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Domitilla Wolf e la leggenda dell’hòuzi mao
Domitilla Wolf e la leggenda dell’hòuzi mao
Domitilla Wolf e la leggenda dell’hòuzi mao
E-book434 pagine6 ore

Domitilla Wolf e la leggenda dell’hòuzi mao

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Info su questo ebook

Domitilla è una ragazzina intelligente che ama gli animali e che può contare sull’amicizia dei suoi due amici, Lucy e George.
Domitilla si divide tra la scuola, la famiglia e la sua vita di quattordicenne. Le cose però subiscono un repentino cambiamento quando i gatti del paese diventano misteriosamente aggressivi, seminando il panico a Catsville. Mentre le autorità brancolano nel buio, incapaci di porre fine allo strano fenomeno, Domitilla e i suoi amici, sotto la guida attenta del professor Notorius, cercheranno una soluzione dando la caccia al protagonista di una tremenda leggenda.
LinguaItaliano
Data di uscita27 mar 2017
ISBN9788893122030
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    Anteprima del libro

    Domitilla Wolf e la leggenda dell’hòuzi mao - Pierluigi Agnelli

    cover.jpg

    Indice

    Cover

    Cover interna

    Credit

    Dedica

    Citazione

    Mappa

    Capitolo uno - Nella notte dei tempi

    Capitolo due - Un'inquietante presenza

    Capitolo tre - La seconda notte

    Capitolo quattro - A caccia di indizi

    Capitolo cinque - La storia di Thomas

    Capitolo sei - La professoressa Svampirya Adams

    Capitolo sette - Storie e leggende

    Capitolo otto - Il professor Notorius

    Capitolo nove - La leggenda dell'hòuzi mao

    Capitolo dieci - I gatti impazziti

    Capitolo undici - Un vecchio amico

    Capitolo dodici - La scomparsa di Lucy

    Capitolo tredici - Gatti assassini

    Capitolo quattordici - Il piano

    Capitolo quindici - Casa Thillis

    Capitolo sedici - L'agguato

    Capitolo diciassette - Faccia a faccia

    Capitolo diciotto - La guardiana del libro

    Capitolo diciannove - Lo scontro finalei

    Capitolo venti - Fulmine a ciel sereno

    Bigrafia

    img1.jpg

    Pubblicato da

    Triskell Edizioni di Barbara Cinelli

    Via 2 Giugno, 9 - 25010 Montirone (BS)

    http://www.triskelledizioni.it/

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il frutto dell’immaginazione dell’autore. Ogni somiglianza a persone reali, vive o morte, imprese commerciali, eventi o località è puramente casuale.

    Domitilla Wolf e la leggenda dell’hòuzi Mao di Pierluigi Agnelli

    Copyright © 2017

    Cover Art and Design di Laura Di Berardino

    Mappa di Laura Di Berardino

    Disegni di Alessio Osio e Claudia Compiani

    Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in alcuna forma né con alcun mezzo, elettronico o meccanico, incluse fotocopie, registrazioni, né può essere archiviata e depositata per il recupero di informazioni senza il permesso scritto dell’Editore, eccetto laddove permesso dalla legge. Per richiedere il permesso e per qualunque altra domanda, contattare l’associazione al seguente indirizzo: Via 2 Giugno, 9 – 25010 Montirone (BS)

    http://www.triskelledizioni.it/

    Prodotto in Italia

    Seconda edizione – marzo 2017

    Edizione Ebook 978-88-9312-203-0

    A mia figlia Valentina

    Le fiabe non raccontano ai bambini che i draghi esistono. I bambini sanno già che i draghi esistono. Le fiabe raccontano ai bambini che i draghi possono essere uccisi.

    Gilbert Keith Chesterton

    img2.jpgimg3.jpg

    La fredda notte aveva ormai calato i suoi tentacoli sulla grande Terra d’Oriente. I clan erano in subbuglio, tutti bisbigliavano l’uno con l’altro, quasi con timore; gli sguardi pieni di tristezza, d’ansia, di smarrimento.

    «Perché ci avrà fatto venire? Che sia veramente giunta l’ora?» chiese uno dei giovani.

    «Taci!» lo zittì un anziano del gruppo. «Solo lui potrà dircelo e fino ad allora nessuno deve osare pronunciare queste parole.»

    «Ha fatto venire tutti, anche chi vive di là dal fiume Giallo, segno che questa non sarà una notte come le altre,» commentò un altro.

