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E-book273 pagine3 ore

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Info su questo ebook

Eugenio e Roberta non sono tipi che si arrendono facilmente. Anche se, dopo anni di tentativi, visite, rimedi alternativi e soluzioni che sembravano infallibili, non sono ancora riusciti ad avere un figlio. Ma questa difficoltà li avvicina ancora di più, li fa maturare come coppia e come persone. Certo, i tentennamenti e i momenti apparentemente disperati non mancano ma tutto, con fatica, si supera. Una storia di una paternità cercata e sofferta che tramite l'esperienza di Eugenio riflette quella di molte persone, un'esperienza fatta di determinazione, resilienza e speranza.-
LinguaItaliano
Data di uscita7 apr 2022
ISBN9788728315439

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    Anteprima del libro

    Sei sempre stato qui - Eugenio Gardella

    Sei sempre stato qui

    Translated by

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 2016, 2022 Eugenio Gardella and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728315439

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    La scelta

    15 dicembre 2003

    Sperlonga

    Lascio cadere a terra la sigaretta, osservo la brace spegnersi lentamente, e ascolto il silenzio delle pietre che emergono, come ossa, dal buio della terra addormentata.

    Succede che il destino e il caso mi chiedono di compiere una scelta.

    Io e Roberta ci siamo ritrovati su queste spiagge dove la sabbia si accumula in disperate dune preistoriche, dove si nascondono grotte irte di stalattiti scolpite da uno stillicidio paziente, grotte che si spalancano come gigantesche bocche di squalo, bocche che domani scaleremo per andare incontro ai nostri sogni.

    La brace si è spenta.

    Roberta ora dorme libera dai pensieri che invece inseguono me sotto la luce di questa luna.

    Ritorno con la mente ai giorni trascorsi e lo faccio per prendere lo slancio verso il futuro che sta per arrivare. Le mie dita corrono alla cicatrice incisa nella mia gola, ai rasoi che hanno scavato la carne e alle viti di titanio nelle mie vertebre.

    Mi dico che non sono qui solo per sperare ancora una volta di guarire e tornare a salire sulla roccia, forse sono qui per respirare il profumo di queste terre di timo, salvia ed elicriso insieme a lei.

    Ripenso all’autunno di vento caldo in cui Roberta ha perso il lavoro e al giorno in cui l’ha ritrovato. Ripenso anche alle sere in cui tornavo dalle pareti di Finale Ligure, dopo aver ancora tentato di scalare, ritorno alle notti in cui la ritrovavo mentre, con il volto assorto nella nostalgia, scacciava il pensiero del figlio mancato, e di quello che avrebbe potuto essere.

    Poi rivedo quella mattina di sole.

    Davanti a un tavolo sommerso da fogli di carta e libri, studio la vita di uomini che mille anni fa hanno vissuto in Scandinavia, vedo la terra e il mare che loro hanno visto, e scrivo la storia che mi raccontano.

    In quel momento Roberta viene da me.

    Dice che mi deve parlare.

    Aspetto, non so cosa sta per dire, so solo che non sprecherà parole.

    «Ho pensato che potremmo adottare un bambino», dice. «Le pratiche sono molto lunghe, intanto, e possiamo iniziarle.»

    Io resto lì appeso fra un istante e l’altro, aggrappato a un incerto silenzio.

    Nella mia mente cominciano a sgretolarsi le idee, le immagini, e i sogni con cui ho sempre costruito il mondo. Un’onda di paura mi travolge e con essa il pensiero che non vedrò mai mio figlio.

    Poi l’onda torna al mare da cui è venuta.

    «Non so… È la prima volta che ci penso», rispondo. «Ho bisogno di un po’ di tempo.»

    Smetto di ricordare e ritorno al presente, al buio di questa notte.

    Guardo questa luna e sembra che anche lei mi stia guardando.

    Mi viene in mente una antica leggenda, dove Ishtar, la Dea della luna, scendeva negli inferi per salvare suo figlio, ma per farlo abbandonava il mondo degli uomini gettandolo in un’epoca di distruzione e sterilità. Alla fine Ishtar tornava, perché da esile falce di luna era ridivenuta piena; tornava avendo salvato suo figlio, tornava e riportava la fertilità nel mondo, dopo avere imparato a ricreare se stessa.

