(S)oggetti smarriti
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Anteprima del libro
(S)oggetti smarriti - Andrea Di Martino
Koh, pietà
Perché mi ha telefonato?
Speravo non lo facesse, che mi avesse dimenticato una volta per tutte. Proprio ora che il Natale bussa alla porta, che quest’anno di merda sta per finire. Ho lasciato a malincuore il divano sul quale mi ero acciambellata, mi sono truccata in qualche modo, ho rovistato nell’armadio alla ricerca di quella sciarpa che mi ha regalato l’anno scorso, lunga e calda, blu e grigia. Ma non stava bene su nulla e ho chiesto a mia madre di prestarmi il suo cappotto.
Ora che cammino per queste vie illuminate il mio naso è ostaggio del profumo che usa la mamma. Perciò sono io, ma anche un po’ lei e posso anche immaginarla andare incontro a un compagno dei suoi vent’anni.
Com’era mia madre alla mia età? Lo so, ho visto le foto, e in questo momento me la figuro in movimento, sento il suo respiro affannato sotto una sciarpa di colore diverso, ma pur sempre qualcosa che tenga caldo quando fuori fa freddo.
Siamo in due, io e lei, come è sempre stato e sarà. Il confronto è inevitabile, duro, ti spacca dentro, ma è anche dolce. Mi ha fatto male anche lei, ma non riesco a odiarla. Lei si guarda intorno, il suo sguardo è una torcia nel buio, il mio interroga quel che vede e sente. Siamo così diverse. Cosa faresti al posto mio, mamma?
Tu hai le mani piccole e morbide, le mie sono lunghe e minute, prese dalla madre di tuo marito. Tu afferri, io accarezzo.
L’appuntamento è in piazzetta, i cubetti di porfido sono lucidi di pioggia che ha smesso di cadere mentre ero ancora raggomitolata sul divano.
E pensare che gli avevo detto che non avrei voluto più nulla a che fare con lui, con le sue fisime, con la sua rabbia inespressa.
Invece, ecco che torna, chissà con quali parole. Me le dirà scostandosi il ciuffo dagli occhi, guardando diritto nei miei, sfuggente e penetrante. Uno così è meglio perderlo che trovarlo. Un bastardo mentitore, uno che c’è quando vuole lui, ma che se hai bisogno si sottrae, fugge su quelle gambe ossute, con quella falcata che sembra misurare il perimetro delle nostre prigioni.
L’ho conosciuto agli sportelli di facoltà, io stavo sulla fila di psicologia, lui in quella di giurisprudenza. Questo infame ha usato il mio cuore come un pungiball.
Stava con me e parlava della sua ex. Per circa sei mesi siamo stati in tre. Io, lui e la sua merda di ex. Mi ha anche fatto vedere le foto di quella lì, bastardo. Io sono mille volte più bella e soprattutto non gli ho mancato mai di rispetto. Invece quella stronza sì.
L’ho mollato perché non sono una che si accontenta della medaglia d’argento.
Ne sono uscita molto ammaccata, ma in piedi, perché sono giovane, perché sono bella. La mia bellezza è una specie di talea, è quel che mi porto appresso quando il vaso si rompe e le radici imputridiscono.
Lo vedo sopraggiungere dribblando la folla. Il passo non è più una falcata e i capelli ora sono cortissimi. Non guarda nella mia direzione ma credo che abbia avvertito la mia presenza. Mi annusa nell’aria, l’ha sempre fatto. Si parava di fronte e alzava gli occhi solo alla fine, quando il suo viso da angelo bastardo era a pochi centimetri dal mio, dalle mie labbra.
Ma perché ho indossato la sciarpa che mi ha regalato? Non avrei dovuto farlo, è stata una pessima idea. Crederà che non ho smesso mai di pensarlo e avrà visto giusto. Uno così, anche quando fai di tutto per scordarlo, ti rimane dentro. Una specie di cicatrice sulla faccia del cuore.
Mi ha visto e ha fatto cenno con la mano destra. Ora è pochi centimetri, alza la fronte con studiata calma. Ficca quegli occhi neri nei miei e mi dice: Andiamo, dai…
.
Sono ammutolita: non un ciao, neppure il mio nome. Non riesco neanche a dire: Dove mi porti?
. Lo seguo, lui davanti, perché sento che ha fretta, e io dietro, come una giovane cagna che ha ritrovato il suo padrone. La pioggia riprende a cadere fitta.
Il bar è proprio bello, legni scuri, marmi, gocce di cristallo per far luce. Ci accoglie il calduccio e questo mi fa ben sperare. Mi prende per mano, io la sottraggo e lui me la riprende. La mia è calda, la sua gelida, le sue dita sono lamette sulla mia pelle.
Avevo urgenza di vederti … Non voglio girarci intorno, ti devo delle scuse …
Ti avevo chiesto di farti sentire mai più. Al solito, ascolti solo te stesso. Sai cosa puoi farne delle tue scuse? Io lo so che lo sai …
Per favore, non essere acida, lasciami parlare.
Non posso stare molto, voglio tornare a casa a studiare …
Il tempo di una cioccolata, non ti chiedo altro, non voglio altro.
Piantala di guardarmi così. Io non ti desidero più, quegli occhi una volta mi mettevano a nudo e mi facevano venire voglia di denudarmi, ma ora è la rabbia che fa da padrona. E tu la rabbia sai bene cos’è. Sei sempre stato incazzato col mondo, con gli altri, perché gira che ti rigira mi hai dato l’impressione di essere parecchio incazzato con te. Ora puoi dirmelo, tanto nel cuore io ho un altro.
Tu non hai nessuno. Tu hai ancora me, questo lo sento e non saranno certe ‘ste parole che mi dici a convincermi del contrario.
Stringo la tazza di cioccolata tra le mani. Il caldo irrora i palmi e si trasmette al resto del corpo. Vorrei che il mio cuore fosse come questa miscela densa, che cola lungo l’esofago, che mi dice che la vita sarà buona con me e non mi farà più male. È vero, io non ho nessuno. Ho smesso di sognare quando Edo è uscito dai miei giorni. La pioggia si fa più persistente e fuori il cielo sembra un imbuto nero pronto a ingoiare strade, case e sogni.
Vorrei andarmene, non starlo a sentire. Che senso ha chiedere scusa? Gli uomini, mi ha detto la mamma, alla fine chiedono scusa.
"Ho capito di essere stato uno stupido egocentrico, ho capito di non averti vista, di aver visto solo me stesso, i miei sogni infranti, il cuore con i rattoppi. Sono stato come un