    «E poi c’è la luna piena, l’ultima di questa stagione... brutto segno, potrebbe veramente essere l’ultima volta per lui,» disse piano Zhowin per paura di essere udito da qualche anziano.

    In quell’era, nulla poteva dirsi come è adesso, il tempo scorreva lento, quasi impercettibile, ma pur sempre inesorabile. Quando tutti furono giunti nella Radura Silenziosa a Ovest della Grande Foresta Grigia, i tamburi smisero di battere e un silenzio quasi irreale calò greve e minaccioso. La luna illuminava le teste dei presenti sistemati a semicerchio, mentre tutti gli occhi puntavano dritti al centro, dove tre sagome erano sedute immobili. Dietro di loro le fiamme di una decina di torce si contorcevano agitate da un vento gelido.

    «Vi ringrazio d’essere qui... tutti!» disse con voce stanca il vecchio e saggio Zhiluide facendo un cenno di benvenuto.

    Tutti chinarono la testa in segno di rispetto.

    «È giunta l’ora ormai. Tante ere sono passate sotto i miei occhi consumati; molte cose hanno visto e ora vogliono riposare. E anch’io lo voglio! Il mio tempo sta finendo, ma prima che ciò accada, ho da dirvi le ultime cose e sono certo che le ascolterete con molta attenzione».

    Zhiluide fece una lunga pausa; un brusio si sparse tra i presenti.

    Quando riprese a parlare, il silenzio tornò a regnare sovrano.

    «Wung, Shai, figli miei prediletti, il destino ha deciso che le vostre strade si separino. Tu, Shai, sei il più forte, quindi resterai e prenderai il mio posto. Spetterà a te guidare il clan e so che lo farai con saggezza e fermezza.»

    Shai s’inginocchiò, chinò il capo e rimase in quella posizione fino a quando suo padre non lo fece rialzare.

    «E ora fallo!» gli ordinò perentorio Zhiluide donandogli il bastone del comando.

    Shai lo fissò, prese quanto suo padre gli stava offrendo, quindi si volse verso i presenti, alzò lo sguardo alla luna ed esplose in un urlo spaventoso. Lo ripeté tre volte mentre contemporaneamente si batteva il petto. Tutti gli elementi dei clan s’inginocchiarono in segno di sottomissione.

    «È fatta!» esclamò il vecchio Zhiluide. «D’ora in avanti Shai sarà colui che vi guiderà».

    Urla raccapriccianti scossero la notte, tutti i presenti s’agitarono battendosi il petto e saltando, poi il silenzio tornò a impadronirsi della radura e il vecchio saggio riprese faticosamente a parlare.

    «E ora questa!»

    Zhiluide alzò a fatica un’enorme coppa intagliata nel legno di quercia, la mostrò ai clan e la porse a Shai. Lui l’afferrò e ne bevve avidamente il contenuto verdastro.

    «Hai bevuto dalla coppa della saggezza,» disse il vecchio padre. «Che il suo contenuto possa arrivare dritto al tuo cuore e renderlo capace di ascoltare e capire. La forza può essere terribile se non è guidata dalla saggezza.»

    Altre urla di compiacimento si levarono; Shai ripose la coppa ai piedi del padre restando inginocchiato sino a quando Zhiluide non lo fece rialzare, quindi, a un lieve cenno del vecchio capo, i clan tacquero di nuovo.

    «E ora a te, Wung. Tu andrai in cerca della tua compagna, vagherai a lungo prima di trovarla e all’inizio non capirai, ma quando finalmente ce l’avrai fatta, una nuova bellissima stirpe nascerà, diversa da te. I poteri magici di tua madre Yuè Liang scorrono nelle tue vene, il suo spirito ti guiderà e ti farà comprendere. E voi qui presenti, ditelo a tutti e che nessuno osi toccare Wung. Così è scritto e così sarà.»

    «Come vuoi tu, padre,» disse Wung inginocchiandosi anch’esso.

    Un brusio si alzò nuovamente tra i componenti dei clan. Quindi il vecchio capo prese un’altra coppa, quella volta più piccola della precedente. Dentro stava della terra bluastra. Zhiluide ne afferrò una manciata e cosparse la testa e una parte della schiena di Wung; ripeté quel gesto per tre volte recitando una formula, dopodiché chiese al figlio di rialzarsi.

    «Ecco, figlio mio, ora sei pronto per andare incontro al tuo destino,» disse.

    Wung si alzò lentamente e, sebbene non capisse il senso di ciò che suo padre aveva appena fatto, non osò chiedere spiegazioni.

