Il forno della marchesa e altri racconti
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Anteprima del libro
Il forno della marchesa e altri racconti - Roberto Sacchetti
Rigenerarsi o espiare
di Aldo Tanchis
«Non hai voluto la rigenerazione, non ti rimane che l’espiazione»: così l’enigmatica fanciulla Krimilth giudica il suo virtuale amante in Da uno spiraglio, ultima della triade di novelle di Roberto Sacchetti che vi proponiamo.
Una rigenerazione mancata fu quella patita dalla cultura italiana nel post-risorgimento, con conseguenti espiazioni di vario tipo, e che ancora sembrano riguardarci. Delusione politica e spirituale che si riverberò nell’opera di Sacchetti, autore di Entusiasmi, unico romanzo degno di nota sulle Cinque Giornate di Milano, che il grande letterato Gianfranco Contini avrebbe voluto vedere trasposto in film (siamo a metà Novecento).
Nel romanzo, che non ebbe tempo di rivedere, Sacchetti mostra le divisioni e le manovre tra varie sfumature di conservatori, liberali, socialisti, cattolici, avventurieri, profittatori, malfattori e via dicendo.
Nato a Torino nel 1847, laureato in legge, Sacchetti frequentò la scapigliatura piemontese e milanese. Patriota, nel 1866, diciottenne, fu volontario in Tirolo con Garibaldi, del quale mantenne vivo il culto, anche se poi ripiegò su posizioni più moderate. Nel 1874 diventò giornalista a tempo pieno e cominciò a pubblicare romanzi e racconti: «impaginava giornali dalle nove del mattino alle dieci di sera, e dalle undici di sera alle tre del mattino scriveva romanzi e novelle», ricordò l’amico Faldella.
Divenuto direttore del quotidiano Risorgimento, lo abbandonò per le posizioni sempre più reazionarie dei suoi finanziatori. Trasferitosi a Roma, vi morì di tifo nel 1881, a trentatre anni.
Le delusioni della Storia conferiscono un certo tono di ironico distacco alla prosa con cui Sacchetti dipinge, in Il forno della marchesa (1878), gli avvenimenti del 1799, quando i cosacchi comandati dal generale Suvarov invasero il Piemonte per cacciarvi i francesi. Ironia che non manca però di delicata partecipazione alle vicende del cinico fornaio Gironi e dell’ingenua Orsolina, che richiamano certi racconti di Edoardo Calandra, e hanno il merito di farci conoscere episodi quali le scorrerie delle ‘masse cristiane’ e dei brandalucioni, bande legittimiste e sanfediste che imperversarono in quei mesi tragici, guidate dall’ufficiale e avventuriero Branda de’ Lucioni. Invadendo le piccole storie di individui, famiglie e comunità, la Storia ne inchioda i destini a terribili prove.
"Migliore fra tutte, e veramente bella, è Vigilia di nozze: così Benedetto Croce giudicò la seconda novella, del 1879. Gianfranco Contini, che seppe dintinguere la poetica di Sacchetti da quella scapigliata, scrisse che
anche per noi, smaliziati dal ritmo dell'itinerario di Leopold Bloom, la marcia del flebotomo Siro Xerega nella regione del Bisagno s'incide con un'autentica suggestione poetica».
La visione distaccata, eppure ammaliante, di Sacchetti, descrive una fulminea coincidenza di rigenerazione ed espiazione. Ne è protagonista un ‘uomo qualunque’ , l’individualista Xiro, durante i moti mazziniani del 1833 a Genova. Una ‘questione privata’ viene al dunque insieme a una vicenda storica, e fonde, o confonde, atto intimo e atto patriottico. Vicenda che davvero, nella procedere pacato eppure come allucinato della seconda parte, rimane nella memoria del lettore.
Dello stesso anno è Da uno spiraglio, che invece gira intorno a suggestioni vicine a quelle del Tarchetti (del quale Sacchetti completò Le memorie del presbiterio). Si svolge tra il villaggio, le montagne e gli alpeggi di Gressoney, ambiente che conferisce ritmi rallentati e contemplativi a una romantica vicenda di vite anteriori (lo spiritismo furoreggiò in Italia fra i due secoli). Ha osservato Aldo Borlenghi che il ritratto dei protagonisti "si svolge, piuttosto che attraverso un intreccio, in un salire e definirsi della loro umanità come per velature successive […] È un racconto di incontri, di ansie, di memorie inespresse ma sofferte, e che pur si alimenta e svolge con la cristallina chiarezza con cui l'ambiente è presente sempre a regolar la prospettiva delle prove, degli incontri tra la cieca e il giovane.» E si legga a questo proposito la scena del ‘dialogo’ tra la fanciulla e il torrente.
La rigenerazione spirituale agognata dalla fanciulla è il pretesto per tratteggiare ancora una volta un’occasione di mancata rigenerazione (che in Sacchetti ne adombra anche una artistica, civile e politica).
Se Entusiasmi, pur con i suoi difetti, rimane il frutto più notevole di Sacchetti, la prosa pacata di questi racconti, anche nell’affrontare temi tragici, sa esercitare insieme un assorto straniamento e una fascinazione, il distacco e la partecipazione.
E, ne siamo sicuri, soprattutto il piacere di una buona lettura.
