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La versione di Abbondio
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E-book504 pagine6 ore

La versione di Abbondio

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Info su questo ebook

Calvino ha scritto che nei Promessi Sposi sono contenuti tanti altri romanzi possibili. È la sfida di scrivere una di queste possibili varianti che ha accettato Nino Raffa, costruendo una storia moderna e inquietante, malgrado l’ambientazione secentesca.
La storia dei Promessi Sposi sarebbe stata diversa, se diverso fosse stato don Abbondio? Se invece di essere il prete pavido e ignorante tratteggiato da Manzoni, don Abbondio fosse (forse) il figlio naturale di Giordano Bruno e l’amante di una conturbante Perpetua? E se il cardinal Federigo Borromeo avesse come preoccupazione principale quella di essere dichiarato santo, per non essere da meno del cugino Carlo, pur avendo una ben diversa statura morale?
In un mondo ove la “ragion di Stato” viene facilmente piegata a interessi di parte (e cosa c’è di diverso rispetto all’oggi?), dove si manipolano le persone e le informazioni (oggi si adottano roghi e torture con tenaglie virtuali, ma non è cambiato molto da 400 anni a questa parte), che ne è di Dio?
Il gatto Merlino, da vero saggio, sta a guardare il teatrino quotidiano degli umani.
LinguaItaliano
Data di uscita18 nov 2020
ISBN9788855390774
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    Anteprima del libro

    La versione di Abbondio - Nino Raffa

    collaborazione.

    PREMESSA

    Lo stesso scheletro [dei Promessi Sposi] avrebbe potuto servire un libro tutto diverso, per esempio un romanzo nero: gli ingredienti e i personaggi per mettere su addirittura un Sade, a base di castelli, supplizi e conventi perversi, ci sarebbero stati se Manzoni non fosse stato allergico alla rappresentazione del male.

    (Italo Calvino)

    L’idea di romanzare i Promessi Sposi è nata davanti al dipinto di Jan Vermeer «La lettera» conservato a Dublino. Del maestro di Delft rimangono meno di quaranta opere, in genere con protagoniste femminili che nella sospesa intimità delle loro stanze leggono, scrivono, fanno di conto o suonano strumenti musicali.

    Lucia nel capolavoro manzoniano invece è analfabeta; e con ogni probabilità lo sono quasi tutte le donne del romanzo. Nulla di strano. Manzoni ritrae la provincia lombarda rurale sotto la dominazione spagnola intorno al 1630; Vermeer, l’Olanda borghese, mercantile e repubblicana di qualche decennio dopo.

    «La Versione di Abbondio» tenta di raccontare la stessa storia dei «Promessi Sposi» – lo scheletro radiografato da Calvino – cambiando i caratteri (anche fisici) di alcuni personaggi centrali; in un gioco che applicato alla vita vera ridimensionerebbe il nostro peso nelle vicende di cui ci crediamo artefici.

    L’esito ha riservato sorprese allo stesso autore. Alla fine Lucia è rimasta l’operaia incolta dell’originale, mentre inedite protagoniste – abili con le lettere, ma non solo – sono emerse spontanee dalla trama. Donne che forse sarebbero piaciute a Vermeer.

    Naturalmente anche ai personaggi maschili sono toccate analoghe trasformazioni; sempre confidando nell’indulgenza del buon Manzoni cui non difettavano umorismo e gusto del paradosso.

    N. R.

    1. L’icona del Battista

    [mar. 7 nov. 1628]

    … nunc et in hora mortis nostrae. Amen.

    Viene la nostra morte e così sia. E poi arriva la resurrezione. Diciamo.

    Il secondo martedì di novembre dell’anno di grazia 1628, un uomo tornava dal cimitero lungo una stradina di campagna, in litigiosa compagnia dei suoi pensieri.

    Non può esserci resurrezione senza morte. Ma non vale il contrario. La morte immagina ma non realizza, né garantisce, la resurrezione.

    Serve la fede. Diciamo.

    Don Abbondio trasse un respiro profondo. L’aria fresca e lo specchio metallico del lago incassato ai piedi delle montagne non gli restituivano l’atteso sollievo. Anche quel pomeriggio, strette nel mantello nero, la personale indole ultraterrena e la terrenissima forma di uomo di chiesa faticavano a camminare insieme.

    Cercò in lontananza il campanile. Sui pendii circostanti figurine chiare di contadini convergevano lente verso il paese. In coppia oppure soli, la vanga in spalla, conducendo un mulo, una capra o un cavallo, la sua gente tornava al focolare. E il cadere del giorno sapeva d’una brutta pace: di quella calma temibile e premonitrice che già intravede la disgrazia.

    Ogni tempo declina il suo male secondo una certa moda. In quell’inizio secolo – tra un trionfo e una disfatta se n’era già consumato quasi un terzo – nel mondo, cioè in Europa, erano in voga le guerre tra cattolici e protestanti per l’esclusiva dell’unico vero Dio. Ma più complicati erano i costumi dei sovrani, e così, dalle parti di Casale, Sua Maestà Cattolica di Spagna sfidava la non meno cattolica Maestà di Francia e il suo cattolicissimo primo ministro cardinale Richelieu; stava tra loro il duca di Savoia, altro devotissimo figlio di Santa Romana Chiesa; e soprattutto c’era di mezzo il papa stesso: parte, paciere e istigatore, uno e trino come Colui che diceva di rappresentare in terra.