    «Io non vedrò la nuova luce, lo sento. Prima che il giorno scacci la notte, sia fatto ciò che ho deciso,» concluse Zhiluide.

    Passarono molte stagioni da allora e Wung vagò così come suo padre gli aveva ordinato di fare. Attraversò la Grande Foresta Grigia, oltrepassò i Tre Laghi Ghiacciati, passò attraverso le Paludi di Rugiada, varcò le Colline Fangose, salì sul monte Tao Tao, incontrò tante possibili compagne, ma nessuna sembrava essere quella giusta. Nella sua immensa solitudine, Wung fu spesso travolto dallo sconforto.

    Perché, padre, mi hai affidato questo compito di cui non riesco a comprendere il significato? Perché mi hai fatto abbandonare i clan? E tu, madre, perché non mi aiuti?. Quelle erano le domande che ogni notte lo tormentavano, mentre solitario e pensieroso scrutava le stelle in cerca di un segno.

    Intanto, nelle steppe del Nord, il potente re Izanagi chiamò a sé una delle figlie, forse la più bella.

    «Figlia mia,» le disse. «È venuto il tempo che tu trovi il compagno della tua vita.»

    «Certo, padre, qui ci sono tanti uomini che aspirano a diventare mio marito, quale di loro hai scelto per me?» chiese Choi incuriosita.

    Izanagi penetrò con il suo sguardo gli occhi della figlia.

    «Perché mi guardi così, padre?» chiese lei preoccupata.

    «Choi, nessuno dei nostri giovani fa per te,» rispose dolcemente il padre. «Il destino ti porta lontano da qui, fuori dai confini della Grande Steppa. Là incontrerai colui che diverrà il tuo compagno. Lui è molto diverso da te, ma saprà riconoscerti e dalla vostra unione nascerà una stirpe nuova. Così è stato deciso e così sarà!»

    Choi aveva lo sguardo smarrito.

    «Andare via da qui? Ma perché? E come lo troverò? E cosa significa che lui è molto diverso da me?».

    Ma a quelle sue domande non seguirono risposte e Choi capì che suo padre non aveva più nulla da aggiungere.

    «Padre, quando dovrei partire?» domandò a capo chino.

    «Subito, figlia mia, lui sta vagando da parecchio tempo; ti sta cercando ovunque ed è giunta l’ora che ti trovi,» rispose Izanagi.

    Choi ebbe un sussulto.

    «Subito?» ripeté.

    «Questa stessa notte!» esclamò suo padre.

    «E cosa devo dire agli altri?» chiese nuovamente Choi.

    «Nulla! Non dirai nulla. Appena la notte sarà calata partirai. Credimi, così sarà più facile per tutti.»

    E così, non appena le ombre scure della notte avvolsero la Grande Steppa, Choi partì, sola e con il cuore pieno di tristezza. Non capiva e non sapeva cosa le avrebbe riservato il destino.

    Se mio padre ha deciso così, significa che tutto questo ha un senso e io devo avere fiducia in lui, si disse mentre prendeva la direzione che portava ai confini delle sue terre.

    Poi, un giorno, dopo aver attraversato le steppe del Nord, proprio ai loro confini, lambendo le Terre Sabbiose, Wung la vide, bella come nessun’altra, agile, ma possente, fiera nel suo portamento. Lui ne rimase sconvolto. Avvertiva una forza che lo portava verso di lei, ma ciò lo spaventava e non riusciva a comprendere come quello avrebbe potuto avvenire.

    Ma come può essere? si chiedeva. Lei è troppo... diversa da me, come potrà diventare la mia compagna?.

    Passarono altri giorni e altre notti insonni fino a quando lo spirito di sua madre Yuè Liang accese la luce nel suo cuore e tutti i suoi tormenti svanirono; capì che quella sarebbe diventata la compagna della sua vita. E anche Choi comprese le misteriose parole di suo padre.

    Così Wung e la bella Choi si unirono e insieme si spostarono a Est, verso le Pianure di Seta. Sei nuove vite nacquero, molto diverse dai loro genitori, ma ugualmente splendide.

    Ecco, si è compiuto ciò che mio padre aveva predetto, pensò Wung fiero di sé, della sua compagna e dei suoi figli.

    Loro diventavano più forti ogni giorno che passava, soprattutto uno, Bai Zhi.

    «Guardalo, Wung, è il più forte di tutti,» disse Choi ammirando il figlio. «In lui scorre il tuo sangue magico, lui è l’unico che ha preso questo dono da te.»

