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Polvere di storia: Testo storico, sociologico e delle codificazioni
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Polvere di storia: Testo storico, sociologico e delle codificazioni

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Questo lavoro è nato sotto la spinta emozionale della lettura di documenti originali inseriti in un arco di tempo che va dal 1500 al 1900, giunti in possesso dell’autrice per una circostanza inaspettata in cui lei ama immaginare non sia stata estranea «la mano del destino». Tali documenti, amanuensi e con l’inchiostro schiarito dal tempo, trattano di gente umile e di problemi che non sembrerebbero meritare l’attenzione degli «Storici». Tuttavia, nello scorrere con lo sguardo, con interesse sempre crescente quegli episodi di vita legati al «cittadino comune» l’autrice si è chiesta: tali personaggi «minori» del grande romanzo della vita, che non si sono distinti nelle vicende del vivere quotidiano con azioni particolarmente eccezionali, e non hanno lasciato altro di sé sulla terra che l’impronta della loro presenza attraverso i propri discendenti, (ma a volte neanche questa), come si pongono di fronte alla storia? Da tale indagine mentale è scaturita una risposta: - Essi sono la particella infinitesimale di quella popolazione che ha vissuto ed ha involontariamente creato «pagine di storia». Storia di un popolo, come quello Cilentano, così maltrattato, così indifeso di fronte alla legge dei più forti. Interessandosi e coinvolgendosi sempre di più in quelle problematiche avventure di vita, l'autrice è giunta alla conclusione che ogni «storia», che riguardi l’esistenza in particolare di un essere facente parte di quella popolazione che abita il Cilento da millenni, per quanto granello infinitesimale, sia essenziale e possa essere definita «polvere di storia». È giunta infine al convincimento che quelle storie, svoltesi all’ombra della «Storia» grande, fatta più spesso dai potenti che dagli umili, ma vissuta sulla pelle di ogni individuo, formano il tessuto connettivo senza il quale la Storia perderebbe ogni consistenza umana e temporale; questo perché ogni vita, vissuta all’ombra della Storia che si studia sui libri, è stata influenzata o indirizzata, nel bene e più spesso nel male, dalle decisioni «dei grandi», di quelli cioè che nel libro della Storia hanno lasciato il loro nome e cognome e nel libro della Vita l’impronta del loro esistere. A motivo di ciò ha deciso di dedicare questo lavoro a quanti, nel libro di Storia, non hanno lasciato apparentemente nulla, eppure l’hanno permeato con l’essenza stessa della loro esperienza umana cui pochi prestano attenzione.
Il testo contiene nomi e cognomi, da Apicella a Trucido Alessandro, oltre una breve storia, degli emigranti del salernitano tra 1800 e 1900,nei brani tratti da un volumetto stampato in San Martin di Buenos Aires verso la fine dell’800, dal titolo: «Dizionario Biografico degli Italiani al Piata», a cura degli editori Barozzi, Baldissini & C. (edizione fuori commercio e oramai pressoché introvabile). Edito dalla Loffredo nel 1999. Rivisitato per l'ebook, ulteriormente controllato per la sua versione cartacea nel 2017.

 
LinguaItaliano
Data di uscita17 dic 2014
ISBN9786050343168
Polvere di storia: Testo storico, sociologico e delle codificazioni

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    Polvere di storia - Bianca Fasano

    POLVERE DI STORIA

    In appendice: Stio tra storia e leggenda e cenni sulla Baronia di Magliano

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    POLVERE DI STORIA

    In appendice: " Stio tra storia e leggenda e cenni sulla Baronia di Magliano"

    BIANCA FASANO

    Testo storico, sociologico e delle codificazioni.

    Poesia

    Fragili attimi di presente.

    decoration

    Fragili attimi di presente

    inesistenti,

    già preda del passato

    e intrisi di futuro,

    appartenete al piccolo uomo

    che vive

    la sua stagione di sogni

    aggrappato ad un ideale.

    Terra fra le mani,

    calda e marrone,

    ventre per i semi che verranno,

    hanno desiderato generazioni di contadini.

    Parole da plasmare,

    brucianti di passione

    ventre per una vita più giusta

    da creare,

    hanno desiderato generazioni di scrittori.

    Una la vita per ogni uno,

    breve e finita.

    Miliardi di piccole,

    brevi vite vissute,

    sotto una coltre di stelle,

    osservate con occhi diversi

    e la stessa speranza di eternità.

    Folle di uomini

    hanno abitato la terra,

    pugno di realtà nell’immenso dell’infinito,

    e ogni mano ha stretto il gomitolo esile

    di una storia finita.