    E del resto in Germania gl’imperiali combattevano sì gli eretici boemi, ma questi erano alleati dei turchi – in teoria nemici mortali d’ogni cristiano – sodali, a quanto pareva, d’un altro cristianissimo principe di Transilvania.

    Vanità delle vanità... nulla di nuovo sotto il sole. Nei tempi passati, i crociati di Terra Santa non s’erano scannati tra loro a vantaggio del sultano? – concluse Abbondio – intravedendo per paradosso nello scomporsi di fedi e alleanze la felice possibilità d’un Dio pacifico e disarmato. Padre incompreso e travisato, e proprio per questo unico genitore di tutti i suoi figli scellerati.

    Conosceva così bene la stradina srotolata tra i vigneti che quasi non guardava per scansare buche e inciampi. Il breviario distratto tra le mani, passava da un pensiero all’altro mentre il grigio dei monti cominciava a sciogliersi nell’imbrunire.

    Se fino ad allora il lontano insanguinarsi di eserciti e popoli oltre le Alpi gli aveva ispirato metafisiche considerazioni, adesso le cannonate nel vicino Monferrato lo investivano di più concreta responsabilità per le anime che gli erano state affidate.

    A primavera, in autunno al massimo, ci piomberanno addosso dai valichi le truppe imperiali: feroci, affamate, malpagate, autorizzate al saccheggio in cambio del soldo incerto. Si deve pensare a riparare la gente, nascondere cibo e cose di valore; e bisogna lasciare un minimo di bottino, altrimenti quelli per vendetta sono capaci di distruggere pure le pietre. Comunque case distrutte e paesi in fiamme non si potranno evitare: bisogna già metterli in conto e inventarsi qualche rifugio per l’inverno...

    Il viottolo scendeva adesso tra due muretti di pietra, biforcandosi poco più avanti. Dall’alto vide due ceffi appostati al bivio. Lunghe zazzere ricciute, cappelloni piumati, abbigliamento sgargiante anche per quei tempi vistosissimi, i bravi di Rodrigo avevano poggiato al muretto gli attrezzi del mestiere. Lunghi e sottili, simili da lontano a falci o vanghe, più probabile fossero moschetti. Posizione comunque confortante: si sarebbe minacciato e non sparato. O almeno non si sarebbe sparato subito.

    Il bivio era segnato da un tabernacolo mezzo diroccato nel quale s’indovinava ancora un Giovanni Battista disteso per terra, col collo rassegnato al carnefice. Risalente ai tempi antichi, testimoniava l’universale devozione verso il cugino e precursore di Nostro Signore, e insieme ammoniva – Abbondio sorrise – a non immischiarsi in questioni matrimoniali contro le illecite voglie di un potente.

    La messa in scena era nel suo temperamento. Gli occhi sul breviario, rallentò il passo recitando i vespri a mezza voce, più alta e scandita del solito. Non che confidasse in quei mezzucci, oppure attendesse aiuto da Qualcuno. La calma gli veniva più dall’orgoglio che dal coraggio; e non l’orgoglio dell’uomo Abbondio o l’altro dell’abito, ma quello, praticamente fatto di niente, della filosofia in cui s’era concentrato il poco di sé che gli rimaneva. Il mondo accade ottuso, desolato e incolpevole. Nella maggior parte dei casi non possiamo farci niente: le parti sono già scritte e al massimo un buon attore può permettersi qualche breve improvvisazione.

    «Beatus vir qui non abiit in consilio impiorum et in via peccatorum non stetit et in conventu derisorum non sedit…»

    Era ormai a pochi passi quando quello che stava seduto sul muretto balzò giù a sbarrare il passo. Di stazza ragguardevole, pagò l’acrobazia con una smorfia affaticata.

    «Signor curato, ha un attimo per noi?» disse Griso portando d’istinto le mani al cinturone di cuoio.

    Breviario contro moschetto, latino contro pistole, Abbondio non era l’unico a recitare.

    «Certo, figliolo» rispose simulando un minimo stupore.

    «Corre voce che domani volete celebrare un matrimonio…» andò subito al sodo il bravo.

    «E ti sembra strano, figliolo? In fondo è il mio mestiere, un po’ come per te aspettare chi passa…»

    «… e magari ficcargli una palla in corpo…» continuò l’altro in tono leggero, discordante col brutto cipiglio.

    «Sì, può capitare. Fa parte delle nostre vocazioni: tu di sparare e io magari di fare il bersaglio» replicò il prete affatto intimidito.

    «Scherzavo, signor curato! Non lo dica… che ci ha preso per delinquenti? Per quei bravi di cui tutti parlano ma che nessuno ha mai visto dalle nostre parti?»

    «No di certo! Lo sanno tutti che i bravi non esistono più, debellati dai nostri valenti governanti e dalle loro leggi» ironizzò Abbondio, alludendo agli editti sempre più feroci che vietavano di assoldare furfanti e mai ce n’erano stati tanti e impuniti in circolazione.

    «Parole sante, signor curato!»

    Misto d’innocente abitudine e calcolata intimidazione, estrasse un coltellaccio dalla tasca dei calzoni cominciando a giocarci. «E per tornare ai nostri affari, c’è un certo matrimonio che domani non dovete fare.»

