Ai fiori non serve il pettine
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Anteprima del libro
Ai fiori non serve il pettine - Ilaria Santambrogio
1.
17 settembre 2018.
Il sole entra dalla finestra e forma un quadrato di luce sul pavimento dietro di me.
Apro il rubinetto, verso il bagnoschiuma al gelsomino e mentre aspetto che l’acqua riempia la vasca mi guardo allo specchio. Le lampadine che ne disegnano il perimetro sono accese: tante piccole sfere lucenti moltiplicate dal riflesso. In attesa.
Guardo il mio volto, la linea del collo, le spalle, la curva del seno sotto la canottiera azzurra. Respiro. Torno al volto.
Non lo osservo mai tanto a lungo, questo viso senza capelli intorno.
È così da tanti anni, da quando ne avevo venti.
Ora ne ho quarantaquattro.
Percorro con l’indice la cicatrice delle sopracciglia che mi ero tatuata quando i capelli avevano cominciato a cadere. Ogni tanto dico: quando ho cominciato a perdere i capelli, ogni tanto preferisco: quando hanno cominciato a cadere. Perché non è che mi sia distratta e li abbia persi, i capelli. Se ne sono andati un po’ per volta.
Poi, le ciglia.
Sempre più rade.
Potrei contarle, ma l’ho fatto da poco.
Vorrei essermi dimenticata il numero.
Accarezzo la testa ‒ glabra, lucida ‒ tra la luce artificiale e la luce del sole.
La pelle è morbida, tesa.
Un tamburo silente.
Un uovo nel nido.
La luna quando è piena, metà in ombra, metà no.
Una tazza di ceramica vuota, rovesciata.
Una donna del futuro? Di un mondo lontano, di un altro pianeta?
Lontana da cosa? È così vicina. È qui.
Mi avvicino e ruoto la testa verso destra, verso sinistra. Voglio vederela nella sua rotondità, trattengo il respiro in un altro respiro.
Ora sono più vicina alla me stessa nello specchio, soggetto e insieme oggetto dell’immagine, metto a fuoco il centro nero della pupilla e la corolla castana dell’iride.
Ricomincio a respirare e le narici si riempiono del profumo di gelsomino. Faccio un passo indietro, due, finché il mio corpo intero, slanciato nella lunga canottiera azzurra, si trova al centro della pozzanghera di luce calda che entra dalla finestra. Non so se pronuncio davvero queste parole. So che le penso, le sento, mi parlano, desiderio e decisione insieme.
E arrivano dritte alla mia immagine riflessa: voglio un fiore.
2.
Una mattina di fine giugno del 1983. Ho nove anni e sono in camera, seduta sul tappeto tra il mio letto e quello di Elsa. Sto pettinando la testa della mia bambola rotta.
Papà mi ha promesso che la aggiusterà, che riattaccherà la testa al corpo.
Infilo due dita dove dovrebbe esserci il collo, facendomi male, e ho le idee chiare su almeno un paio di cose: la quarta elementare è finita da poco e a settembre tornerò a scuola con i capelli molto più lunghi. Ho sentito dire che possono crescere anche di due centimetri al mese e, visto che ora mi arrivano sotto le orecchie, alla fine dell’estate li avrò fino alle spalle.
Ha capelli lucenti e biondi, la mia bambola, quasi bianchi; capelli che pettino con pazienza e senza grande successo. Ha guance di plastica pienotte, occhi piccoli, celesti, infossati nella pelle aranciata, le ciglia dure come unghie, una minuscola bocca fucsia.
Certo, vorrei anche una Barbie.
Ieri c’è stata la festa di Giorgia, che per il suo compleanno ha ricevuto la Barbie beauty secret, l’unica con la frangetta: i capelli sembrano veri, arrivano fin dietro le ginocchia. L’ho tenuta in mano per poco, giocando con la piccola spazzola, il pettine, il phon. Ma la mamma non vuole regalarmela, dice che trentanovemila lire per una bambola non valgono la spesa.