    «Sì, hai ragione, spero ne faccia buon uso,» rispose Wung.

    «Lo farà,» affermò con convinzione Choi, il suo cuore di mamma non poteva ammettere altro.

    Ma le cose non andarono nel modo sperato. Bai Zhi divenne sempre più forte, prepotente e aggressivo nei confronti dei fratelli e a nulla valsero i tentativi di Choi di tenerlo a freno.

    Mamma Choi, però, non voleva arrendersi all’evidenza dei fatti e cercava in ogni modo di giustificarlo.

    «È giovane, Wung, deve ancora imparare a controllarsi, a pazientare, a capire ciò che si può o non si può fare: abbi un po’ di comprensione,» ripeteva spesso Choi al marito.

    Ma Wung era preoccupato e temeva che quel figlio non fosse come gli altri, qualcosa in lui lo inquietava.

    «Non lo so, Choi, non lo so.»

    «Ti prego, Wung, diamogli ancora tempo, l’aiuterò io,» implorò Choi.

    «Va bene, spero tu abbia ragione,» rispose Wung.

    Poi, un giorno, accadde qualcosa di tragico. Quando Wung accorse alle strazianti invocazioni di Choi, Hong, il più piccolo dei fratelli, giaceva a terra con la gola squarciata, mentre Bai Zhi se ne stava lì con lo sguardo scintillante di sfida e il corpo ancora intriso del sangue di suo fratello.

    Wung fece appello a tutti i suoi poteri magici, ci volle tutta la notte, ma alla fine Hong tornò a vivere. Bai Zhi fu rinchiuso per tre giorni e tre notti mentre Wung e Choi discutevano sul da farsi. Per tutto quel tempo, Bai Zhi non fece altro che tentare di fuggire dalla sua prigione; non una parola, un gesto, un segno di pentimento.

    «Il male è nel suo cuore, lo sento e questo strazia il mio,» disse Wung con tristezza.

    «Dunque non c’è speranza?» chiese Choi disperata.

    «Hai visto anche tu cosa è successo. No, è un pericolo per i suoi fratelli e per noi: dobbiamo scacciarlo!» sentenziò Wung.

    Choi chinò il capo e non ebbe più il coraggio di dire nulla, ma dentro di sé aveva compreso. Allora Wung fece quello che non avrebbe mai pensato di dover fare con uno dei suoi figli. Invocò i grandi spiriti e Bai Zhi mutò il suo essere, quindi lo scacciò dalle terre dell’Est condannandolo a vagare solitario. Ma Wung aveva il cuore tenero e concesse a quello sciagurato figlio un ultimo dono: novantanove vite.

    Bai Zhi se ne andò, ma prima vomitò tutta la sua rabbia proferendo orribili minacce ai suoi fratelli che invece rimasero. Wung fu ferito nel profondo del suo animo dalle parole del suo ormai ex figlio e di colpo comprese quanto male avrebbe potuto fare quello sciagurato. Alzato lo sguardo al cielo, urlò tutta la sua disperazione. Dopo tre giorni, Paschmir fece la sua comparsa nelle terre dell’Est.

    «Ho sentito la tua invocazione, potente Wung, è arrivata fino alle terre del Sud: dimmi cosa vuoi che faccia per te,» disse.

    Wung sospirò pesantemente, poi così parlò:

    «Una volta avevo un figlio, non più ormai. Nel suo cuore c’è odio e sete di vendetta, il suo spirito vaga senza pace, il suo aspetto è mutato; ora non è più nulla, nessuno lo vorrà e da lui non avrà seguito alcuna generazione. Ma nel suo sangue scorre anche una parte del mio sangue magico, è forte e potrà diventarlo ancora di più. In un momento di debolezza, prima di scacciarlo dalle terre dell’Est, gli ho concesso novantanove vite, ma me ne sono amaramente pentito subito dopo. Lui può diventare pericoloso, molto pericoloso. A te, amico mio, affido un incarico di vitale importanza per tutti gli esseri viventi; segui le sue tracce, controllalo, combattilo, se necessario, fino alla fine delle novantanove vite: sei l’unico che può farlo. E soprattutto difendili, sai a chi mi riferisco.»

    E fu così che Paschmir partì per assolvere il suo compito. Ma nonostante ciò, Wung non era tranquillo. Parlò a lungo con Choi e alla fine decise:

    «Paschmir non potrà sempre contrastarlo, lui si nasconderà, userà tutti i poteri che nel frattempo avrà imparato a controllare. Devo fare un’ultima cosa,» disse rivolgendosi alla sua compagna. Usando le sue doti magiche, scrisse nel Grande Libro d’Oriente e le sue lacrime fecero da inchiostro, in modo che gli eletti dal cuore puro potessero, leggendo, capire come fare.