    «E perché non dovrei?»

    «Non dovete e basta. Con le buone o le cattive, a vostra scelta.»

    «Se non io, lo celebrerà un altro. Pensate di minacciare tutti i preti dello Stato di Milano?»

    Abbondio cercava di smontare la minaccia allargando il caso; ma l’altro era ben istruito.

    «Non provate a lavarvene le mani come Pilato. Non dovete neppure concedere il permesso a sposarsi da un’altra parte. Il matrimonio di Renzo Tramaglino e Lucia Mondella non si deve fare né nella vostra chiesa, né al convento, né in capo al mondo. Ditelo pure a frate Cristoforo di non mettersi di mezzo; se prova a sposarli al posto vostro può già scavarsi la fossa! È chiaro?!»

    Griso s’era fatto sinceramente minaccioso.

    Il curato tenne fermo lo sguardo. Di quei gentiluomini sapeva parecchio per l’ormai lungo ufficio da quelle parti, non di rado trascorso a benedire morti ammazzati. L’altro – soprannominato Tiradritto – finora zitto a spalleggiare il compare, addirittura lo aveva battezzato. Circostanza ininfluente: se Rodrigo glielo avesse ordinato, quel bel tipo lo avrebbe sbudellato e scaricato in un fosso senza pensarci.

    Ma Abbondio era sempre più convinto che quella scena di cappelloni e piume, spade, pistole e pugnali, al momento servisse solo a spaventarlo.

    «E quindi don Rodrigo ha bisogno del mio permesso per prendersi Lucia? E tu Griso per portargliela?»

    «Cosa intendete?»

    «Quello che ho detto.»

    «Non è affar vostro, obbedite e basta.»

    «Non sarebbe affar mio il matrimonio?»

    L’altro emise una specie di grugnito che Abbondio finse di prendere per congedo.

    «Salutami il padrone.»

    Scartò di un passo, ma Tiradritto si parò davanti. Tanto vicino da sentirne il puzzo di vino.

    «Signor curato, non avete capito.»

    «Ho capito benissimo, messer Tiradritto. Sei tu che non ricordi. Eppure aiutavo tua madre Consolata quando giù nella vecchia stalla non c’era da mangiare per te e i tuoi fratelli. Mi pentirò di non averti fatto morire di fame? Dovresti pure ricordare che solo grazie a me lei riposa in terra consacrata…»

    Era solo una parte – la più confessabile – di certi vecchi fatti. Molto tempo prima, appena arrivato nel borgo, Abbondio aveva aiutato Consolata e lei s’era sdebitata nell’unico modo possibile. Lui non aveva chiesto, ma volentieri aveva accettato. Anche per questo, quando poteva, allungava le passeggiate fino alla collina.

    Il curato indicò la facciata punteggiata di tombe sulla sinistra, e gli altri due si girarono come costretti ad accompagnare il suo sguardo in lontananza.

    Tiradritto aveva fatto mezzo passo indietro. Abbondio osservò gli occhi marroni, il colorito bruno, i lineamenti marcati, che nonostante la barba mal rasata e i baffoni incolti, conservavano qualcosa d’infantile. Senza volerlo, stava cercando una traccia. Uno specchio. Scacciò il pensiero.

    «Cosa devo riferire al padrone?» chiese Griso.

    «Faccia quello che gli pare e così farò io.»

    Il bravo fece segno all’altro di lasciarlo passare.

    Abbondio si era allontanato di qualche passo quando Griso lo richiamò.

    «Una parola ancora…»

    «Sentiamo» rispose senza voltarsi.

    «Su questa storia la penso come voi. Se comandavo io, tutto era stato già fatto senza chiedere a nessuno. Lucia è una bella pollastrella, e magari a quest’ora don Rodrigo s’era già stancato e l’avremmo assaggiata anche noi. Ma il padrone è lui e si fa come vuole.

    «Una buona serata, signor curato. Dormite bene, ma state attento: un errore su questo matrimonio vi costerà molto caro!»

    Abbondio riprese la strada riaprendo meccanicamente il breviario.

    Rodrigo è un idiota, concluse senza appello superando le prime case del paese. S’incapriccia di un’operaia e viene a dirlo a me, il curato, facendo pure attenzione a procurarsi due testimoni. Potrebbe prendersela a piacimento, forse anche con le buone e qualche regalino, oppure con le cattive, e nessuno ne chiederebbe conto. Idiota senz’altro. Invece di passarsi il capriccio viene a chiedermi una specie di sacramento al contrario: il matrimonio non si deve fare. Se anche i farabutti come lui hanno cominciato a credere ai sacramenti, che per violarli hanno bisogno del permesso dei preti, fanno bene i protestanti che i sacramenti li vogliono cancellare. Comunque il problema adesso è mettere al sicuro Lucia. Fino a domani Rodrigo e i suoi sgherri non faranno niente, ma dopo bisognerà inventare qualcosa. E lo dovrà sapere meno gente possibile, perché, comunque vada, la colpa sarà sempre di Lucia.

    Accompagnato da quest’ultimo pensiero passò dall’osteria a comprare il vino per i suoi vecchi.