    Ma la continuità del pensiero,

    diverso

    multiforme

    immenso nel suo essere incompleto,

    alla ricerca di quell’aquilone di sogno

    che con duce oltre il brillare delle stelle,

    forma un arcobaleno di luci

    che fugge oltre la vita terrena del piccolo uomo,

    oltre lo sguardo,

    oltre il finito,

    in cerca di quella giustizia autentica

    che ognuno sente,

    pressante,

    palpitare nell’animo,

    che ognuno percepisce esista.

    Ed il piccolo uomo poeta,

    che vive in astratto

    ogni vita umana,

    e in cui vibra il dolore

    per ogni essere,

    chiude gli occhi alla realtà,

    e l’udito smorza

    per cercare, cieco

    con la percezione dell’anima

    la verità di pace

    in cui vuol credere

    contro ogni logica materiale

    per regalarla a tutti.

    Bianca Fasano

    Caro lettore.

    decoration

    Il mio lavoro è nato sotto la spinta emozionale della lettura di documenti originali inseriti in un arco di tempo che va dal 1500 al 1900, giunti in mio possesso per una circostanza inaspettata in cui io amo immaginare non sia stata estranea la «mano del destino». Tali documenti, amanuensi, con l'inchiostro schiarito dal tempo e in alcuni casi scritti in latino medioevale, o con termino­logie differenti da quelle attualmente in uso, appaiono di difficile lettura e trattano di gente umile e di problemi che non sembrereb­bero meritare l'attenzione degli «Storici». Tuttavia, nello scorrere con lo sguardo, con interesse sempre crescente, quegli episodi di vita legati al «cittadino comune» mi sono chiesta: questi personaggi «minori» del grande romanzo della vita, che non si sono distinti nelle vicende del vivere quotidiano con azioni particolarmente degne di nota, e non hanno lasciato altro di sé sulla terra che l'im­pronta della loro presenza attraverso i propri discendenti (ma spesso neanche questa), come si pongono di fronte alla Storia?

    Da questa indagine mentale è scaturita una risposta: essi sono la particella infinitesimale di quella popolazione che ha vissuto e ha involontariamente creato «pagine di Storia». Storia di un popolo, come quello cilentano, così maltrattato, così indifeso di fronte alla legge dei più forti. Interessandomi e coinvolgendomi sempre di più in quelle problematiche avventure di vita, sono giunta alla conclusione che ogni «storia», che riguardi l'esistenza in particolare di un essere facente parte di quella popolazione che abita il Cilento da millenni, per quanto granello infinitesimale, è essenziale e può essere definita «polvere di Storia», raggiungendo infine il convincimento che quelle storie, svoltesi all'ombra della «Storia» grande, fatta più spesso dai potenti che dagli umili, ma vissuta sulla pelle di ogni individuo, sono, in effetti, il tessuto connettivo senza il quale la Storia perde­rebbe ogni consistenza umana e temporale, questo perché ogni vita, vissuta all'ombra della Storia che si studia sui libri, è stata influenzata o indirizzata, nel bene e più spesso nel male, dalle decisioni «dei grandi», di quelli cioè che nel libro della Storia hanno lasciato il loro nome e cognome e nel libro della Vita l'impronta del loro esistere.

    A motivo di ciò ho deciso di dedicarlo a quanti, nel libro di Storia, non hanno lasciato apparentemente nulla, eppure l'hanno permeato con l'essenza stessa della loro esperienza umana cui pochi prestano attenzione. Il mio scritto propone, dunque, l’osservazione affettuosa delle «umane vicende» di alcuni personaggi, che hanno un nome e un cognome e hanno certamente lasciato dietro di sé «eredità di affetti», ma, presi singolarmente, non hanno «fatto la storia». Eppure le loro singole storie, che rivivrete nelle prossime pagine dì questo lavoro, spesso trattate dal punto di vista legale, perché legate a vicende giudiziarie o vidimate dall'autorità dì un notaio, hanno avuto un determinato svolgersi anche perché inserite in un determinato periodo storico. Hanno subito l'autorità delle leggi in vigore, assimilato le caratteristiche sociali, sofferto le batta­glie e le rivoluzioni dell'epoca e in conclusione dunque hanno vis­suto la storia, e nel contempo l'hanno anche inevitabilmente for­giata con la forza della moltitudine, se non con quella del singolo. Il mio «polvere di Storia» prende quindi l'avvio dai fatti nar­rati nei documenti di cui ho fatto cenno, e usando come filo di Arianna l'argomento principale di cui il documento si occupa, per­corre come una macchina del tempo un tracciato discontinuo che talvolta si avvia nel passato o diversamente ritorna al nostro pre­sente, con un'alternanza dettata dalla necessità di meglio compren­dere la questione posta all'attenzione del lettore.