    «Servirà una notte di luna piena durante un equinozio, quando il giorno finisce e prima che ne sorga uno nuovo. E ora tutto quanto era in mio potere è stato fatto!» esclamò Wung addolorato.

    «È stato difficile, ma so che hai fatto il giusto affinché la nuova stirpe sopravviva e si diffonda!» lo rincuorò Choi. Poi, sempre rivolgendosi a Wung chiese: «Ma come faranno i puri di cuore a trovarlo?»

    Wung sospirò e rimase in silenzio per un attimo, quindi rispose alla domanda:

    «Sarà il libro a trovare loro».

    «Questo è pericoloso, lo sai vero?» disse Choi. «Se finisse nelle mani...»

    Wung non le diede la possibilità di finire la frase.

    «Non accadrà!»

    img4.jpg

    Le luci in casa Wolf si erano spente da poco. Le lancette del grande orologio a pendolo che troneggiava nell’ingresso segnavano le dieci e quarantacinque della sera; il silenzio si era impossessato di tutte le stanze. Quella della famiglia Wolf era una vecchia casa disposta su due piani. Al piano terra c’era un grande ingresso da cui si poteva avere accesso alla cucina, alla sala da pranzo, al salotto e a un’altra stanza più piccola delle altre che la signora Wolf utilizzava come studio.

    Al piano superiore avevano la loro sede le camere da letto, tre per la precisione, una piccola biblioteca e due bagni, uno molto grande e l’altro più piccolo. Attraverso un’angusta scala a pioli che stava in fondo al corridoio e che, grazie a un gancio, si poteva tirare giù sino al pavimento, si accedeva alla soffitta composta da due enormi stanze molto basse. Come tutte le soffitte, anche quella era diventata il regno delle vecchie cose che, di anno in anno, si accumulavano.

    Un tappeto di color rosso sangue era adagiato lungo l’intero corridoio del piano superiore e poi correva giù per le scale sino all’ingresso.

    L’ingresso aveva sempre esercitato un certo fascino su chiunque era stato in casa Wolf. Effettivamente, mostrava una certa imponenza; le sue dimensioni (dieci metri di lunghezza, sei di larghezza, quattro d’altezza) erano quanto meno inusuali per un ingresso. Il pavimento era in legno scuro, scricchiolante in alcuni punti come si conviene a una vecchia casa; sulla parete a sinistra della porta d’ingresso stava il maestoso orologio a pendolo, sotto un vecchio mobile color mogano; al centro, un grande tavolo rotondo in legno massiccio di quercia con quattro sedie contribuiva a dare al tutto un tocco di maestosità; due divanetti in velluto giallo muniti di cuscini colorati posti rispettivamente sulla parete di destra e di sinistra in modo simmetrico tra loro, mitigavano l’austerità e l’imponenza dell’ambiente. Insomma, una nota d’allegria lì ci stava proprio bene.

    Sulle pareti erano appesi cinque quadri: due erano ritratti di nobildonne del passato, uno raffigurava una scena di caccia, un altro mostrava un bellissimo paesaggio di montagna, mentre nell’ultimo era dipinta una scogliera con il mare in burrasca. Davvero splendido quello! Per dimensioni il più grande, era stato dipinto con tanta maestria che passandoci accanto si aveva quasi l’impressione che da lì potessero uscirne degli spruzzi d’acqua salata.

    La casa era dei nonni del signor Arthur Wolf, per molti anni era stata chiusa in quanto i suoi genitori avevano preferito abitare altrove. Ma dal giorno del suo matrimonio, quella era diventata la casa dove mettere su famiglia. La signora Wolf se n’era innamorata immediatamente e fu felicissima di andarci a vivere.