All’improvviso la porta si spalanca. Elsa entra come una furia urlando IO NON CI VENGO DALLA VILMA!, e si butta sotto il letto, seguita dalla mamma che dice vieni qui, andiamo adesso, basta capricci. Ila preparati anche tu, dobbiamo andare subito dalla Vilma.
Dalla Vilma?, chiediamo in coro. Ma perché?
Perché alla festa della Giorgia c’era Anna coi pidocchi.
Anna?! Anna non c’era alla festa, sta dicendo Elsa.
Grazie Elsa, penso.
Infatti, provo ad aggiungere io.
Ila non farmi diventare matta anche tu, andiamo, la Vilma ha tempo solo ADESSO, Elsa vieni fuori da lì sotto, ti riempi di polvere.
Metto la testa di bambola nella culla, poi mamma mi trascina via e il corpo della bambola resta sul tappeto, le braccia tese verso il soffitto.
Pidocchi: che parola buffa per questi animaletti quasi invisibili che ci infestano la testa, per giorni, a volte per settimane. Altro che occhi, ci vogliono, per toglierli: servono shampoo, litri di aceto, pettini e soprattutto un mare di tempo. Le mamme e le nonne, fuori da scuola, parlano solo di quello. Delle lenzuola che devono lavare, delle federe, dei cappelli, delle sciarpe da disinfettare.
Alcuni bambini ce li hanno sempre. Sono sei fratelli e sorelle, di età diverse. Sono i Nelli. Vestiti male, spettinati, le unghie sporche. Mentre mamma ci toglie i pidocchi dalla testa, dice: non siamo mica come i Nelli.
Se tutte le mamme sono terrorizzate dai pidocchi, la mia lo è di più. Ed è per questo che mette in campo un’altra strategia, la migliore secondo lei, la più efficace: il taglio dei capelli.
Ci porta dalla parrucchiera non appena comincia a circolare la voce, quando arriva l’autunno, quando un compagno, dopo una gita scolastica, comincia a grattarsi la testa.
E ora la festa di Giorgia e queste voci su Anna con i pidocchi.
Anna non c’era.
Ma la mamma non sente ragioni.
Mio papà e i miei zii, beh, loro non li vedo mai così preoccupati per i nostri pidocchi, ma solo per quelli che si nascondono tra i gambi e le foglie delle creature dell’Azienda agricola Fratelli Santambrogio: gigli, gladioli, crisantemi, tulipani, narcisi, fiordalisi, calle, fresie.
Pochi minuti dopo, siamo tutte e tre nella 128 bordeaux, il caldo di giugno entra dai finestrini e il sudore appiccica i capelli alla fronte, le gambe nude alla pelle dei sedili.
Elsa si è seduta davanti e continua ad aprire e chiudere il cassetto alla ricerca di una gomma da masticare che è sicura di aver nascosto lì tempo fa. Butta tutto per terra, la mamma la sgrida perché qualcosa le è finito tra i pedali. Io cerco un po’ d’aria con il naso fuori dal finestrino. Prendo fiato, vorrei interrompere questa corsa, deviarla, prendere tempo.
Palazzoni grigi, case basse, giardini che traboccano di rose, cortili troppo ordinati, quasi nessuno in giro.
Mentre ci avviciniamo alla parrucchiera a me sale la nausea, la sete, una fame che non c’entra col cibo, un vuoto che mi fa girare la testa perché so già che non mi ascolterà, ma comunque azzardo: mamma, puoi farmeli tagliare poco?
Ora ho un caschetto di capelli castano scuro, che arriva sotto le orecchie ‒ ora posso raccogliere i capelli in una minuscola coda e, quando c’è ginnastica, fermarli con mollette decorate con fragole o piccole albicocche, che mi portano fortuna nei salti e nelle gare di corsa.
Questi capelli, non più corti e non ancora lunghi... io non li voglio tagliare.
Ma la mamma dice solo: adesso vediamo cosa fa la Vilma. Taglierà quello che serve, quanto serve. La Vilma sa come fare. È il suo mestiere, non il mio.