    Partendo dal lavoro di Donato Clauso, notaio in Gioì, vissuto nel XVI secolo, proseguiremo il viaggio attraverso il testamento di Angelo di Narduccio, vissuto nel XVII secolo per immergerci poi in un’avventurosa storia di brigantaggio. Daremo quindi uno sguardo alla situazione femminile nell'ottocento e successivamente rivivremo la «storia di Marinella», che 143 anni fa presumibilmente uccise sul nascere il «figlio della colpa» e ne nascose il corpicino. Restando nel tema di «onore e violenza» leggeremo poi delle sofferenze di Caterina Celli, figlia illegittima, e donna fisicamente e psicologicamente violentata, per immergerci infine nelle problematiche dell'emigrazione, anche attraverso una serie di piccole storie umane tratte da un testo praticamente oggi introvabile, stampato alla fine dell'ottocento. Questo viaggio nel tempo sarà anche lo spunto per comprendere la «Storia» dei grandi, con l'ausilio dei codici e di ogni elemento che ci parrà utile alla costruzione quasi visiva e tattile del secolo e dell'argomento di cui ci occuperemo. Tuttavia, prima di introdurci nel vivo della narrazione dei brani di vita che singolarmente compongono, tassello per tassello, il mio lavoro, mi è parso utile rivisitare assieme, almeno nella sua linea essenziale, lo scorrere delle «codificazioni» nei secoli, poiché, in effetti, ogni singola storia legale di cui mi sono occupata ha dovuto cercare le sue soluzioni nei codici dell'epoca, e inoltre, anche attraverso i raffronti con i codici precedenti e successivi all'epoca in cui l’avvenimento si è verificato, potremo riconoscere gli accostamenti e le differenze tra i periodi storico-sociali. Questo perché i codici risentono inevitabilmente della società di cui divengono il riferimento legale e che li pone in essere. I codici potranno inoltre evidenziare la dicotomia tra il diritto dell'individuo e quello dello Stato. Per quanto riguarda i paralleli storici, essi verranno spontanei nel corso dell’esposizione scritta, per cui di conseguenza qualche personaggio della «Storia» parrà risaltare, per meglio chiarire le umane vicende del personaggio della «storia» che stiamo raccontando. Inoltre, avvicinando a noi nello spazio e nel tempo questi sconosciuti, che ci sembreranno figure note nel constatare le similitudini tra la loro esistenza terrena e quella che viviamo noi stessi, cercheremo di trarne qualche insegnamento, o per meglio dire, di elaborare qualche essenziale verifica, che ci aiuti a comprendere la realtà della nostra storia sociale e le difficoltà mai superate del vivere individuale che, con le sue necessità improrogabili, alcune volte si pone in antitesi con gli obblighi che la società del momento gli impone. Tutto ciò però, senza mai volere assumere il ruolo dell’inquisitore, dell’avvocato della difesa o del giudice istruttore, poiché tali ruoli non ci competono.

    Occorre inoltre ricordare, nel seguire le vicende dei nostri antieroi, che questi tentarono di sopravvivere a periodi storici difficili, ricchi di ambiguità e astrattismo morale e che spesso, a tali ambiguità, di ordine psicologico o materiale, questi poveri esseri umani dovettero soccombere. Malgrado il loro volere.

    Contra potentes nemo est munitus satis (Fedro, II, 6)

    Stampato per la Loffredo editore in Napoli, nel novembre 1991. Rivisitato e pubblicato in e book nel dicembre 2014, ampliandolo con il testo Stio tra storia e leggenda e cenni storici sulla Baronia di Magliano (stampato nel Cilento nel 1986). Ristampa nel 2017.

    « ... poco è il tempo in cui vive ciascuno, piccolo il ristretto angolo di terra ove ciascuno continua a vivere e scarsa la fama presso i posteri; sia anche una fama assai lunga, pur sempre ottenuta per successive vicende di piccoli uomini destinati a morire, piccoli uomini che non conoscono neppure se stessi; tanto meno un altro uomo, già morto prima, in tempi antichi. » [1]


    Introduzione.