    Catsville era un tranquillo paese adagiato tra pianure e boschi nel sud dell’Inghilterra; non succedeva mai nulla che fosse fuori della norma, casette basse tutte più o meno simili, giardini ben curati, gente tranquilla senza grandi preoccupazioni. Insomma, un posto dove vivere tranquillamente o, come sosteneva qualcuno degli abitanti, dove annoiarsi in tutta pace. Il suo nome era un chiaro omaggio alla specie felina più amata dall’uomo: i gatti. Le storie che si erano tramandate sull’origine del nome variavano a seconda di chi fosse a raccontarle o in proporzione a quanta birra avesse ingurgitato. Tutte, comunque, facevano riferimento al tempo in cui Catsville era solo un minuscolo villaggio senza nome; pare che dei gatti randagi avessero salvato il raccolto dell’intero villaggio facendo strage di un’orda di grossi topi famelici spuntati chissà da dove e che rischiavano di lasciare i poveri abitanti senza cibo. Da quel giorno, i gatti furono adottati dagli abitanti e, per eterna riconoscenza, quest’ultimi decisero anche di chiamare il villaggio Catsville, appunto in onore degli amici felini.

    La signora Desdemona Wolf e suo marito Arthur si erano già addormentati dopo una lunga giornata di lavoro. Avevano appena avuto il tempo di scambiarsi la buonanotte e subito dopo galoppavano nel mondo dei sogni. Entrambi avevano il sonno molto pesante e una volta addormentati solo un’eruzione vulcanica di grande intensità o un terremoto del decimo grado avrebbero potuto svegliarli; ma lì nei paraggi non c’era nessun vulcano e la zona non era considerata a rischio sismico.

    Nella camera accanto, Thelma stava distesa sul letto, gettata lì come una pelle d’orso, il pigiama messo al rovescio, la treccia sfatta, i calzini rosa che a mala pena coprivano le caviglie. Sembrava reduce da una battaglia: lei contro il mondo e, a giudicare dalle apparenze, l’aveva persa. D’altra parte, a quattordici anni, si sa, la vita è perennemente in salita: i genitori con i loro divieti, rimproveri, raccomandazioni; la sorella minore terribilmente impicciona e che, appunto per il semplice fatto di essere la piccola di casa, va comunque sopportata con rassegnazione; gli insegnanti sempre pronti a interrogarti nei momenti meno opportuni, come se possedessero un occhio magico capace di scovarti proprio nel giorno in cui non hai studiato a sufficienza; le amiche e gli amici con cui litigare e far pace più volte nello stesso giorno; il fidanzato che si vorrebbe, ma che non c’è. O meglio, lui in carne e ossa ci sarebbe anche, peccato che non si accorga neppure che tu esisti. Insomma un vero stress.

    Anche la sua camera portava i segni inequivocabili dell’adolescenza galoppante: scarpe e vestiti sparsi qua e là; libri, quaderni, giornalini e peluche pericolosamente mischiati; poster e disegni alle pareti in gara tra loro a chi riusciva a rimanere appiccicato il più a lungo possibile; il computer sommerso da floppy vaganti disperatamente alla ricerca di un posto fisso in cui stare.

    In fondo l’ordine è un concetto relativo, sosteneva sempre Thelma, e poi gli artisti sono un po’ così, disordinati per natura, tra le nuvole, poco adatti a una vita inquadrata. E lei un po’ artista si sentiva, almeno per quanto riguardava l’ordine.

    Al piano di sotto, nella sua cesta collocata in cucina, Siggy ronfava beatamente. Pappa pronta, lettiera pulita, cuscini morbidi, lunghe dormite e coccole a volontà: che bello essere un gatto di casa. A proposito, il nome Siggy aveva una sua storia. L'idea di chiamarlo così era stata della signora Wolf. Lei era una psicologa, quindi sapeva tutto di un certo signor Freud, che era stato un grande psicologo austriaco. Quel signor Freud, di nome faceva Sigmund, ma la sua mamma, quando Sigmund era bambino, lo chiamava Siggy. Ed ecco spiegato il nome del gatto. Domitilla non aveva mai capito se quella raccontata dalla madre fosse una storia vera o inventata. La signora Wolf, inoltre, sosteneva che fosse un grande onore per il gatto chiamarsi Siggy, ma chissà cosa ne pensava l'animale.

    Siggy aveva poco più di un anno, ma la sua breve vita era già stata tormentata. La decisione di avere un gatto in casa non era stata presa all’unanimità. Quando arrivò il momento di affrontare con decisione la questione, quelle erano state le forze in campo: il fronte del SÌ era capeggiato da Domitilla, la piccola di casa, da sempre sostenitrice dell’idea di avere un gatto, e dalla signora Wolf che aveva tenuto una mezza conferenza sugli effetti benefici che l’avere un animale può provocare.

