Lebron James: Storia vera di un predestinato divenuto Re
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Anteprima del libro
Lebron James - Salvatore Malfitano
Salvatore Malfitano
LEBRON JAMES
Storia vera di un predestinato divenuto Re
Prefazione
di Flavio Tranquillo
«In una sera, è diventato la faccia della nostra Lega». Così Reggie Miller, dopo i 48 punti nel 2007 a Detroit, sancì una cosa che all’epoca, nonostante Jordan, non mi era così chiara: che un campionato (ma forse uno sport intero) potesse essere rappresentato da una faccia. All’epoca eravamo più ingenui, e quindi per nulla migliori. Non ci rendevamo conto di cosa avrebbe significato quell’ascesa definitiva all’Olimpo cestistico per l’Nba, per LeBron James e per noi. Già qualche anno prima, peraltro, non mi ero reso conto di cosa significasse che Espn si muovesse per riprendere una partita liceale e che quella partita finisse dritta dritta anche sugli schermi italiani (allora quelli di Tele+). Allo stesso modo, non mi ero reso conto che The Decision, pur accolta male all’epoca, fosse un prodotto antesignano di altri prodotti che avrebbero cambiato per sempre il settore media. Insomma, in molti momenti chiave c’ero, ma di certo dormivo.
Ora lo sappiamo che molti di quei momenti equivalgono a vere e proprie date storiche, ma mentre le cose accadevano davanti ai miei occhi io non lo capivo, pur avvertendo che stava succedendo qualcosa di importante. Proprio per questo è il caso di riavvolgere il nastro, per comprendere bene cosa ci sia dietro quella faccia, che nel frattempo è arrivata a rappresentare molto di più di una lega sportiva. Un concetto, questo del molto di più
, a sua volta riconducibile a chi si è auto-definito «more than an athlete», arrivando nel 2020 a recitare un ruolo di primo piano nel panorama politico e geopolitico, ben al di là del pur significativo impatto sulle elezioni presidenziali statunitensi. Rileggendo la cronologia ragionata della sua vita, ricostruita con attenzione, si scopre che in qualche modo, come diceva Riccardo Cocciante, era già tutto previsto. Il punto è proprio questo: che LeBron James diventasse LeBron James è stato previsto, nei minimi dettagli. Non sto certo dicendo che un Grande Vecchio abbia dato mandato agli scienziati di creare in vitro lo specimen che da vent’anni sta dominando il basket mondiale. Semplicemente, la sorte ha messo un giocatore con quelle caratteristiche fisiche e tecniche alle porte dell’Nba proprio in quel momento, quello ideale per uno così. In più, la sua vicenda biografica era (ed è) perfetta per fare di quel giocatore la faccia della Lega, amata e odiata allo stesso tempo, come solo Catullo aveva fatto con Lesbia.
«I’m LeBron James from Akron, Ohio. From the inner-city. I’m not even supposed to be here. So what everybody says about me off the court, don’t matter. I ain’t got no worries», disse sul podio delle Finals 2013, spiegando esattamente perché il suo profilo fosse quello ideale per quel ruolo: perché lui non doveva esserci, perché prima di lui quelli come lui, lì, non ci erano arrivati, e se anche ci erano arrivati si erano subito fermati, mentre lui (dieci anni dopo) sta sempre lì, in cima. Questa ambivalenza tra essere predestinato ed essere improbabile è l’essenza della narrativa lebroniana. Narrazione
, come "story-telling", è l’ennesima parola il cui significato ci è più chiaro grazie alla parabola di LeBron James, che ha dominato la sua narrazione con la stessa maestria con cui evita gli avversari in contropiede.
Scrivo questa breve prefazione poche ore prima che cominci la finale della Western Conference, a cui i Lakers sono pervenuti nonostante l’età e il piede di un giocatore che sfida letteralmente il tempo. Un risultato talmente eclatante, viste le premesse, da rappresentare l’ennesimo capitolo perfetto della carriera del nostro. È la stessa notte in cui si deciderà la destinazione di Victor Wembanyama, il prossimo predestinato. Anche il francese farà bene a leggere le pagine che vi attendono, perché la vita di LeBron è la miglior guida possibile per superare indenne tutte le curve che il nativo di Akron ha calibrato con la perfezione di un Valentino Rossi. Spero che Wembanyama realizzi che esiste un’età dello sport (non del basket) pre-LBJ, e una post-LBJ. E che prima di Atlante, nessuno aveva gestito un peso del genere con simile perizia. Buona avventura a lui, e buona lettura a voi.