    Respiro il buio di questa notte mentre questa luna continua a non lasciarmi dormire e mentre i monti resi aridi dal sale del mare mi chiedono di salvare mio figlio.

    Accendo la brace di un’altra sigaretta, la luna è sempre silenziosa, il fianco del monte sembra ancora un dinosauro addormentato e io aspetto che la scelta mi venga a prendere.

    Prima parte

    1

    Il nuovo millennio

    1 gennaio 2000

    Gressoney

    Mentre là fuori si scioglie una notte di buio e ghiaccio, nel rifugio il rumore delle bottiglie di spumante che vengono stappate saluta l’arrivo del nuovo millennio. Io e Roberta scambiamo con gli altri auguri e abbracci e ci appartiamo dalla piccola folla che occupa il poco spazio della stanza, un unico ambiente costruito in legno e rischiarato da una luce calda e accogliente.

    Quando lei fa tintinnare il bicchiere con il mio, noto che il suo sorriso è più luminoso del solito, noto che c’è qualcosa di strano nei suoi occhi.

    Seguendo l’impulso la stringo fra le braccia e la bacio, ma lei, ridendo, si libera dal mio abbraccio, appoggia il bicchiere sul tavolo e mi fissa.

    Reggo il suo sguardo senza sapere che, fra qualche istante, la nostra vita cambierà per sempre.

    «Sai…» dice. «È da un po’ che devo parlarti.»

    Il tono della sua voce, adesso, esprime agitazione.

    «È successo qualcosa?» le chiedo.

    Lei si fa incerta, come se dovesse rivelare un segreto imbarazzante, quindi riprende il bicchiere e guarda la neve buia oltre il doppio vetro della finestra.

    «No», mormora. «È che sono a metà strada fra i trenta e i quaranta. Penso sia venuto il momento di provare ad avere un figlio.»

    La grandezza di ciò che potrebbe essere mi avvolge senza che io quasi me ne accorga.

    Mi ripeto la frase che lei ha appena pronunciato e cerco di decifrarne il significato.

    Roberta mi scruta sorridendo appena.

    Io intanto penso che per me la famiglia non è mai stata quel luogo sicuro che forse dovrebbe essere. Mi rivedo bambino, mi rivedo quando i miei genitori si sono separati e poi mi rivedo ancora accasciato su un letto di ospedale, quando mio padre è morto prima che riuscissi a frantumare il silenzio che c’era fra noi.

    Roberta aspetta una risposta, ma io non riesco a parlare. Allora mi dico che, nonostante tutto, ho sempre desiderato essere padre in un futuro lontano.

    «Inizieresti subito?» chiedo.

    Lei mi osserva pensierosa, poi parla tenendo le mani immobili e rigide lungo i fianchi.

    «Non è che dobbiamo decidere adesso», dice. «E poi non è mica detto che un figlio arrivi subito.»

    Mi muovo, incerto, immagino di essere davvero buffo ai suoi occhi, poi la prendo per le spalle e la bacio.

    «Non credo che ci sia molto da riflettere», dico. «Hai già detto tutto tu… Vogliamo festeggiare?»

    Lei si apre in un altro grande sorriso e mi scompare fra le braccia.

    «Bene», dice ridendo e guardandomi di sotto in su. «Con un papà così vorrà sempre starti in braccio!»

    Un fragore di applausi ci strappa bruscamente dai nostri istanti, occupando lo spazio del rifugio, e io tento di ritrovare la nostra intimità rispondendo alla sua ultima frase con un altro bacio.

    «Auguri, mamma Roberta», dico.

    Ci lasciamo trasportare, per un po’, dall’allegria della festa, poi il desiderio di respirare il ghiaccio dell’inverno mi trascina fuori, all’aperto.

    Muovo qualche passo allontanandomi nella notte.

    La neve è ghiacciata e dura come vetro. Le voci ovattate che provengono dal rifugio si disperdono nel silenzio della montagna.

    Mi guardo attorno.