    «I bambini nell’accudire un animale imparano il senso di responsabilità e il rispetto per gli esseri viventi, e inoltre riescono a entrare in sintonia con loro meglio di chiunque altro e un gatto è l’animale ideale; senza contare poi che è scientificamente provato che coccolare un gatto rallenta il ritmo cardiaco e rende tutti, grandi e piccoli, più tranquilli.» Ecco le parole con le quali aveva concluso il suo efficace intervento.

    Il fronte del NO vedeva quale unico sostenitore il signor Arthur che riusciva a percepire solo gli aspetti pratici della cosa e, a suo dire, poco piacevoli.

    «Cara, non puoi sempre buttarla in psicologia. Ci sono bambini al mondo che devono affrontare traumi ben peggiori del non avere un gatto! E quando si va in vacanza a chi lo lasciate? E se si mette a graffiare e mordicchiare divani, mobili, tende e quant’altro, chi pagherà i danni? Magari siamo pure allergici al pelo dei gatti, perché poi perderà un sacco di pelo, è scientificamente dimostrato. E le cacche? Io mi rifiuto assolutamente di pulirle.» Quelle erano le principali obiezioni che il signor Wolf portò per demolire la posizione avversaria.

    Thelma si collocava in territorio neutrale non avendo una particolare sensibilità nei confronti dei gatti, ma era pronta a concedere il suo voto all’una o all’altra fazione in cambio di vantaggi personali. Sta di fatto che quando si arrivò al momento cruciale della votazione, per non attirarsi le ire del padre e per mantenersi le simpatie della madre e della sorella, si astenne. Era chiaro a tutti che la sua posizione, di fatto, favoriva una fazione e gli sguardi che Thelma lanciò a quella vincente furono inequivocabili: Prima o poi passerò a riscuotere....

    Il risultato fu dunque: SÌ due voti, NO un voto, ASTENUTI un voto. La proposta era stata accolta, la famiglia Wolf si sarebbe dotata di un gatto. In fondo a Catsville quasi in ogni famiglia c’era un gatto. Il povero Arthur, ormai rassegnato, avanzò un’unica richiesta: che almeno il gatto, in quella casa dove il sesso femminile prevaleva, fosse maschio! La sua richiesta fu accolta; cinque giorni dopo Siggy faceva il suo trionfale ingresso.

    Domitilla si era preoccupata d’ogni dettaglio, inoltre l’aveva scelto personalmente: un bel gatto dal pelo rosso e dagli occhi verdi. Domitilla era al settimo cielo; si accollò tutto quanto potesse riguardare il suo gatto, dal veterinario, alla pappa, alla pulizia della lettiera, al gioco.

    In compenso Siggy le diede un bel po’ di preoccupazioni. In poco più di un anno era precipitato dal balcone, era stato azzannato da un cane, operato d’urgenza per un versamento intestinale, anestetizzato la seconda volta per il pietoso rito della castrazione, curato per un fastidioso raffreddore, salvato per un pelo dopo che si stava strozzando con una crocchetta gigantesca!

    Forse proprio a causa di tutte quelle vicissitudini, Domitilla amava il suo gatto alla follia e avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di garantirgli una vita tranquilla. Con lui ci parlava come se fosse una persona e la cosa sorprendente era che il gatto sembrava capirla alla perfezione.

    «Hai visto, Arthur? Cosa ti dicevo? I bambini sono straordinari con gli animali. Guarda tua figlia, non è un amore?»

    Di fronte a quelle parole il signor Wolf si sentiva in colpa per essersi opposto, a suo tempo, all’arrivo di Siggy. Effettivamente il gatto era molto docile e non aveva mai combinato danni in casa; inoltre, Domitilla aveva mantenuto la promessa di occuparsene e vederla così felice di coccolarsi il suo Siggy talvolta lo faceva commuovere.

    La cosa straordinaria era che Domitilla aveva un rapporto particolare con tutti i gatti; quello della signora Watson, la vicina di casa, le si strofinava addosso non appena ne aveva l’occasione; la gatta del signor Perkins, il meccanico di fiducia di suo padre, sembrava impazzire dalla felicità ogni qual volta lei passava dall’officina; e anche con qualsiasi gatto randagio, Domitilla riusciva ad avere un rapporto privilegiato.

    Per dirla tutta, Domitilla amava tutti gli animali: cani, cavalli, uccelli... uno dei pochi che proprio non poteva sopportare era la medusa, la odiava proprio! Forse a causa di un incontro poco piacevole che aveva avuto al mare, sta di fatto che le meduse le stavano antipatiche al punto tale che aveva inventato una specie di parolaccia. Spesso, quando qualcosa non andava per il verso giusto esclamava: Porcaccia medusa!.