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    Per meglio comprendere la strada percorsa nei secoli alla società civile, che oggi tenta di esprimersi, per quanto umanamen­te possibile, nel modo più consono alla giustizia, occorre tenere presente che la nostra legislazione, come riferimento al passato, si è ispirata al CORPUS IURIS JUSTINIANEUS promulgato da Giustiniano, come in pratica è accaduto in tutti i paesi civili. L’imperatore Giustiniano è da Dante collocato nel cielo di Mercurio, tra gli spiriti attivi (Paradiso, VI), e questo a ragion veduta, poiché la sua figura risplende nel passato e la sua opera è stata portata ad esempio per correttezza di intenti e risultati. Il Corpus delle leggi fu promulgato ad opera di dieci giuristi, presieduti da Triboniano [1] , cui Giustiniano diede l’in­carico di verificare la legislazione romana, già di per sé rappre­sentante un faro nelle tenebre dell’ingiustizia. Nel 529 vide la luce il «Novus Codex Justinianeus», e nel 553 il Digesto o Pandette, ricordato anche da Raffaello Sanzio, in un dipinto delle « stanze del Vaticano», dove si può ammirare la scena con « Giustiniano che consegna le Pandette a Tribo­niano ». L’intera opera constava in 12 libri ordinati per materia: nel primo era contenuto il diritto ecclesiastico e pubblico, i suc­cessivi sette libri erano dedicati al diritto privato, il nono al diritto e alla procedura penale e gli ultimi al diritto amministra­tivo. Questa versione del Codice è detta « Codex repetitae praelectionis » per distinguerlo da quello del 529, che non è giunto sino a noi. Il sistema con cui la materia è ripartita è, con alcune modifiche, quello classico dei Digesta, che contraddistinguevano le raccolte sistematiche di responsi e questioni di diritto romano ed era già stato adottato per i codici gregoriano e teodosiano. L’esistenza stessa di tali codici ci conforta, perché ci spinge a comprendere che l’essere umano ha sentito «da sempre» la necessità di una giustizia comune, che ponesse tutti i cittadini di fronte alla legge. Se poi nei secoli tale necessità si è potuta esprimere con sempre maggiore chiarezza, nel tentativo di considerare realmente gli uomini uguali fra loro (ciò al di fuori di ogni considerazione di ordine religioso), questo dato ci conforta nella nostra aspettativa che il cammino umano evolva verso una società generalmente giusta e ugualitaria. Naturalmente occor­re non dimenticare un dato concreto relativo alla «qualità» delle leggi, ossia che esse, in quanto realizzazione pratica del «dirit­to», hanno da sempre rappresentato quanto una data società o un gruppo di potere riconoscevano essere «buon diritto» e «vera giustizia». Tanto purtroppo non è bastato nei secoli e non basta ancora oggi per rendere «giustizia» alla volontà di tutti, e spesso per concedere i diritti a un popolo oppresso. Al di là di queste già accennate difficoltà, occorre ricordare (la Storia insegna) che le grandi menti, capaci di distinguersi in una o più loro capacità positive, sono rare. A ragione di ciò e anche delle possibilità insite nella codificazione giustinianea, perdurate per secoli, la raccolta di leggi mantenne a lungo la sua funzione fondamentale di disciplina dei rapporti sociali. Ma era inevitabile che, col mutarsi degli eventi e degli stati sociali, in questo lungo periodo di tempo finissero per riprodursi a poco a poco le sovrapposizioni le contraddizioni e le conseguenti diversità di trattamento, a cui Giustiniano aveva voluto rime­diare. Per ritrovare nei tempi successivi una raccolta di leggi razionale, a cui altri popoli civili poterono successivamente ispi­rarsi, occorre rifarsi a Napoleone Bonaparte, a cui si deve il « Code Napoleon ». Precedentemente a questo, altre parziali e incomplete rac­colte di leggi, che in qualche modo rappresentassero un tenta­tivo, si erano avute in Francia nel sec. XVI e in Austria con il Codex Austriacus. Il secondo ebbe vigore fino al 1770 per ordine di Maria Teresa. Ricordiamo che, nel Regno di Napoli, (che più strettamente ci riguarda tenuto conto del territorio che ha ispirato questo lavoro), Carlo Tapia dedicò a Filippo III, nel sec. XVIII, il « Codex filippinus » che, anche se privo di valore ufficiale, raccoglieva le leggi vigenti dell’epoca in schemi del tipo giustinianeo. Il Codice Carolino del 1789 non ebbe valore ufficiale. Il Codice della Toscana legislazione vide la luce tra il 1778 e il 1787, mentre il Codice feudale promulgato dalla Serenissima Repubblica Veneta, risale al 1780. Questi conte­neva le leggi in materia feudale emanate nella repubblica dal 1328 al 1771, quindi conservava il caratteristico disordine legi­slativo del feudalesimo, tempo in cui si era tentato di far coesi­stere i differenti diritti sanciti dai principi e dai nobili, con il diritto mercantile, quello canonico e quello locale. Si trattava comunque di tentativi più o meno maldestri di una sistemazione logica della legislazione, aventi lo scopo di rendere più semplice e più giusto l’operato di quanti dovevano porre in essere una legislazione ufficiale in cui i giudici non avrebbero avuto potere decisionale, ma soltanto l’incarico di applicare delle norme già prestabilite. La divaricazione degli interessi particolari e collet­tivi rendeva difficile la formulazione di codici che consentissero l’attuazione di uno stato di diritto in senso moderno. Cicerone già ai suoi tempi si era posto il problema, giungendo alla conclu­sione che «lo stato» non potesse nascere che attraverso un lungo processo di evoluzione:

    - «... non già nel corso della vita di un uomo, ma con il lavoro che generazioni e generazioni hanno svolto per diversi secoli». -

    I grandi pensatori del passato non potevano restare indifferenti nei confronti del concetto di Stato e non fu da meno Cicerone, che se ne occupò ampiamente nel De republica che trattava Sulla cosa pubblica o Sullo Stato. Filosofia e politica si mescolavano in un trattato diviso in sei libri. Nell’ultimo Cicerone intendeva dimostrare che gli uomini di stato, volenterosi del bene della patria, della giustezza e della filantropia, non necessariamente potessero contare di riscuotere, onori, approvazione e appoggio equo da parte del popolo, piuttosto dovessero prospettarsi la gloria immortale di una diversa esistenza. In questa fase introdusse l’immagine del Somnium Sciponis, di cui si avvalse per spiegare, le dottrine platoniche relative all’immortalità dell’anima. [2] La necessità di raggiungere un organico complesso legislativo si avvertì sempre più col crescere e lo svilupparsi delle società europee all’avanguardia, le quali vollero creare corpi unici di leggi che riducessero al minimo i privilegi feudali, unificando i diversi diritti, anche a costo di scontrarsi con il diritto comune che sembrava fondato proprio su questa pluralità di indirizzi.

    Nel tentativo sempre più pressante, operato dai giuristi, di promulgare leggi unitarie e nella critica del disordine politico e giurisprudenziale era inevitabile che s'intendesse quindi modificare e risistemare anche il Codice giustinianeo. Tra i giu­risti del sec. XVII e XVIII ricordiamo Thomas Hobbes, cui dobbiamo il «Leviathan» che rappresenta almeno in embrione la moderna idea di scienza politica e John Locke, convinto razionalista, in diretto contrasto con Hobbes, o anche il tedesco S. Von Pufendorf e il francese Jean Domat, considerato uno delle più grandi menti nella moderna cultura giuridica europea.

    Il Codice Fridericiano s'ispirò alle teorie illuministiche, mentre il Codice civile prussiano del 1749, (Allgemeines Landrecht fur die Koniglich Preussischen Staaten), non riuscì a rap­presentare l’unica o più importante fonte di diritto. Successivamente apparve all’orizzonte, nel 1804, il codice civile francese, che in parte aderiva al diritto romano, seguito dai codici di procedura civile, penale e di procedura penale, e quello austriaco del 1811 (Allgemeines Burgerliches Gesetzbuch o ABGB), i quali final­mente, in quanto capaci di reggere da soli la legislazione, rup­pero i cordoni ombelicali con ogni codificazione del passato, rea­lizzando una legislazione al passo con i tempi.

    1. Restringendo per necessità narrative temporalmente e geograficamente l’orizzonte del nostro interesse, nell’intento di meglio comprendere le motivazioni sociali delle realizzazioni legislative, è utile dare un rapido sguardo allo scorrere della «Storia» italiana. Con il governo di Napoleone l’Italia subì una profonda trasformazione sotto il profilo territoriale perché i molti stati che la costituivano furono sostituiti da tre sole entità:

    2. II Regno Italico, che tra il 1806 e il 1809 si estese anche al Veneto, alle Marche e al Trentino.

    3. Le regioni annesse direttamente alla Francia fra il 1789 e il 1809, che furono: il Piemonte, la Liguria, Parma, la Toscana, l’Umbria e il Lazio.