Prima parte
Le origini del mito
Ad Akron, in Ohio, Hickory Street si sviluppa in parallelo al Little Cuyahoga, da cui dista in linea d’aria poche centinaia di metri. Quel corso d’acqua è un affluente del Cuyahoga, che si mantiene stabilmente ai piani alti della classifica dei fiumi più inquinati degli Stati Uniti. È un’immagine che ben racchiude le criticità di un centro abitato problematico fin dalle fondamenta naturali, dove poi le difficoltà sul piano sociale seguono una linea evolutiva preoccupante, che inizia dalle morse della povertà e sfocia nella criminalità. Gloria James vive di persona la prima fase, e più superficialmente la seconda. Chissà che faccia avrebbe fatto se a sedici anni, mentre si sfrega il pancione pensando a quando avrebbe messo alla luce il suo maschietto, le avessero detto che oltre trent’anni dopo avrebbe vissuto in una lussuosa proprietà immobiliare così estesa che avrebbe potuto contenere 3200 e più persone, secondo la densità cittadina dell’ultimo censimento (2020).
Nel 1984, infatti, la situazione era radicalmente diversa. Gloria frequenta la Central High School, vive al numero 439, che fa angolo con Overlook Place, insieme ai fratelli Terry (di tre anni più grande) e Curt (di sette più piccolo), la mamma Freda e la nonna, che per tutti è Big Ma. Ma soprattutto, nonostante la giovane età, porta un bimbo in grembo. È il frutto di una relazione occasionale con Anthony McClelland, che davanti alla gravidanza della ragazza non ha intenzione di assumersi alcuna responsabilità. E di lui, non a caso, a parte il ruolo nel concepimento di LeBron Raymone James (questo il nome del nascituro), si ricorda poco di encomiabile se non una discreta predisposizione per il basket, ma mai coltivata.
Il resto si può tratteggiare guardando una fedina penale che vanta diversi reati, piccoli per la maggior parte, dove però spiccano il furto e l’incendio doloso, con cui conosce il carcere. Gloria non è affatto scoraggiata, né di essere una ragazza madre né di dover badare a un bambino senza una figura paterna. Ha già aiutato la mamma a prendersi cura di Curt e, in fin dei conti, a casa nessuno è spaventato dall’accogliere un nuovo arrivo. Partorisce il 30 dicembre al City Hospital, la stessa struttura in cui verrà al mondo, meno di quattro anni dopo, Steph Curry: le traiettorie imperscrutabili del destino lo metteranno contro LeBron in una delle rivalità più belle e avvincenti dell’era moderna sportiva.
Lì, dove i binari corrono allineati alle case di legno, vivono i James. Il quartiere è conosciuto come Boondocks, popolato perlopiù da afroamericani. Il classico posto che i genitori del centro sconsigliano vivamente ai figli di frequentare. Il tenore di vita non è affatto elevato: Freda è una parrucchiera, i ragazzi fanno lavoretti saltuari per racimolare qualche soldo in più. Quasi ogni mese bisogna chiedere un rinvio sul pagamento dell’affitto, ma in qualche modo si tira avanti. Gli equilibri, già così sottili, si spezzano quando nel giro di poco tempo muoiono sia Big Ma che la figlia. Freda, peraltro, si spegne proprio la notte di Natale del 1987, LeBron non ha nemmeno tre anni e con quelle mani ancora così piccole scarta il regalo che gli ha lasciato la nonna: una pallina e un canestro. È uno degli ultimi momenti spensierati della sua infanzia, prima che l’enorme peso della quotidianità si abbatta su una famiglia di ragazzini ritrovatasi di colpo col ventiduenne Terry come membro più anziano.
