squarci Lucio, deceduto nel gennaio 2022, ha due magnifici figli, Alessandro e Stefano, padre di tre bambini.
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Anteprima del libro
Il viaggio della mia vita - silvio solisca
La mia infanzia
Sono nata nel lontano 1953, quattro anni dopo la morte della mia nonna materna, portata via da un male lento e inesorabile. Mia madre, segnata profondamente nell’anima da questa vicenda dolorosissima e straziante, aveva solo diciannove anni quando nacqui. Lei si era presa cura di sua madre con amore per due anni, si trovò nella povertà più estrema ad allevare i suoi fratelli, un ragazzo di dieci e una bambina di due, sostenuta da sua zia materna Onelia, sorella di mia nonna, e in seguito anche da mio padre, divenuto suo marito. Mio nonno materno Oreste era immigrato in Australia in cerca di lavoro, che a Capoliveri in quel periodo scarseggiava notevolmente. I fratelli di mia madre erano rimasti con lei fino al 1956, quando, chiamati dal padre, con grande dolore di mia mamma, per la quale non erano fratelli ma figli, si trasferirono in Australia.
I miei genitori si conoscevano da sempre, abitavano a pochi passi l’uno dall’altra in via Roma, la più famosa e trafficata del paese. E, come lei diceva spesso, non le piaceva assolutamente perché lui la prendeva in giro e la chiamava Marocchina
per il colore scuro della sua pelle.
L’amore, però, spesso fa dei miracoli impensabili: le attenzioni e il carattere docile di mio padre la conquistarono, facendola innamorare di lui. Insieme hanno costruito con enormi sacrifici e duro lavoro il loro nido d’amore, mettendo su famiglia: prima io, poi, quattro anni dopo è nato il sospirato maschio, mio fratello Carlo.
Allora i padri preferivano i figli maschi, perché potevano aiutarli, una volta divenuti grandi, dato che in pochi continuavanogli studi; le figlie, invece, restavano in casa fino al momento del matrimonio.
Io e mio fratello siamo cresciuti nei vicoli, chiassi, del paese, nutriti a pane e Nutella o olio e sale, insieme ai numerosi bambini e bambine praticando giochi, con cui si erano divertiti i nostri genitori e i nostri nonni, come Uno, due, tre, stella
o Mamma, quanti passi fò a rimpiattino
.
Spesso nelle sere d’estate furtivamente ci avvicinavamo a certe case e suonavamo i campanelli, suscitando la rabbia dei malcapitati proprietari, che, disturbati nella loro quiete serale dopo il duro lavoro della giornata, si affacciavano alla finestra, lanciandoci improperi e a volte catinelle d’acqua.
Noi monelli ci nascondevamo in punti oscuri dove non potevano vederci e morivamo dalle risate.
Quelli erano tempi belli e spensierati in cui ognuno di noi ignorava che cosa sarebbe successo in futuro. Quel poco che avevamo ci bastava per divertirci.
Oggi purtroppo non succede più tutto questo: i bambini passano gran parte del loro tempo con il cellulare o giocando alla playstation. La strada, inoltre, non è più un luogo sicuro: con i tempi che corrono, c’è di tutto, a cominciare dalla droga che ha un mercato veramente cospicuo e fiorente anche all’Elba.
Ricordo con piacere i momenti festosi in cui le mie amichette venivano la sera a vedere la TV, poiché nel vicinato i miei genitori erano gli unici a possederla, grazie a mio nonno paterno che aveva venduto un terreno a Zuccale. Mia mamma in quelle occasioni era molto gentile e amorevole con loro: preparava biscotti e dolci da offrire. Le mie amiche sprizzavano gioia da tutti i pori ed erano felici di tali cortesie e riconoscenti, anche perché sarebbero altrimenti state costrette a recarsi alla sede del Partito Socialista, dove esisteva l’altra televisione del paese.
Ancora oggi, quando con mia madre andiamo a Capoliveri e incontriamo qualcuna delle bambine di allora, oggi divenute donne, con la memoria ripercorriamo le vicende piacevoli dei tempi passati, che, pur lontani, restano scolpiti nei nostri cuori e ci fanno commuovere come ragazzine.
Non ho dimenticato un episodio molto curioso e simpatico: io e altre due o tre bambine, quando eravamo piccole, ci ammalammo di morbillo e i nostri genitori ci permisero di stare insieme per una settimana, giorno e notte, a casa mia per non essere sole e tristi. Furono ore piene di spensieratezza e di giochi, nonostante il fastidio della malattia, che passarono presto con nostro grande rammarico.