    4. II Regno di Napoli sotto Giuseppe Bonaparte fratello di Napoleone (1806-1808) e poi sotto Gioacchino Murat. La Sicilia rimase ai Borbone, sotto la protezione inglese e la Sardegna rimase ai Savoia. Re Ferdinando di Borbone, con il governo dei napoleonidi, fu cacciato da Napoli perché nella campagna del 1805 si era stretto in alleanza con l’Inghilterra. Nello stesso anno che vide Giuseppe Bonaparte Re di Napoli, in agosto fu promulgata una legge che pose fine alla feudalità e trasformò i Baroni in proprietari terrieri privi di privilegi.

    È dunque in questo quadro storico che vede la luce il «Code Napoleon del 1804, nel quale si rispecchiano molte delle conquiste della rivoluzione francese, ma con estrema serenità di giudizio, tale da permettere di porre in salvo la personalità indi­viduale di fronte alla legge e nei rapporti interpersonali.

    Ritengo utile riportare in questa sede alcuni stralci tratti da «Storia del reame di Napoli» di Pietro Colletta (n. 1775, m. 1831) che, da colto, visse le vicende storiche, politiche e legisla­tive del suo tempo:

    - «XLV. Ebbe il Regno nuove leggi, le stesse di Francia com­ponenti il codice Napoleone, così chiamato perché Napoleone, primo consolo e legislatore, gli aveva dato a comune gloria il suo nome: erano le civili, le penali, di commercio e di procedi­mento penale e civile...»- «XLII. Il codice penale, comunque fusse in Francia, non era per adatto e giusto; perocché comportabile e forse lodevole ad un popolo è prender leggi civili di altro popolo, essendo ora­mai comuni in Europa i sociali artifiziati interessi. Ma le cagioni delle leggi penali trovandosi nella natura fisica e morale della società, ed essendo vario il sentire, vario il soffrire delle varie genti, non è uguale a tutti gli uomini la colpa nei misfatti, la pazienza al dolore; perciò i castighi adatti per gli uni sono per gli altri o soperchi o leggeri. E difatti erano per noi difettive le scale de delitti e delle pene, aspri soverchiamente i supplizi, prodigato quello di morte, tali dovendo essere nella Francia gli eccessi del troppo rivolgersi per venti anni, e del morir troppo; così come, conservata per alcuni misfatti la confiscazione, si puniva dei delitti degli avi la innocente ignota posterità; ingiu­ria pur derivata dalle abitudini della Rivoluzione... ». -

    Il codice napoleonico fu promulgato il 21 marzo del 1804, ma alle spalle dell’opera esisteva uno studio di riforme iniziato nel 1794 da insigni pensatori e giuristi, tra cui Jacqué Minot e il Cambacérès. Il «Code Civil des francais» si pone come garanzia dell’uguaglianza, ma anche della proprietà personale che viene considerata una sfaccettatura della personalità individuale. La struttura del Codex è in tre libri: delle persone, dei beni, dei differenti modi di acquisto delle proprietà. Ecco apparire alla ribalta della storia la giustizia «uguale per tutti», a cui lo stesso giudice deve inchinarsi, non potendo negare alcuna sentenza, poiché per ogni caso giuridico esiste una norma a cui rivolgersi da applicare al singolo caso. Il senso autentico del possedere e disporre della propria libertà individuale, gover­nata da leggi con diritti civili, si esprime anche attraverso il significato dato al termine di proprietà che secondo il codice è:

    - «... le droit de jouir et de disposer des choses de la manière la plus absolue...». -