Gli inverni di Akron non sono affatto gentili. A gennaio e febbraio è davvero raro che le temperature si sollevino con decisione oltre lo zero, talvolta andando anche al di sotto. LeBron, Gloria e i suoi fratelli devono farci subito i conti, in tutti i sensi, specialmente perché con quel poco che riescono a rimediare non c’è la possibilità di permettersi i riscaldamenti accesi. I Boondocks non sono il posto più gradevole dello Stato, e quell’atteggiamento quasi discriminatorio del resto della città ha finito per unire gli abitanti del luogo, che si fanno forza a vicenda. È proprio questo aspetto a venire in soccorso dei James. Nel quartiere, infatti, tutti conoscono le condizioni in cui versano. Sul lato opposto di Hickory Street vive Wanda Reaves, che un giorno fa visita ai ragazzi per vedere come se la passano. È pervasa da un profondo senso di angoscia quando si guarda intorno: l’ambiente è gelido, i piatti sporchi si ammassano in cucina, negli assi del pavimento del soggiorno c’è addirittura un buco. Abbastanza profondo. Incalzata dai figli, non esita ad aprire le porte di casa sua a quegli orfani. Non ha molto da offrire, se non un divano e il tepore necessario. «Non sopportavo il pensiero di lasciarli al freddo», racconterà in futuro la donna.
Attraversano la strada con una sola valigia e un elefante blu di peluche. Per qualche mese il piccolo LeBron prova sensazioni contrastanti. Da un lato avverte la dimensione familiare che forse non si era nemmeno accorto di aver perso; dall’altro, invece, comincia a realizzare nel limite delle sue possibilità che qualcosa è irrimediabilmente cambiato. Lo fa scontrandosi con la mancanza della mamma, perché Gloria è costretta a fare tre lavori per mantenere la loro abitazione e a volte non riesce nemmeno a rincasare. Di giorno i ragazzi del posto si prendono cura di lui, giocano tutti insieme. Alternano il football al basket, il canestro di fortuna che usano è sul retro della casa dei James: una cassetta del latte attaccata alla parete di una stalla. LeBron è il più piccolo, e quale che sia la sua forma, la palla la vede sempre poco. Dettaglio marginale, dato che le circostanze ben presto peggiorano.
Nonostante gli sforzi, Gloria non riesce a coprire tutte le spese. L’abitazione viene rasa al suolo, i James si ritrovano letteralmente senza un tetto sopra la testa. Sono costretti a dividersi: Gloria resta al fianco del suo bambino e cominciano a girovagare tra amici, parenti e conoscenti, ogni giorno senza sapere dove dormiranno quello successivo. Spesso i contesti in cui si trovano sono tutt’altro che sicuri, crescono tra droga e colpi di pistola, luci blu e sirene… ma non si può essere selettivi sull’accoglienza. Per sette giorni, Gloria finisce anche in prigione: oltraggio alla corte, violazione di domicilio e disturbo della quiete pubblica. Uno dei punti più bassi lo tocca nell’anno in cui cambiano abitazione sei volte, una delle quali venendo cacciati da un appartamento in un condominio pronto a essere demolito. In questo periodo LeBron cresce con una specie di figura maschile di riferimento, che però è ancora presto per definire paterna
. Eddie Jackson è un promotore di concerti, ha una relazione instabile ma a suo modo costante con Gloria. Eppure, in questa serie frenetica di cambiamenti, nemmeno lui riesce a diventare una presenza effettiva: nel 1991 viene condannato a tre anni di reclusione per possesso e spaccio di cocaina.
LeBron e sua madre non sono le uniche persone alla ricerca di un minimo di normalità, le liste d’attesa per ottenere un alloggio sovvenzionato dalla città sono interminabili. In uno di questi, all’interno di un complesso residenziale di mattoni sbiaditi, vivono dei conoscenti di Gloria che ospitano lei e il piccolo James nell’estate del 1993. Ma dura poco. Mentre i ragazzi giocano a football in un parcheggio nelle vicinanze avviene il primo degli incontri che finalmente cambieranno in positivo la vita di LeBron.
Bruce Kelker è una sorta di San Paolo nella periferia di Akron. I suoi peccati sono la droga e l’alcol, che gli hanno impedito di fare strada in questo sport, incidendo in modo significativo anche negli anni successivi. La sua rivelazione damascena avviene quando riesce a uscire da quella spirale mortale e decide di utilizzare la propria esperienza mettendosi al servizio della comunità, affinché nessun giovane vi cada. Ma anche prima di restare intrappolato nelle dipendenze, non era una cima. Racconta che la madre gli chiese come volesse utilizzare dei soldi, se nella retta scolastica o in un paio di scarpe, e lui scelse la seconda opzione.