    In quell’autunno ne ospitava già mezza dozzina in una casa sulla piazzetta del piccolo borgo. L’ospizio di don Abbondio era famoso in quelle valli per avere sempre un letto, una minestra e un bicchiere di vino per chiunque; senza obblighi e orari, a differenza del vicino convento francescano con le sue regole severe.

    Quando il curato entrò, i vecchi stavano consumando la zuppa cucinata da Perpetua su un tavolaccio accanto al camino. Lei era già andata via.

    Un fuoco vivace riscaldava l’ambiente. Si sentì rinfrancato dal tepore e dalle feste che gli fecero; nonostante l’ora tarda si tolse il mantello, fermandosi a bere e ascoltare qualcuna delle loro incredibili storie.

    Col suo dialetto che suonava quasi arabo, il vecchio Nino raccontava del saccheggio di Reggio Calabria da parte di Barbarossa e delle sue nozze con la figlia del governatore della città – la bellissima Flavia, cinquant’anni più giovane – di cui il vecchio pirata s’era perdutamente innamorato.

    Abbondio provava particolare simpatia per quel vagabondo siciliano che fantasticava di essere stato minatore a Potosì e incantatore di serpenti a Goa; e giurava di aver navigato con Cristoforo Colombo, onore per il quale gli sarebbero serviti centocinquant’anni. Eroe d’infinite storie raccattate e cucite insieme in una vita di strada, Nino ogni primavera prometteva di tornare alle rive della sua Messina, ma ogni autunno era il primo a presentarsi in quel rifugio ai piedi delle Alpi.

    La compagnia aveva dissipato il cattivo umore. Tornò in canonica che era buio. Merlino stava di guardia accovacciato sulla panca dell’ingresso. Sentendolo entrare, sollevò la testa con l’aria severa del padre che rimprovera il figlio ritardatario e poi tornò a sonnecchiare.

    Illuminata da una lampada, Perpetua stava facendo i conti di casa seduta al tavolo della cucina. Abbondio le allungò un foglietto.

    «Il conto dell’osteria.»

    «Oggi ho pagato il carbonaio, la cassa è vuota» rispose lei lasciando cadere la penna con un sospiro.

    «Ci penserà la Provvidenza» disse lui baciandola.

    «Dite sempre così, ma potreste dare almeno una mano alla Provvidenza! Siete l’unico prete che non chiede mai offerte ai parrocchiani, e quando ricevete qualche soldo lo date subito in elemosina come se vi bruciasse nelle tasche!» lo rimproverò bonaria.

    «Se avessi voluto arricchirmi avrei fatto il commerciante.»

    «Meglio di no! Sareste andato subito in rovina!»

    «Avete ragione! Forse gli affari non sono il mio forte...»

    «Ma almeno potreste riscuotere i fitti della parrocchia.»

    Era una discussione presa mille volte.

    «Sono brutti periodi. I contadini sopravvivono a malapena, figuriamoci se dovessero pagarmi gli affitti.»

    «Voi l’affitto non lo riscuotevate neppure prima.»

    Perpetua cominciò a scorrere una lunga lista.

    «Filippone, quello del podere di Pasturo, non vi paga da quattro anni.»

    «Ha dieci figli…»

    «E Gaspare, quello a cui avete dato il bosco sopra Moggio?»

    «Peggio ancora: tre mogli e i figli non si contano…»

    «Sono tutte scuse: quello vende la vostra legna ai veneziani.»

    Ad Abbondio sfuggì un sorriso d’ammissione.

    «Può darsi… ma del resto anche voi non fate pagare pomate e pozioni alle comari.»

    «È diverso! Quelle sono veramente povere, mentre i vostri affittuari ne approfittano.»

    «Anche qualcuna delle vostre amiche s’è rivenduta i medicamenti…»

    «Per bisogno. E poi è successo una volta sola.»

    «Non vi preoccupate, per andare avanti venderemo qualche libro.»

    «Già l’abbiamo fatto lo scorso inverno; di questo passo li darete via tutti.»

    «Venderemo qualche opera proibita che grazie ai nostri bravi inquisitori adesso vale molto di più. Ci sono libri che solo tre o quattro hanno letto, e pure dimenticato perché non valevano niente. E appena vengono messi all’indice tutti cercano, e se ne comincia a dire un gran bene come l’opera d’un genio perseguitato dalla Chiesa.»

    «Non voglio» insistette lei. «Per raccogliere un po’ di soldi preparerò qualche pozione in più e me la farò pagare.»

    «Non ci credo… Pensavo piuttosto a quell’antipatico professore fiorentino... sì, venderemo qualcuno dei suoi libri e basterà per noi e i vecchi tutto l’inverno.»

    «Stavolta non ve lo permetterò! Per voi i libri sono importanti.»

    «Una volta magari sì, adesso molto meno.»

    «Non è vero.»

    «Alla fine, cara Perpetua...» le sfiorò affettuosamente il naso con l’indice «dopo millenni le idee sono sempre quelle, e tutti le rimasticano dandosi arie da sapienti. Prendiamo ad esempio questo fiorentino che venderemo: fa il gradasso perché secondo lui la terra gira attorno al sole, cosa che già sapevano i greci. Letto uno scaffale di libri è come averli letti tutti; e se per caso salta fuori qualche idea originale c’è pure da preoccuparsi. Con la nostra abilità a farci del male, ogni pensata nuova, magari all’apparenza innocua, può produrre catastrofi inimmaginabili!»