    Al Codice Napoleone, s'ispirarono numerose codificazioni europee e inoltre fu essenziale anche l’influenza che esso ebbe sulla legislazione della nostra penisola, anche successivamente al ripristino del regime borbonico. Questo senza nulla togliere alle ricerche fatte anche in Italia per operare un rinnovamento scienti­fico e legislativo e alle teorie illuministiche che informarono di sé molti codici, tra cui: Modena, Codice estense del 1771; Tosca­na (campo penale), Codice Leopoldino del 1786; Venezia, Codice per la veneta Marina Mercantile del 1786, che ebbe più fortuna e peso del Codice Ferdinandeo, compilato in materia di diritto marittimo per ordine di Ferdinando IV nel 1781. Sarebbe quindi ingiusto e soprattutto errato volere asserire che, prima dell’av­vento del codice napoleonico in Italia, non vi furono menti pen­santi capaci non soltanto di verificare le manchevolezze legislative dell’epoca, ma anche di tentare un rimedio. Già nel 1780, a pochi anni dal verificarsi della rivoluzione in Francia, Gaetano Filangieri [3] pubblicava il suo «Scienza della legislazione», ponendo in luce la necessità di equiparare la pena alla colpa commessa e aprendo la strada al lavoro di illustri legislatori, tra cui l’avvocato Donato Tommasi, che diverrà poi Ministro di Grazia e Giustizia sotto Ferdinando I. La rivoluzione francese ebbe poi un peso considere­vole nel creare un presupposto di incrinatura tra il riformismo e la monarchia nel Regno di Napoli, tanto fu verificato il cinque di otto­bre dall’ambasciatore di Ferdinando IV a Parigi, marchese Tommaso di Somma, che scrisse al primo ministro Acton prevedendo, in proposito ai feroci avvenimenti dell’estate autunno, che questi avrebbero condotto alla «distruzione della Monarchia». [4] In quegli anni nel Mezzogiorno d’Italia la Massoneria assu­meva un ruolo determinante, sia per quanto riguarda il fondersi in seno ad essa di grandi menti progressiste sia per la singolare assimilazione nelle logge di nobiltà e borghesia, unite in uno stesso ideale. Quanto detto nulla toglie però all’organicità del Code Napoleon, che, tradotto, entrò in vigore nel 1806 anche nel Regno Italico e fu seguito via via da altri codici napoleonici: Codice di procedura civile nel 1806; Codice di commercio nel 1808; Codice penale nel 1811. Nel Regno di Napoli il codice civile napoleonico entrò in vigore il primo gennaio del 1809, mentre il codice penale divenne operante il primo ottobre del 1812. L’ordinamento giuridico, di cui era parte preponderante anche la legge abolitiva della feudalità, risalente al 2 agosto del 1806, trovò favorevoli anche teorici riformisti quali Giuseppe Zurlo e Francesco Ricciardi e fu difeso con prudente arguzia, passata la ventata napoleonica, dallo stesso Tommasi, che si interessò personalmente delle riforme introdotte nel Regno dal 1815 al 1820, sulle strutture portanti della legislazione intro­dotta dai francesi. Mentre dunque il regno di Napoli era governato prima da Giuseppe Bonaparte e quindi da Gioacchino Murat, marito di Carolina Bonaparte, Ferdinando di Borbone, «re nasone», viveva ritirato in Sicilia, sotto la protezione inglese, e contava i cinquantasei anni e il futuro Ferdinando II, figlio di France­sco di Borbone, ancora doveva nascere. Nel Cilento questi mutamenti storici portarono sconvolgimenti e lotte intestine nel già precario stato sociale in cui viveva In maggioranza della popolazione, provocando innanzitutto il risorgere delle bande borboniche. Sulle «gesta» dei briganti molto è stato scritto e tra i lavori occorre ricordare quanto riportavano il Bartels nelle «Lettere sulla Calabria e la Sicilia» e il Dumas [5]. Un certo Pompeo D’Aiutolo, di Montecorvino Rovella, dedicò alla vita e alle «opere» del brigante Angiolillo, a nome Angelo Duca, un intero poema in cinque canti che partiva con la nascita di questi, avvenuta in S. Gregorio Magno (circondario di Campagna), e lo «accompagnava» fino alla morte, avvenuta il 26 aprile del 1784. Sembra che Angiolillo fosse entrato in odio al Duca Francesco Caracciolo, Marchese di Mottola, per la morte di un cavallo e che di conseguenza si fosse dato al brigantaggio. Il materiale per il poema fu fornito al D’Aiutolo dal dottore Antonio Scoino, di Muro Lucano, cittadina che visse «in prima persona» le gesta del brigante e dove questi fu poi arrestato. Altro «grande» del brigantaggio fu Gaetano Mam­mone, che morì nel 1802 nelle carceri della Vicaria. [6]Tra le cause dell’arresto non vi erano soltanto le rapine e gli assassinii, ma anche accuse a carattere politico. Il suo processo contava moltis­simi volumi, che raccoglievano le sue «gesta», e tra questi il XV riguardava l’inquisizione politica, poiché egli era sostenitore di Ferdinando. Mammone fu ricordato da B. Croce nel suo saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 precisando che:

    - «A questi maestri scriveva Ferdinando di Sicilia: mio generale e mio amico» -

    Tanto non stupisce, poiché è cosa nota che le scorrerie dei briganti furono spesso protette e soste­nute dai Borboni a scopo politico.

    Lo stato di guerriglia e il coprifuoco, attuato per difen­dere i paesi, trovarono un risanamento momentaneo nel 1810, mediante gli ordini severi impartiti da re Murat, che prevede­vano anche l’uso della pena di morte e di particolari condanne per i paesi che permettevano il passaggio delle bande.

    A Palermo, intanto, nel 1810, nasceva il bambino destinato a regnare col nome di Ferdinando II.