Fatto sta che Kelker riparte da ciò per cui era tagliato e allena gli East Dragons, che a dispetto del nome imponente sono una squadra di football composta da bambini di età compresa tra gli otto e i nove anni. Come di consueto, gira per la città per reclutare nuovi giocatori. Ha bisogno di un running back e qualcuno gli ha parlato di LeBron, però i suoi occhi si posano prima su Gloria. È rapito dalla bellezza e dalla fierezza che esprime, anche se la ragazza si trova semplicemente seduta sui gradini all’esterno dell’appartamento. Scambia qualche parola con i ragazzini, poi chiede loro di sfidarsi in una gara di corsa su un centinaio di metri; LeBron vince staccando i rivali, e Kelker capisce di aver trovato quello che stava cercando. Vuole parlargli, ma Gloria a quel punto si intromette. La diffidenza è la più immediata delle conseguenze per chi la vita è tutta uno slalom tra guai e cattive compagnie.
Apprese le intenzioni del coach ci sono altri ostacoli non di poco conto: Gloria non ha un’auto per portarlo agli allenamenti, né tantomeno i soldi per pagargli l’attrezzatura. Kelker la rassicura, le spiega che provvederà lui a tutto. Lo va a prendere ogni pomeriggio, anche quando non è in programma alcuna seduta: in questo modo riesce a star dietro a ogni trasloco forzato. In breve tempo, anche se non ha ancora sviluppato un carattere da leader, LeBron diventa trascinatore e idolo dei suoi compagni, complice anche una struttura fisica ampiamente sopra la media rispetto ai coetanei. Tuttavia, la mancanza di tranquillità nella vita dei due spaventa l’allenatore, sia perché li ha presi a cuore sia perché teme che a causa di uno di questi spostamenti possa perdere un giocatore così promettente.
Così propone a Gloria di lasciare che LeBron possa trasferirsi da lui, ma come può una madre separarsi dall’unica ragione di vita che ha? Allora estende l’invito anche a lei. Accetta, ma vuole dare concretamente il suo contributo: cucina un paio di volte alla settimana gli hamburger per tutti e grazie all’assegno di disoccupazione versa una quota dell’affitto. Per qualche mese i James si accampano da Kelker e la compagna. «Senza dubbio i piedi più puzzolenti del mondo», ricorda l’allenatore. Nel frattempo, Gloria diventa praticamente la team manager degli East Dragons, li segue ovunque, corre sulla linea laterale insieme al figlio senza perdersi nessuno dei diciassette touchdown della stagione di LeBron. Esulta con lui. A ogni modo le difficoltà per il giovane non mancano, la sua superiorità è tanto schiacciante che i tecnici e i genitori degli avversari mettono in dubbio la sua età, chiedendone anche il certificato di nascita. Il giovane assume una postura strana, piega le ginocchia e inarca la schiena per ridurre l’altezza pur di non diventare il bersaglio di certe insinuazioni. Ma rimane il più bravo, e questo non può nasconderlo.
Nell’autunno del 1993 Gloria e LeBron sono costretti a rifare i bagagli. La fidanzata di Bruce Kelker non vuole proseguire ulteriormente questa strana convivenza, i James se ne rendono conto. Spinta dall’amore per il figlio, Gloria inizia a maturare la consapevolezza di quanto sia complesso rimanere insieme e al tempo stesso garantirgli una vita adeguata. Lei può accontentarsi di un divano, ma non vuole che lo stesso valga per il bambino. Riflette su diverse possibili soluzioni: mandarlo a Youngstown, sempre in Ohio, da alcuni parenti, o anche a New York. È proprio in questo frangente che fa la sua comparsa un’altra figura fondamentale. Kelker è dispiaciuto di lasciare che Gloria e LeBron tornino allo sbando e parla del ragazzo a un amico, Frank Walker, che nel tempo libero allena una squadra di football e una di basket: guarda caso, avrebbe proprio bisogno di un rinforzo per quest’ultima.
Nel giardino dei Walker, con ogni probabilità, LeBron per la prima volta ha l’opportunità di giocare con un canestro vero. Sfida uno contro uno Frank jr, il maggiore dei tre piccoli Walker, che è più grande e più pratico della disciplina. Si arriva a 21 punti e LeBron ne segna solo 7, ma Frank resta piacevolmente impressionato. Intravede del talento da sgrezzare in quel giovanotto dagli occhi