    Quella sera Domitilla si rigirava nel letto con un pensiero fisso: il compito in classe di matematica! Il severo professor Kaiser l’aspettava l’indomani a braccia incrociate davanti alla cattedra con quella sua espressione imperscrutabile. Nessun comune mortale poteva riuscire a capire cosa stesse pensando il professor Kaiser; che fosse adirato o contento, lui manteneva sempre la stessa faccia seria. Tutto del professor Kaiser aveva un tono austero: il suo sguardo, la sua barba nera, i suoi capelli corvini, persino i suoi occhiali. Per non parlare del suo abbigliamento. In autunno e in inverno giacche e pantaloni andavano dal grigio antracite al nero, mentre le camicie erano rigorosamente bianche; in primavera sfoggiava qualche marrone, scuro ovviamente, mentre in tarda primavera, verso l’estate, aveva osato anche un verdone. Le battute sul suo modo di vestire, ovviamente, si sprecavano. C’era chi, a scuola, l’aveva paragonato a un becchino. Ma, qualunque fosse la stagione, ciò che non mancava mai nel suo look era il papillon: ne aveva di vari tipi e colori, anche se gli abbinamenti non erano sempre azzeccati.

    Diciamo che per Domitilla la matematica non era esattamente il suo forte, non che fosse una schiappa intendiamoci, ma preferiva altro. La storia era la sua passione, fare interviste, scrivere storie, immaginarsi chissà quali avventure, calarsi nei personaggi più famosi; ecco cosa le piaceva veramente. Aveva un sogno: fare la giornalista, d’altra parte un po’ impicciona lo era e quindi perché non sfruttare Madre Natura?

    C’era qualcosa d’altro che l’affascinava: i misteri, gli enigmi, tutto ciò che non si poteva spiegare in modo semplice. Andare alla ricerca di qualcosa, scoprire le verità nascoste; ecco un’altra cosa che le sarebbe piaciuto fare. In effetti, un’alternativa alla giornalista avrebbe potuto essere la detective. Era ancora troppo giovane per fare una scelta definitiva, ma, e di quello n’era certa, lei sarebbe diventata una di quelle due cose: detective o giornalista!

    Negli ultimi giorni anche per lei la vita si era fatta un po’ più dura del solito, da quando cioè le era capitato il dramma di dover portare l’apparecchio ai denti. Le condizioni della sua bocca non erano poi così disastrose e forse non sarebbe stato indispensabile intervenire. Ma i suoi genitori, su consiglio del dentista, erano stati irremovibili.

    «Tra qualche anno, quando tutti i giovanotti s’innamoreranno del tuo sorriso, ci ringrazierai,» le avevano detto e a nulla erano valsi i suoi tentativi di dissuaderli, ma a dieci anni è difficile pensare alle proposte degli spasimanti.

    L’unica consolazione era stato il discorsetto conclusivo del dottor Ledent.

    «Se farai la brava e lo metterai così come io ti ho detto, tra un anno può essere che te lo tolga! E poi guarda che splendido lavoro che ti ho fatto!» si gongolava tutto ammirando quell’ammasso di ferraglia.

    Il dottor Ernest Oliver Ledent! Domitilla lo considerava una specie di vampiro, sarà stato per l’aspetto, così alto e magro con la faccia secca secca e due canini affusolati che spiccavano quando sorrideva, ma non aveva un buon rapporto con lui. Inoltre, aveva un leggero tremore alla mano sinistra, ma, fortunatamente per lui e per i pazienti, gli attrezzi li teneva con la destra; certo l’idea che un dentista con la mano tremante le trapanasse dentro la bocca le creava non poco imbarazzo. E non era tutto, purtroppo!

    Qualche anno prima, in occasione del Capodanno, il dottor Ledent aveva maldestramente aperto una bottiglia di spumante: in buona sostanza s’era sparato il tappo nell’occhio destro. Il tappo aveva irrimediabilmente leso la retina e da allora da quell’occhio non riusciva più a vedere. Se lo si guardava con attenzione, si poteva facilmente capire che quell’occhio, ormai, era un inutile gingillo; così spento, fisso e triste, contribuiva a dare un ulteriore tocco di grigiore all’espressione del suo proprietario. Domitilla aveva fatto notare quella cosa ai genitori, ma il dottor Ledent era un caro amico di suo padre e quindi aveva dovuto rassegnarsi ad avere proprio quel dentista.

    «Non vorrai metterlo in imbarazzo facendogli notare queste

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