    Lei scosse la testa. Lo conosceva bene: quand’era alle strette svicolava nella filosofia.

    Chiuse la boccetta di peltro dell’inchiostro, raccolse i fogli dei conti e li ripose in una scatola di legno.

    «Ne riparliamo. Adesso andate a rinfrescarvi mentre riscaldo la minestra» disse accarezzandolo con un sorriso.

    Abbondio entrò nello studio facendosi luce con la lanterna. Doveva riferirle la novità e non l’avrebbe presa bene. Ma l’indomani sarebbe stato peggio.

    Indossò la veste da camera sopra la tonaca e lavò le mani nel catino d’acqua fresca che lei gli faceva trovare sul marmo della finestra ogni sera. Quindi accostò il lume al ritratto appeso tra le librerie, soffermandosi su un’urgenza che non poteva aspettare il mattino.

    Sì, è possibile. Che ci sarebbe di strano? Cosa cambierebbe?

    Riappese la lampada al gancio, guardò per un attimo il grande crocifisso di legno poggiato sulla scrivania e passò in sala da pranzo.

    «È stato un pomeriggio movimentato.»

    «Non vi dico il mio! Con la canonica da rassettare, i vecchi a cui badare, per non parlare di Ambrogio che mi gira sempre intorno e chissà cosa gli passa per la testa...» scherzò lei servendo la zuppa.

    «Avevate ragione» continuò lui serio.

    «Su cosa avevo ragione?»

    «Le voci su Lucia Mondella...»

    «Lo sapevo! Quel bastardo di Rodrigo le ha messo gli occhi addosso!» s’accese Perpetua, e ci voleva poco a infiammarle la pelle chiarissima. «Cos’ha combinato quel figlio di cagna?»

    Abbondio tracciò sul cibo il segno della croce.

    «Benedic, Domine, nos et haec tua dona, quae de tua largitate sumus sumpturi, per Christum Dominum nostrum.»

    «Amen» rispose lei segnandosi nervosa.

    «Ho incontrato Griso e Tiradritto… che mi hanno invitato, diciamo così, a non celebrare il matrimonio.»

    «Fottuti bastardi! E adesso cosa farete?»

    «Penso che per il momento seguirò il cosiddetto consiglio» disse lui sorbendo la minestra.

    «Intendete obbedire?!» insorse Perpetua.

    «Dobbiamo capire cosa sia meglio.»

    «Le nozze sono domani!»

    «Lo so.»

    «Non c’è tempo!»

    «Lo so.»

    «Come fate a mangiare tranquillo, come se nulla fosse?!»

    «Adesso non possiamo fare nulla.»

    «Domani dovete andare subito dal cardinale! Presto. All’alba! Gli basterà mandare qualcuno o scrivere due righe a Rodrigo e quel vigliacco si ritirerà con la coda tra le gambe. Al massimo sarete di ritorno nel pomeriggio, possiamo spostare l’orario delle nozze, ci penserò io ad avvisare tutti!»

    Abbondio poggiò il cucchiaio sul bordo del piatto. Prese il candelabro dal centro della tavola e lo avvicinò per fissarla meglio. Il riflesso faceva degli occhi di lei due laghi in fiamme.

    «Dovrei correre da Borromeo per accusare Rodrigo?»

    «Sì certo! È quello che dovete fare!»

    «Don Rodrigo, nipote di un membro del consiglio segreto, intimo amico del castellano di Lecco, a sua volta figlio d’un favorito del duca d’Olivares, primo ministro di Filippo IV.»

    «E allora?» sfidò lei. «Il cardinale non si fa intimidire dai potenti.»

    «Così si dice...»

    «Quando saprà di quell’animale, interverrà senza guardare in faccia nessuno!»

    «La realtà è un’altra: Borromeo è molto attento alla politica.»

    «Difenderà Lucia!»

    «Non lo conoscete.»

    «In ogni caso cosa rischiate?» insisteva lei, sempre più esasperata. «Il cardinale proteggerà anche voi.»

    «Borromeo lo conosco bene… sì, potrebbe intervenire… ci tiene ad apparire dalla parte del popolo, all’altezza di suo cugino. Ma questo è un caso diverso.»

    «Non c’è nessun caso diverso! Sposare Renzo e Lucia è un vostro dovere! Vostro e del cardinale!»

    Abbondio per un attimo sembrò bloccarsi sviando per un’altra linea di pensieri. Le rispose solo dopo qualche momento d’incertezza.

    «Il cardinale è lontano. Dopo, chi salverà Renzo e Lucia dalla vendetta di Rodrigo? Magari non subito, ma una fucilata a Renzo e di peggio a Lucia non ci sarà cardinale che potrà evitarle.»

    «Non è che siete voi ad avere paura?!» chiese lei implacabile.

    «Se è per questo» ribatté Abbondio «noi abbiamo ben altro di cui preoccuparci. Cominciamo dai nostri rapporti di cui, anche se non ci facciamo più caso, continua a parlare tutto il paese. È il primo punto su cui Rodrigo potrebbe colpirci, e neppure il più pericoloso. Conosciamo tutti la passione di Borromeo per le streghe e quanto ami apparecchiare bei falò con la loro carne; come la mettiamo con gli unguenti che regalate alle comari? Quanto pensate ci vorrà prima che una denuncia arrivi all’inquisitore?»