Sì però, diciamo insieme Elsa e io, mentre un semaforo rosso nelle strade svuotate dal caldo ferma per un attimo una logica che non condividiamo: glielo diciamo noi quanto tagliare. Glielo possiamo dire noi, no?
A questa domanda la mamma non risponde, schiaccia il piede sull’acceleratore, stacca la frizione e parte con il motore su di giri.
Vilma ha una massa di capelli grigio-azzurri, ricci, rigidi; il naso molto grosso, le guance cascanti, la bocca chiusa in una smorfia di disapprovazione. Il corpo, un cilindro denso.
Il suo odore, acido, mi stringe la gola.
La poltroncina marrone che ci aspetta davanti allo specchio enorme può ruotare su se stessa, ma io salgo e resto immobile, mentre Elsa fa giri pazzi alzando e abbassando la propria e la mamma la sgrida più volte.
Per questo Vilma inizia da lei, da Elsa, per evitare che questa bambina che non sta mai ferma
avviti e sviti la sedia fino a romperla o a rompersi un gomito.
Io spero che Mariuccia, la parrucchiera che lavora per Vilma, si liberi in fretta dall’altra cliente e venga da me, com’è successo qualche mese fa.
Mariuccia mi piace: l’unica volta in cui mi ha tagliato i capelli, indossava un dolcevita rosso, aveva un profumo buono, di mandarino. Con le forbici in mano, ha chiesto a me come li volessi, poi li ha accarezzati e ha detto: sono così belli, Ilaria, così lucidi, lisci lisci, hai i capelli a spaghetti che avete voi Santambrogio, se li lasci crescere ti viene proprio un bel caschetto.
E aveva tagliato solo un centimetro.
Adesso ce l’ho, un bel caschetto.
Almeno fino ad ora, a questo pomeriggio con il cielo blu come uno schiaffo.
Mi guarda anche oggi con dolcezza, Mariuccia, e anche oggi sorride quando il suo sguardo incontra il mio nello specchio: mi fa sentire bella, tranquilla, a mio agio.
A casa, quando la mamma mi sorprende a guardarmi allo specchio, dice a mio padre, o a mia zia, in dialetto: a l’è vanitosa la fiola, trop trop, t’se t’se bela t’ste bela... come al cul de la padella.
Non vuole che io stia a lungo davanti allo specchio e non ci sta mai con me.
Guardarsi, per lei, è solo vanità. Chissà cosa potrebbe succedere se mi guardassi troppo allo specchio, ancora non l’ho capito.
E il commento, in dialetto, arriva anche quel giorno, rompendo l’incanto tra me e Mariuccia: io distolgo lo sguardo, Mariuccia apre la porta del negozio a una cliente.
Vilma si avvicina, io smetto di respirare. Le sue forbici luccicano, il suo odore, nel caldo, mi dà il voltastomaco.
Sposto gli occhi dal mio volto alla pianta accanto alle riviste sul ripiano di marmo, una pianta che vorrei toccare, vorrei sapere se è viva o se è di plastica o di pietra. Come me, ora.
Cerco di non ascoltare il rumore della forbice, di sconfiggere il suo sibilo con la volontà. Ma non ci riesco. È troppo netto, troppo cattivo.
Quando mi alzo dalla poltroncina marrone mi sembra passato un secolo. Il corpo è indolenzito per lo sforzo di non piangere.
Mariuccia si è avvicinata e raccoglie le ciocche dei miei capelli con la scopa rossa e la paletta dello stesso colore: un mucchietto leggero, vaporoso, di capelli castano scuro, quasi neri, pronti per la spazzatura.
Vedrai che ricrescono in fretta, sussurra passandomi ancora una volta il pennello con il borotalco sul collo nudo, delicata, una carezza che sfiora appena i miei capelli ora cortissimi.
Sento arrivare la piena di lacrime, ma strizzo forte gli occhi due volte per non piangere.
Esco dal negozio con il taglio che hanno i miei compagni maschi, Alessandro o Matteo.