    Sono felice di essere qui. Penso che per arrivare quassù abbiamo camminato una giornata e scolpito profonde orme nella neve, penso che adesso le vette sono attorno a me e mi stanno addosso, che il gelo mi avvolge in un abbraccio reso affascinante dalla certezza di poter trovare riparo senza difficoltà.

    Senza intuire la tempesta che sta per piovere sui nostri giorni, mi accendo una sigaretta, ascolto il crepitare degli scarponi sulla neve, e cerco un angolo di buio per osservare la stellata.

    Oltre la cintura di Orione, oltre il grande carro, vedo la mia costellazione preferita, l’anello impalpabile e raro delle Pleiadi.

    Forse, mi dico, è la suggestione del millennio che inizia, ma mi ritrovo a osservare la vita alla luce di queste stelle. Ho trent’anni, le mie mani da arrampicatore non sono mai state così forti e mi sento quasi invulnerabile. Pochi mesi fa ho avverato un sogno, scalando una via che credevo per me impossibile sulla roccia della Valle d’Aosta, io e Roberta siamo felici e abbiamo deciso di avere un figlio.

    Il futuro è lucente ed esorbitante di cambiamenti.

    Poi mi ritrovo nel magazzino degli attrezzi e noto una scure piantata in un ceppo. La afferro per saggiarne il peso, ma vedo, con inquieto stupore, il mio polso che cede, flettendosi in modo innaturale, come se il mio braccio non mi appartenesse più. Prendo l’attrezzo, con la mano sinistra, e lo sollevo come fosse senza peso.

    Sono un atleta, conosco il mio corpo, e quando rientro fra gli altri la loro allegria mi avvolge, come pioggia gelata.

    2

    I giorni dell’attesa

    Gennaio 2000-20 luglio 2001

    Genova

    I primi mesi dell’anno Duemila trascorrono fra visite mediche e verdetti unanimi, che mi capitano addosso, stringendomi in un’invisibile prigione di ferro e ruggine.

    Poi un giorno il telefono squilla. È Enrico, forse l’unico capace di comprendere davvero quello che sto vivendo.

    Mi chiede come è andato l’ultimo esame e io ascolto la mia voce rispondere, come se provenisse da un mondo di cui non ho esperienza.

    «Ernia cervicale, compressione del nervo, paresi parziale del braccio destro e probabile, e definitiva, conclusione di ogni speranza.»

    Dall’altra parte del filo viene un istante di silenzio, poi la risposta arriva, come di consueto, inconfondibile.

    «Loro, le persone normali, non capiranno mai», dice. «‘Impossibile’ è una parola che esiste fino a quando qualcuno non riesce a dimostrare il contrario. E tu ci riuscirai.»

    Sorrido pensando che solo lui poteva dirmi una frase simile. Sorrido perché Enrico è l’unica persona che conosco in grado di parlare improvvisando aforismi. A volte mi sembra che provenga da un altro pianeta e questo è uno dei motivi per cui mi piace stare con lui.

    «Speriamo che tu abbia ragione», dico, osservando una mosca che vola nel vuoto della stanza in cerchi ossessivi e ciechi. «Quello che mi fa rabbia è che molti dei medici che ho incontrato abbiano solo pensato a intascarsi un po’ di soldi, per poi dirmi che intanto a trent’anni sono ormai vecchio per lo sport.»

    «Sono degli idioti», dice lui. «E non sono in grado di capire persone come noi. A volte, vorrei spiegare cosa significa per me arrampicare ma, alla fine, credo che non riuscire a spiegare il motivo di una passione sia la prova più eloquente della sua esistenza.»

    Sorrido ancora alle sue parole, ma è un sorriso che non può scacciare la rabbia.

    «E Roberta?» mi chiede. «Come sta?»

    «Be’! Io non sono uno che si lamenta, lo sai. Comunque lei mi sta appoggiando in tutto, speriamo che qualcosa si muova… Abbiamo anche pensato di avere un figlio…»

    Dall’altra parte c’è un attimo di silenzio.

    «Questa è una notizia!» esclama. «Con due genitori come voi diventerà l’arrampicatore più forte del mondo.»