    «Che c’entrano i miei unguenti con l’inquisizione?! Sono solo erbe e decotti per guarire i dolori, preparati con le ricette di mia nonna!»

    «Lo spiegherete all’inquisitore, anzi dovremo spiegarlo insieme appesi alla corda. E sarebbe solo l’inizio…»

    «Ma io non sono una strega!» protestò Perpetua incollerita dalla ragione geometrica di Abbondio.

    «Perché sono streghe quelle disgraziate che vanno sul rogo? E volano sulle scope nelle notti di luna di piena? E partecipano ai sabba infernali, indemoniate? E si accoppiano con Belzebù contro natura?»

    Le avvicinò ancora il candelabro.

    «Una volta tanto, ragionate senza farvi prendere dalla passione. In questo pasticcio ci sono tante cose da considerare. Non li abbandoneremo ma non possiamo neppure buttarci allo sbaraglio: abbiamo troppi punti deboli.»

    «Per non darla vinta a Rodrigo sono disposta a finire sul rogo! Accada quello che accada! Se non andate voi, dal cardinale ci vado io!»

    Abbondio sapeva che sarebbe stata capace di farlo. Fatto rarissimo, il semplice pensiero gli fece perdere la calma.

    «Anche voi avete visto le carni straziate e i corpi slogati dalla tortura, anche voi siete stata nelle piazze assetate di sangue e avete sentito le grida inumane, l’odore acre della carne bruciata, l’eccitazione bestiale della folla! Anche voi conoscete quell’orrore! Toglietevi dalla testa certe pazzie!»

    Non aveva più voglia di mangiare. Si alzò di scatto e prese la lanterna poggiata sulla madia.

    «Non potete scappare! Qualcosa dovete fare!» gridò lei. Le lacrime moltiplicavano il bagliore dei suoi occhi. «Se non da uomo, dovete farlo da prete. Che prete siete?! Non scappate! Adesso andrete a guardare le vostre maledette stelle! Non cercate in cielo le risposte di questa terra!» continuava a incalzarlo fuori di sé.

    Lui si fermò.

    «Che io sia un cattivo prete è l’unica cosa su cui stasera avete ragione. Anche il cielo sarebbe il mio mestiere, ma so pochissimo pure di quello.»

    Passi pesanti rimbombarono sui gradini di legno che portavano al piano superiore. Nella sua stanza, Abbondio aprì la finestra sulla notte quieta. Il borgo dormiva sotto il lume opaco della luna. Dal solito spiraglio tra le case andò a cercare il luccichio del lago in lontananza.

    Diresse il cannocchiale sulle montagne e i crateri della luna. Il cielo non era incorruttibile come avevano sperato gli antichi. Nella sua trama c’erano gli stessi buchi e strappi e toppe che sulla terra; era solo la lontananza a farlo sembrare perfetto, ma a guardarlo bene cadeva ogni poesia.

    Girava a caso nel firmamento che quella sera non diceva niente.

    Sentì freddo; abbassò il cannocchiale e chiuse la finestra. Tolse gli abiti, indossò la camicia da notte e si mise sotto le coperte senza spegnere la candela.

    Tra le lenzuola ruvide il suo stesso calore non lo riscaldava. Ripensava alle ultime ore. Al bene chiaro, e al male che da quel bene poteva discendere. Girando a vuoto senza avanzare nella decisione, rivide gli occhi infiammati di Perpetua ed ebbe voglia di lei.

    Tra le sciocchezze della natura, si disse, c’è pure la fissazione degli uomini per le donne, certo più dannosa della brama per terre, oro e regni. S’inizia da due miserabili sgherri mandati da un signorotto idiota a un piccolo curato, e magari si scopre che Leuttra e Granico, Hastings, Azincourt e la Montagna Bianca alla fine dipendono solo da questa smania assurda di pavoneggiarsi e farsi forti davanti a un bel sorriso. Al massimo conquistare per un’ora un corpo, destinato anch’esso alla polvere.

    Provando a distrarre il desiderio, sistemò i guanciali per sedersi e prese il pesante tomo poggiato sul comodino.

    Sfogliava distratto Vite dei filosofi illustri. Tutto ciò che esiste nell’universo è frutto del caso e della necessità, tradusse mentalmente da Democrito.

    Ripeté la frase ad alta voce pensando all’uomo che gli aveva lasciato quel libro.

    Il desiderio era passato. Lesse ancora svagato, e infine chiuse gli occhi al sonno. Si dissolsero gli eserciti, Rodrigo, Griso, Tiradritto, Renzo e Lucia, il cardinale e gli altri fantasmi.

    La fiammella si affievolì, i filosofi illustri caddero di lato e tanti inconcludenti sforzi di saggezza rimasero squadernati sul letto. Nella fredda penombra al posto di Perpetua.

    2. Dell’errore e degli altri impedimenti

    [mer. 8 nov. 1628]

    Il mattino successivo Abbondio si era levato presto per la prima Messa. Alla fine aveva riposato non peggio delle altre notti. La decisione – la non decisione – era quella della sera precedente: prendere tempo per capire e intanto proteggere Lucia.