Nota del curatore
Siamo intervenuti minimamente sui testi, aggiornando alcuni usi desueti come i troncamenti (dié, fé) e pochi altri, senza intaccarne minimamente senso e struttura.
Il forno della Marchesa
I
Ad Asti, quando, alcuni anni addietro, fu demolito il vecchio forno vicino all'Oratorio di San Pietro, gli archeologi del paese inventarono le più contorte derivazioni per dichiararne il nome, anzi i nomi, perché erano due: gli uni lo chiamavano il Forno della marchesa, gli altri il Forno del Giacobino. Per il primo l'origine pareva bella e chiarita da una pietra del frontespizio che recava scolpito il cespuglio di canne, stemma gentilizio dei marchesi Riva di Tanaro, ed era d'avanzo per indurne un diritto di dominio più o meno antico d'investitura feudale, o semplicemente acquisito; tutta la questione stava lì. Dove un popolo immaginoso avrebbe trovato argomento per una poetica leggenda, i dotti astigiani, eredi in questo del pratico razionalismo latino, non vedevano che un rapporto giuridico. Ma l'altro: Forno del Giacobino, come si spiega? Questo era il nodo più difficile, occorrendo per
scioglierlo una precisa notizia dei fatti. E ad Asti, singolare contrasto, quanto sono durevoli gli edifizi, altrettanto sono labili le tradizioni. A vederla così fitta di torri merlate, annerite dal tempo, onuste di secoli e di storia, si direbbe città fra tutte devota alla religione delle antiche memorie. Che! Questo non è che il guscio, nel quale una popolazione, che par venuta ieri, laboriosa, faccendiera, vive ignara e noncurante del passato; e il passato è per lei tuttociò che non è oggi, un decennio come un millennio. In una città dove i maggiori avvenimenti hanno lasciato monumenti più che ricordi, dove si apprezzano tutti i commerci salvo quello altrove tanto profittevole e sfruttato delle tombe, dove non esistono ciceroni, dove non è mai venuto in mente a nessun oste di mettervi in conto la vicinanza della casa d'Alfieri, dove il Municipio, così sollecito nell'edificare mercati, non ha mai pensato al provento che potrebbe dargli un tourniquet messo alla porta del battistero di San Pietro e tutti ignorano che quello è raro e mirabile avanzo dell'arte longobarda - in un paese dove accanto al fuoco il nonno non conta fandonie, ma discute il prezzo medio delle uve e i nuovi metodi di concimazione, chi rammentava più la storia del vecchio forno?
Il causidico Grandi, ricco ingegno letterario, che la morte rapì troppo presto agli amici e che la procedura aveva da gran tempo ed irreparabilmente rapito alle lettere, fu il solo che avesse la pazienza di ricostituirla.
Egli notò come una volta fra i due nomi esistesse una sorta di opposizione, fossero quasi insegne di opinioni politiche diverse e contrarie. I vecchi codini del borgo di San Pietro dicevano Forno del Giacobino, e i vecchi liberali Forno della marchesa, e taluno nominava a termine di paragone spregiativo una Marchesa del Forno.
Ne arguì che entrambi avessero origini contemporanee della conquista francese. Era sulla pesta del vero: le indagini che con questo filo egli fece intorno ai proprietari di quel tempo lo condussero alla scoperta del Giacobino, nientemeno.
Era costui un Girolamo Atri, che il padre, medico, ricco di figliuolanza più che di clientela, aveva cercato di torsi dalle braccia e di buttare in quelle pietose di Santa Madre Chiesa, pensando che esso avrebbe fruito un doppio vantaggio: un beneficio di famiglia e la protezione dello zio canonico. Il ragazzo aveva delle buone disposizioni; il babbo per invogliarlo al sacerdozio e dargli un'alta idea delle sue attribuzioni gli aveva detto:
«Gironi, fa conto che è una professione in cui si mangiano arrosti e capponi».
Il bravo figliolo sentiva una tenerezza grande per questa grazia di Dio estremamente scarsa in casa sua.
Quanto ai doveri, il dottore aveva completato la definizione soggiungendo:
«Ecco qua, al mattino si dice messa con due dita di vino bianco per aguzzar l'appetito, e nel pomeriggio si legge il breviario per ingannare il tempo e far l'ora della cena».
Con queste istruzioni e con le benedizioni di fratelli e delle sorelle felici di veder scemata una bocca intorno all'arido tagliere paterno, e la bocca del più solenne diluvione, Gironi entrò in seminario.
Là si trovò subito mortificato per parecchi disinganni. Prima di tutto lo sorprese che, per una professione tanto comoda, bisognasse una così laboriosa preparazione. Poi ciò che lo scandalizzò addirittura fu la parsimonia del refettorio: ci si pigliava il Paternoster alla lettera e lo si commentava col Testamento Vecchio. Il pane quotidiano lo si doveva guadagnare col sudore della fronte, tranne l'inverno, che in cambio del sudore si avevano i brividi. Impossibile qualsiasi altra indigestione che di testi latini. Della cuccagna promessa neppure la più vaga informazione. Pensò che fosse una specie di terra di Canaan, che per arrivarvi si avesse ad attraversare un grande deserto; si serrò i lombi, tanto più che i calzoncini gli divenivano larghi uno sproposito. E sì che non era stato grasso mai!
Però il babbo lo trovava nudrito