    Parliamo ancora, gli chiedo come sta. Neanche per lui sono giorni facili, da mesi una grave tendinite all’anulare lo tiene lontano dalla roccia e ora problemi alle spalle rendono improbabile il suo rientro alla scalata. Penso che un suo abbandono sarebbe un lutto insanabile, anche per me. Poi ci salutiamo.

    Nelle settimane seguenti tento di trovare una via di uscita, ma i giorni sbiadiscono uno dopo l’altro e i dolori al collo mi costringono a casa.

    Reagisco e riesco a trasformare questa costrizione in libertà. Lo faccio scrivendo e leggendo, affollando le mie giornate di idee e personaggi invisibili che vengono a farmi visita, per portarmi in altri tempi e in altri luoghi.

    Non sono disperato anche se questo male, impalpabile e improvviso, ha strappato via la vita dai miei sogni, anche se, spesso, mi ritrovo stranito a osservare i muscoli del braccio destro che ignorano la mia volontà, forse per suggerirmi che i nostri corpi non ci appartengono, né più né meno di un miracolo avuto in prestito.

    Un miracolo con una data di scadenza ben precisa.

    Mi ritrovo a pensare che qualcuno ha reciso un filo elettrico e, con quello, la mia convinzione di essere invulnerabile.

    Ma non desisto. L’ostinazione che mi è rimasta addosso presto si tramuta in allenamenti concepiti per addestrare i muscoli ancora vivi a svolgere anche il lavoro di quelli paralizzati. Contro ogni presagio, mi capita un insperato successo e, anche se con estrema cautela, riprendo ad arrampicare.

    Ogni giorno mi dico che dovrei essere felice, ma so che non è così. Non è così perché io e Roberta aspettiamo ancora che il figlio desiderato arrivi, e questa attesa troppo intensa e profonda ci trasforma in prede che fiutano il vento alla ricerca del predatore.

    Intanto il tempo scorre come un fiume senza memoria, ma non è un fiume placido, è un fiume in piena, un fiume che ogni giorno porta via con sé intere città di uomini e donne, impedendo loro di pensare e di ricordare il proprio nome.

    Questo scorrere astratto e furioso porta via anche noi, ed è ormai lontana quella notte a Gressoney, la notte di buio e ghiaccio in cui lei mi aveva chiesto di avere un figlio.

    Forse tutto questo accade perché Roberta, ogni giorno, non mi annuncia nessuna novità e ogni giorno nasconde, anche a se stessa, il suo pensare alla nostra attesa gravidanza; forse questo accade perché anche io, in modo simile, tento di negare la mia malattia, la mia fragilità, e i sintomi, insondabili, che ne scaturiscono.

    Poi un giorno, durante un allenamento al muro di arrampicata indoor, che io e alcuni amici abbiamo costruito, Giovanni mi mostra un percorso.

    «Non è difficile», dice. «Non per te.»

    Osservo il muro di legno che strapiomba quarantacinque gradi oltre la verticale. Vedo i quaranta appigli colorati in vetroresina che lui mi indica.

    Sono addestrato a intuire al volo i movimenti guardando un pezzo di roccia o una parete artificiale. Capisco che questa sequenza di prese sarebbe stata facile per me, forse persino banale, prima di questa maledetta ernia alla cervicale che per troppo tempo mi ha tenuto fuori dai miei sogni.

    Fuori da quello che sono.

    Non so se riuscirò a farcela al primo tentativo, so, però, che Giovanni si aspetta che ci riesca.

    So che prima di questa maledetta ernia ci sarei riuscito.

    Faccio un cenno, come a dire che ci provo, mi allaccio le scarpette e parto.

    Ho il vantaggio di essermi spinto al limite tante volte, è così che ho imparato a fare ogni gesto utilizzando la quantità minima di energia. Risparmiando la forza per i passaggi più duri.

    Posso farcela, mi dico, posso farlo questo percorso. Devo farlo. Una volta, mi dico, l’avrei dominato a occhi chiusi.

    Mi alzo da terra. Mi accorgo che sto scalando leggero e veloce. I miei movimenti sono precisi. Supero un passaggio difficile, poi Giovanni mi indica una discesa.