Sono più pratici ora che arriva l’estate, dice la mamma mentre corre dietro a Elsa che saltella su e giù dal marciapiede: i capelli più corti non l’hanno certo resa meno ribelle, meno desferla. Io resto indietro, cammino piano. La mamma non si gira, non mi aspetta. Quando arriva all’auto si volta e mi fa un cenno con la mano come dire: sbrigati.
Il sole asciuga il borotalco e mi brucia la nuca.
3.
La sera, mi viene la febbre e vado a letto presto, sfinita. L’aria è un brodo. Il tramonto sbiadisce senza bellezza. Le guance, rosse di febbre e gonfie di rabbia che non so esprimere, sembrano più grandi del solito: nello specchio, lavandomi i denti, le vedo enormi.
All’improvviso sono tutta faccia, con una piccola corolla di capelli.
Mi sdraio nel letto rabbrividendo.
Mi tiro il lenzuolo sopra la testa per scomparire, mi giro su un fianco, nella posizione in cui mi sistemo, ogni sera, per sognare ad occhi aperti. Infilo le mani sotto il cuscino, unite, giunte, i palmi e le falangi combacianti. È il mio ciak segreto. Il ciak dei film in cui sono protagonista, regista, sceneggiatrice, in cui decido tutto io. I film di Ilaria con i capelli lunghi, ma non sotto le orecchie, proprio lunghissimi, fino al sedere, come la Barbie, a volte con la frangetta, a volte senza, a volte lisci e biondi, altre volte una cascata di boccoli neri punteggiata di fiori.
Nei miei film posso essere tutti i personaggi che desidero: Candy Candy con una nuvola bionda tutt’intorno, una campionessa mondiale di pattinaggio sul ghiaccio o una pianista come quella che il parroco ha chiamato per il concerto di Natale a Gessate. Posso sposarmi con un vestito bianco, cavalcare nelle praterie americane o volare sulle ali di un’aquila tra le vette delle montagne.
Nel dormiveglia, questa sera, pattino sul ghiaccio a ritmo di musica. Scivolo leggera con un vestito bianco, ho mille perline tra i capelli annodati in una lunga treccia a spiga, una treccia che ho visto sulla testa delle mie compagne durante i saggi di ginnastica ritmica. Una treccia che dopo il taglio di oggi non avrò mai, e mi chiedo che cosa abbia fatto di male per non avere mai, proprio mai, i capelli così lunghi.
Poi ‒ sarà la febbre ‒ perdo il controllo del mio fantasticare e la musica si affievolisce, dimentico la coreografia, ho paura di non riuscire a finire la mia esibizione e sento solo i battiti del cuore sempre più forti.
Spalanco gli occhi nel buio: appoggio una mano al petto mentre la finestra sta sbattendo. Insieme alla notte è arrivato il vento e con il vento il temporale.
Tuoni e lampi entrano nella stanza, io sudo.
Arriva la mamma e chiude le finestre.
Mamma, ho paura...
Su su, ho chiuso tutto, vedrai che non senti più niente, ora devi dormire.
Devi. Solo devi. Senza una carezza, senza baci.
Si sta già allontanando quando arriva l’urlo di Elsa dal letto vicino al mio: mamma, ho sete! Ha urlato più forte del temporale.
La mamma torna, e torna il lampo. Porta un bicchiere d’acqua e resta un attimo in piedi vicino a Elsa, aspettando che finisca di bere. Dobbiamo togliere queste adenoidi, dice a voce alta mentre le regge il bicchiere.
Non le voglio togliere!, risponde a voce alta mia sorella.
A furia di urlare non fai che rovinarti le tonsille!
Dai adesso dormite, dice a entrambe.
Io, zitta e ferma, sono più sveglia che mai, stordita dalla febbre.
È andata via.
Ho sete anch’io, ma non ho detto niente.
Ho sete e paura, come tutte le volte in cui c’è il temporale.
Elsa dorme. Lei che ha bevuto, può dormire.
Io non