Per anni abbiamo pensato, ogni volta che ci ritrovavamo, a quella vicenda, durante la quale approfondimmo la conoscenza l’una delle altre e stringemmo un solido rapporto di amicizia, che è rimasto immutato nel corso degli anni.
Ora che sono adulta, di tanto in tanto, mi ritrovo a guardare con gli occhi della mente al passato della mia infanzia e allora mi ritengo fortunata ad aver vissuto delle esperienze così gratificanti, che non dimenticherò mai e che faranno sempre parte del mio patrimonio inesauribile di meravigliosi ricordi.
Mio nonno paterno vendette un bel terreno allo Zuccale per scongiurare la nostra partenza in Australia, dove era emigrato mio nonno materno, Oreste, dopo la prematura morte di sua moglie, nonna Solisca. Erano tempi duri in cui mancava il lavoro e mio padre, invogliato dal suocero che gli prospettava condizioni economiche soddisfacenti per la famiglia, aveva deciso di partire. Per questo aveva preparato in comune i passaporti e mi fece fare la cresima a Porto Azzurro, perché a Capoliveri non era possibile, dato che ero una bambina di soli cinque anni incapace di leggere e scrivere. Fu mia madre a insegnarmi con successo il catechismo previsto per quel sacramento. Rammento che il parroco di allora mi interrogò un quarto d’ora prima della celebrazione della Messa, constatando con piacere quanto fossi preparata.
La partenza in Australia, tuttavia, fu accantonata perché mio nonno Filippo, vendette il terreno a Zuccale, risolvendo le difficoltà economiche della mia famiglia.
Non posso inoltre far naufragare nel mare dell’oblio le vacanze estive trascorse fuori paese nella casa di famiglia a Barabarca insieme ai miei cugini e zii da giugno a settembre. Io, mio fratello e i miei cugini ci alzavamo tardi e, dopo aver fatto colazione, con le nostre mamme andavano a quella spiaggia che oggi viene chiamata gli Stecchi ma che all’epoca portava il nome di Barabarca. Allora era frequentata solo dalla gente del posto che aveva l’abitazione nelle vicinanze, tra cui le nostre famiglie, e da pochi tedeschi che avevano comprato delle proprietà e avevano costruito delle case per l’estate. Tra di loro c’era una signora anziana con un doberman grosso e ringhioso, di cui noi bambini avevamo molta paura, che si metteva in un angolino della spiaggia per non creare problemi ai pochi bagnanti. Stava circa venti minuti, nel corso dei quali faceva fare il bagno al cane insieme a lei e poi se ne andava via. Durante la sua permanenza noi eravamo come paralizzati dalla presenza dell’animale che ci guardava digrignando i denti. Appena, però, la signora si allontanava, noi davamo sfogo alla nostra gioia e alla nostra esuberanza e ci divertivamo un mondo, facendo tuffi da uno scoglio, ci era categoricamente proibito salire sul vecchio pontile, risalente ad alcuni secoli prima, utilizzato per trasportare quarzo da una cava situata vicino alla spiaggia della Madonna delle Grazie, precisamente nel luogo che attualmente è denominato le Piscine, avendo l’aspetto di vere e proprie piscina naturali, posizionate l’una accanto all’altra.
Ritornati quindi a casa, trascorrevamo l’intero pomeriggio a giocare fino allo sfinimento a rimpiattino o ad altri giochi fino alla sera, quando dopo cena andavamo a dormire.
Successe un episodio che a me e ai miei cugini costò una punizione severa: non andare al mare per una settimana.
Era ormai l’ora di cena e noi bambini, nell’attesa di metterci a tavola, giocavamo con la palla. Più volte ci era stato intimato di smetterla, ma noi, incuranti dei richiami, continuammo finché la palla cadde nel piatto, per fortuna non ancora pieno di brodo di mio zio Amedeo, nonno dei miei cugini.
Successe il finimondo: il loro padre iniziò a gridare e li avrebbe picchiati, se la loro madre non li avesse presi e rinchiusi in camera, dove rimasero fino alla mattina del giorno seguente. Io e mio fratello spaventati fummo mandati a letto senza cena. La notte, tuttavia, presi dalla fame, furtivamente ci alzammo e ci introducemmo nella cucina,