    Devo oltrepassare il bordo di un volume che mi costringerà, come su un soffitto, con i piedi più in alto della testa. Una posizione non bella, noto dando un’occhiata di sfuggita: se mi scivola una mano rischio di cadere di schiena, ma posso andare tranquillo, penso, ci sono i materassi.

    Imposto il movimento.

    Sento l’appiglio a cui devo affidarmi. È buono, ho ancora tutta la mia forza e capisco che lo posso tenere, allora lo carico di tutto il mio peso, di tutta la mia rabbia, e, in un soffio, l’appiglio cede.

    Semplicemente si svita, sfugge dalla mia mano lasciandola vuota.

    È un istante.

    Cado.

    Non credevo che in uno spazio così breve l’accelerazione potesse essere così veloce.

    I piedi sono ancora lassù, per aria. Le braccia, anche, sono lassù, e non ho il tempo di abbassarle, non ho il tempo di attutire in nessun modo la caduta.

    Arrivo sul pavimento piegato in due come un libro e ricevo con precisione, sull’osso sacro, la forza terribile dell’impatto. Sento il contatto con il pavimento.

    È duro.

    Penso, che sfortuna, i materassi si sono spostati.

    Poi arriva il dolore. È un dolore che non conoscevo. È come ricevere una fucilata nel mezzo della schiena.

    Mi chiudo come una foglia che si accartoccia con l’arrivo dell’inverno.

    Resto così, chiuso su me stesso, e non riesco a respirare.

    Non respiro.

    Non penso quasi. Quasi non so più chi sono o dove sono.

    Il dolore è troppo forte.

    Poi sento delle voci, gli altri mi stanno chiamando da un luogo altrove.

    Lentamente qualche muscolo si allenta e d’improvviso tiro fuori un respiro, come se emergessi dal profondo del mare, ma è un lungo gemito, più simile a uno strano cigolio, che mi esce da dentro.

    Ora riesco a ricordarmi chi sono e dove sono.

    Sono sempre io, mi dico, sono qui. Ho preso solo un colpo, ora devo soltanto muovermi, mi dico. Devo soltanto muovermi e poi passa.

    Mi rialzo.

    Ma non riesco a raddrizzarmi, resto piegato in due, posso a malapena respirare.

    Gli altri mi chiedono come sto.

    «Sto bene», dico.

    Lo dico anche se mi sento la schiena spezzata, poi mi trascino fino a casa, dove ingoio una manciata di pillole.

    Passo una serata e una notte infernali e la mattina dopo mi azzardo a raggiungere l’ospedale, camminando come fossi il sopravvissuto di qualche strana battaglia.

    La madre di Roberta è con me, riesco a fare anche un po’ di conversazione, la stanza asettica è grande e vuota ed è un’attesa piuttosto lunga.

    Finalmente mi chiamano.

    I medici che mi stanno davanti, seduti in schiera, sollevano gli occhi dalle radiografie e mi guardano senza dire nulla.

    Sarà il dolore che altera le mie percezioni, mi dico, ma mi sembrano attori avvolti in parata nei loro bianchi mantelli, attori intenti a scrutarmi come se fossi un bizzarro esperimento.

    «Senta», dice indispettito uno di loro, «lei ha la seconda vertebra lombare fratturata ma, per fortuna, è amielica.»

    «Amielica?» rispondo.

    Quello seduto al centro, l’unico che fino a ora ha parlato, fa una smorfia. Forse, penso, si sta annoiando.

    «Già, amielica», dice. «Il trauma non ha interessato il midollo spinale.»

    Annuisco.

    Lui resta immobile.

    Mi dico che, così su due piedi, sembra una buona notizia.

    Poi mi arrivano addosso la paura e il dubbio che possa esserci comunque un danno irreversibile.

    La domanda che segue, per me, è ovvia.

    «Io faccio arrampicata libera», dico. «Potrò ancora arrampicare?»

    L’occhiata che mi ritorna è un misto di perplessità e disappunto.

    «Lei adesso», risponde sempre lo stesso, quello dall’aria annoiata, «va a quella barella laggiù», e la indica con un cenno impercettibile del capo, «si sdraia, e

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