    Perpetua invece aveva trascorso la nottata rivoltandosi tra le coperte. Alla preoccupazione per Renzo e Lucia, e alla furia verso Rodrigo, s’era sommato, più forte, il rimorso per quello che aveva detto ad Abbondio.

    Quando il curato entrò in cucina lei stava versando il latte da una brocca in un catino di terracotta, sul tavolo sotto la finestra.

    «Il giallo vi dona» disse Abbondio ammirando il colore brillante del corsetto.

    «Grazie» rispose lei sorridendo. «Scusate per ieri sera.»

    «Se sono un pessimo prete non è colpa vostra.»

    Il giorno le inondava di luce il viso sotto la cuffietta bianca. Il naturale sorriso aveva la meglio sulle preoccupazioni e la pessima nottata.

    «Non è vero!» protestò lei. «Siete il miglior prete del mondo!»

    «Speriamo che vi sbagliate: altrimenti povera Chiesa!» replicò lui, allegro a metà, come gli riusciva nei momenti migliori.

    Si abbracciarono.

    Anni prima era apparsa insieme a Merlino. Inginocchiata al confessionale aveva detto di non avere debiti, semmai crediti da riscuotere dalla Chiesa; di non credere a inferno e paradiso ma di cercare un luogo su questa terra. Lui non le aveva chiesto nulla. Neppure da dove venisse.

    Probabile che fuggisse dalle valli settentrionali al confine con la Svizzera, infestate dall’eresia protestante e disinfestate dai roghi cattolici dei due Borromeo. Nonostante tutto lo sconsigliasse – a partire dagli stupefacenti occhi azzurri – quel giorno Abbondio l’aveva accolta nella canonica e da allora avevano fatto un buon tratto di strada insieme. Il migliore che fosse loro capitato.

    «Cosa avete deciso?» chiese lei mettendo sul tavolo pane e formaggio.

    «Per oggi rimandiamo.»

    «Andrò a dirlo a Lucia.»

    «In questo momento ci saranno le comari, non voglio fare parlare la gente. Lucia va protetta anche dalle parole.»

    «La gente parlerà comunque, posso chiamare Agnese in disparte.»

    «Non c’è bisogno, fra poco verrà Renzo.»

    Il giovane già da un pezzo girava nei dintorni vestito a festa. Bussò alla porta poco dopo. Perpetua lo accompagnò nello studio senza che lui notasse l’insolito atteggiamento sorvegliato. Governante e curato scambiarono un’occhiata, poi lei chiuse la porta.

    Mentre Renzo sedeva di fronte, Abbondio notò il manico del pugnale in bella vista, gli stivali alti, una criniera di penne variopinte sul cappello a falde larghe e soprattutto il piglio un po’ gradasso. Una bella copia di Griso e Tiradritto, per questo più sgradevole e vistosa, come se le persone oneste per figurare nella festa tenessero a imitare, e magari peggiorare, i farabutti nelle loro fattezze quotidiane.

    «Signor curato, ci siamo finalmente! È arrivato il giorno!» esordì irrequieto.

    «Non sappiamo il giorno e l’ora…»

    «A che ora dobbiamo venire in chiesa?»

    «Il matrimonio è rimandato.»

    «S’era detto per mezzogiorno.»

    «Il matrimonio è rimandato.»

    «Se mi confermate l’ora vado ad avvisare Lucia.»

    «Renzo, mi vuoi ascoltare?» chiese l’altro paziente.

    «Certo, signor curato…»

    «Sto dicendo che oggi il matrimonio non ci sarà.»

    «State scherzando?!» scattò l’altro.

    «Ci sono degl’impedimenti.»

    «Impedimenti? Quali impedimenti? Avevate detto che andava tutto bene!»

    «Ce ne sono di nuovi rispetto a quelli ordinari.»

    «E voi non lo sapevate?! Che prete siete se non sapete queste cose?!»

    Era la seconda persona in meno d’un giorno a diffidare del suo ordine; il terzo, se contava se stesso. Dubbi consentiti a Perpetua e Abbondio, ma assolutamente vietati a un Renzo qualunque.

    Il curato guardò la porta, come immaginando in trasparenza la bella sagoma di lei che origliava attraverso il legno scuro; quindi cambiò tono.

    «Non parlo degl’impedimenti dirimenti previsti dalla Chiesa. Error ovvero scambio di persona, conditio conoscenza sbagliata sullo stato civile della persona, votum promessa precedente di castità, cognatio consanguineità tra gli sposi, vis consenso strappato con la forza, crimen delitto che tocchi in maniera grave il patto tra gli sposi, ad esempio l’adulterio…»

    «Quando parlate difficile c’è qualche fregatura sotto… cosa c’entra l’adulterio?»

    «Tu sei a posto con le altre donne?» lo inquisì Abbondio.

    «Sì certo…» arrossì il giovane, all’improvviso sulla difensiva.

    «E sei convinto di rinunziarvi per sempre? Di non guardare mai più una donna con certe idee in testa?»

    «Si capisce...»

    «La prendo per buona» concesse il curato.

    «Cosa sono queste domande? Ci avete già interrogato ed era tutto a posto…»

    «Col matrimonio non è mai tutto a posto.»

    «E perché?» chiese Renzo sempre più innervosito da quel preambolo fumoso.