    In questa situazione instabile, nel 1809, come già ricor­dato, si era inserito il codice napoleonico, con le note leggi sulla eversione della feudalità, tra cui quella del 2 agosto 1806, di cui parleremo più avanti. Tra le innovazioni del regime, vi fu l’abolizione delle risaie nel salernitano. Il riso rappresentava comunque una possibilità di guadagno, ma a quale prezzo? Ce ne fornisce un rapido quadro lo storico Pietro Ebner:

    - «Ai primi del 700 (1711) anche nel Cilento meridionale, specialmente nella piana di Casalicchio (Casalvelino), Ascea e nelle zone pianeggianti di Ceraso s’iniziò la coltura del riso che sorta con prospettive di redditi cospicui si rivelò poi assai disastrosa. ».

    Scrive G.B. Lancillotti che nel 1722 la «pestifera pianta­gione» provocò la morte di 650 persone e altre 5764 «se ne enermarono» [7] .

    Re Murat fu amato dal Cilento e lo amò, pur se le leggi da lui promulgate contro il predominio dei feudatari e degli ecclesiastici, atte a restituire con una piccola proprietà terriera, una parvenza di personalità giuridica ai contadini, non sortirono l’effetto sperato a causa della strenua difesa che opposero con ogni mezzo legale i potenti, vistisi «defraudati» di quelli che consideravano beni personali. Le numerosissime cause legali resero necessario il perpetuarsi della Commissione feudale, che tentava di giudicare secondo principi efficienti, ponendo i feu­datari nella necessità di provare le origini dei loro privilegi, con titoli primitivi o documenti equivalenti a questi.

    Il 20 maggio 1815, quando, in una casa presso Capua (Casa Lanza) Gioacchino Murat cedette i suoi domini nel Napoletano all’Austria, che vi restaurò il governo di Ferdinando di Borbone, il popolo cilentano in gran parte lo rimpianse. «Re nasone» assunse il nome di Ferdinando I delle Due Sicilie fondendo i suoi titoli precedenti (Ferdinando IV di Napoli e Ferdinando III di Sicilia), e non si mostrò affatto desideroso di restaurare gli antichi privilegi del feudo e del clero, volendo evitare mal­contento nella popolazione e successivi disordini. Il Governo fu formato da Luigi Medici, Ministro delle Finanze, da Donato Tommasi, Ministro di Giustizia e dell’Interno e da Tommaso di Somma marchese di Circello (già ricordato quale ambascia­tore a Parigi di Ferdinando IV), Ministro agli Affari Esteri.

    A proposito del rientro di Ferdinando il Colletta [8] ricorda:

    - «Nelle Piagine, torbido e popoloso villaggio della provincia di Salerno, viveva la famiglia Pugli, amante in vero del cessato governo, ma onesta.

    Alcuni tristi del paese tornati da Sicilia, avidi di sangue e di prede, assaltano un giorno festivo quella casa, che chiamano dei Giacobini, la spogliano e incendiano, e legando con funi tutti della famiglia di vario sesso ed età, li traggono in piazza. Fanno sollecito apparecchio di aride legna, in gran mole disposte in giro, e vi chiudono nel mezzo non meno di cinque della nemica casa. Accendendo le cataste, e quando la fiamma si dila­tava, rovesciano le materie sopra a quei miseri, che vivi brucia­vano e se alcuno tra le fiamme s’apriva un varco, vi era respinto. Quando i lamenti cessarono, indizio di morte, estinguono il fuoco, e fu visto fra le ceneri miserando cumulo di cadaveri in attitudini varie e pietose, il prete Pugli aveva le braccia incro­ciate al petto, la donna, per materno zelo, distesi a terra due teneri figli, gli copriva del suo corpo, tal che morti si rinvennero ma non bruciati. Orrendo spettacolo!» -

    Ma chi era in realtà «l’uomo Ferdinando» in nome del quale si commettevano tali atrocità?

    La descrizione data da Benedetto Croce (1866-1952) nel suo lavoro sulla rivoluzione napoletana del 1799 [9] è la seguente:

    - «... egli pensava alla caccia, alle femmine, alla buona tavola, e purché gli si lasciassero fare le dette cose, era pronto a inti­mare la guerra, a fuggire, a promettere, a spergiurare, a perdo­nare e ad uccidere, spesso ridendo allo spettacolo bizzarro».-

    Per quanto riguarda la regina Carolina il Croce la definisce: - «Una donna che, oltre alle scorrettezze e turpitudini della vita privata, è stata colta in una serie di menzogne flagranti e di violazioni di impegni solenni presi sull’onore e

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