    «Ci sono tanti buoni motivi per cui la Santa Madre Chiesa – della quale si può dire ogni male ma non che le manchino sedici secoli di esperienza – fa tante difficoltà sul matrimonio.»

    «Ma state scherzando?»

    «Sono serissimo.»

    «E allora quando lo facciamo questo matrimonio?»

    «Non si sa.»

    «E cosa diremo agli invitati?»

    «Ci sono cose più importanti.»

    «Più importanti di mezzo paese invitato?»

    «Ascolta bene…»

    «Ho ascoltato abbastanza!»

    Renzo si alzò d’impeto puntando il pugnale contro il curato.

    «Voi ci sposerete! Ci sposerete subito!» ripeté tremante di rabbia.

    Abbondio mantenne il sangue freddo. Alzatosi con calma, superava l’altro di mezza testa. Non più giovane, esprimeva ancora con la solida corporatura e l’agilità una controllata forza fisica. Aprì la veste mostrando il Crocifisso pendente dal collo, sfiorato in quel momento dalla punta dell’arma.

    «Ti credi il nuovo centurione? Pensi pure tu di trafiggere Nostro Signore?»

    Renzo alla vista fece uno scatto indietro.

    «… Nostro Signore, che è l’unico innocente. O forse no, perché se è onnisciente deve sapere; se onnipotente non può tirarsi indietro. Ma dopo quello che si è fatto fare sulla Croce, non possiamo rimproverarlo di essersi sottratto al male che lascia succeda a noi… perché poi?»

    Abbondio si fermò, constatando che l’altro, confuso com’era, per fortuna non aveva capito niente.

    Nello stesso istante irruppe Perpetua armata di scopa.

    «Calma…» le disse il curato.

    Renzo nella sua minacciosa impotenza indietreggiò ancora verso l’angolo. Le rivolgeva contro il pugnale ma era lui a rischiare qualche legnata.

    Abbondio la guardò con ammirazione e orgoglio mentre incalzava il presunto aggressore. Poi tornò malvolentieri a Renzo.

    «A quanto pare minacciare preti con le armi sta diventando un passatempo comune dalle nostre parti. Ieri Griso ha avuto la tua stessa pensata.»

    «Griso? Che c’entra Griso?!» chiese sempre più disorientato il giovane.

    Vedendolo rintanato contro la libreria, il curato scosse la testa.

    «Metti via il pugnale. Mettilo da parte, dimenticalo in un cassetto. Seppelliscilo. Meglio ancora, buttalo nel lago: per te è più una tentazione mortale che una difesa.»

    Tornò a sedersi raccontando dei bravi con qualche esagerazione buona a raffreddare il giovane. Gli scherani di Rodrigo raddoppiarono e l’intimazione contro il matrimonio fu molto più brutale di quanto, tutto sommato civile, fosse stata.

    «… questi sono i fatti.»

    «Io l’ammazzo quello!»

    «Celebrare oggi il matrimonio comporterebbe gravi pericoli, ammesso che non venisse impedito con la forza.»

    «Non oseranno!»

    Renzo rimise la mano nel taschino del pugnale.

    «Se vuoi affrontare Rodrigo e i suoi, fai pure: dovrò solo scambiare il matrimonio con un funerale. Il tuo sicuramente.»

    Abbondio parlò in tono fermo, fissando Renzo con lo sguardo determinato e lontano insieme, come a cercare attraverso di lui qualcosa che stava oltre.

    «Voglio parlare con Lucia, dille di venire nel pomeriggio.»

    «Che c’entra Lucia? È una questione tra uomini.»

    «Dobbiamo supporre che Rodrigo l’abbia vista, che ci sia stato qualche contatto. Conoscendolo, non l’avrà fatto con discrezione…»

    «Che state insinuando?» insorse Renzo, ritardatario nelle conclusioni e poco incline alle sfumature quando infine arrivava.

    «Quando il matrimonio era fissato mi avete chiesto d’anticiparlo. Perché?»

    «Sì, è vero... è stata un’idea di Lucia! Ne aveva parlato con frate Cristoforo…»

    «Avrà avuto i suoi motivi. Prima di parlare con Rodrigo, devo sapere.»

    Poteva bastare. Sperava di aver bloccato l’impulso di Renzo a reagire, evitando qualche tragico colpo di testa. Non era un leone, ma spesso sono i timorosi a muovere i più disastrosi azzardi per dimostrare quello che non sono.

    «Un’ultima cosa molto importante» ammonì Abbondio. «Lucia deve lasciare il paese e trovare rifugio da qualche parte. Potrebbero avere intenzione di rapirla.»

    Renzo rimaneva immobile.

    «Hai compreso? Non stare qui imbambolato, va’ da lei!»

    «Cosa dobbiamo dire in giro? Mezzo paese è invitato alle nozze…»

    «Il curato sta male: è a letto con la febbre. Come scusa al momento basterà.»

    Il giovane si congedò mezzo stonato, le penne rosse che prima trionfavano sul cappellone adesso cadevano di lato flosce. Uscendo biascicò che si sarebbe fatto vivo presto.

    «Volete parlare con Rodrigo?» chiese Perpetua appena furono soli.

    «Vedremo. Magari Lucia ci ripensa e sposa Rodrigo.»

    «Rodrigo le donne non le sposa…» replicò lei risentita.

    «D’accordo. Era solo una battuta. Una battuta

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