La rivoluzione non ha il codice a barre
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Fantascienza - romanzo breve (69 pagine) - Presumibilmente tutte le ossessioni sono metafore estreme che aspettano di nascere. Tutta la mitologia privata è una collaborazione tra la propria mente cosciente e quelle ossessioni che, una per una, si presentano come trampolini di lancio.
Cosa direbbe Ballard, se fosse ancora vivo? Analizzandone il pensiero che è sparso semioticamente nelle sue opere, si potrebbe ipotizzare una sua lucida disamina della follia planetaria e un'eventuale formula per il risolvimento?
Stefano Spataro s'immerge nel flusso ballardiano e il condominio in cui siamo tutti coinvolti sembra la nave dei folli che solca ogni tipo di mare, che rifulge della sua pazzia suscitando nei suoi imbarcati ilarità omicida: abbiamo ancora un futuro?
Stefano Spataro, classe 1985, è dottore in storia della scienza, ricercatore e musicista.
Ha pubblicato racconti su antologie, come Prisma Vol. 2 (Moscabianca Edizioni, 2020) e riviste online, tra le quali Crapula Club e la nuova carne. Scrive articoli e recensioni per diverse riviste web come Wired Italia, Crapula Club, La nuova carne, Andromeda, La Rivista Culturale.
Nel 2019 Prospero Editore ha pubblicato il suo primo romanzo, una space opera dal titolo Attis, Sogni dal terzo pianeta.
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Anteprima del libro
La rivoluzione non ha il codice a barre - Stefano Spataro
1
Non so come è iniziato questo prurito. Un giorno mi sveglio e sulla nuca sento questi bozzetti, come dei foruncoli sottopelle, ancora immaturi. E pizzicano.
Io che non so stare fermo con le mani – punture di zanzara, crosticine, cuticole fuori posto, per me sono stimolanti energetici – inizio a grattarmi, dapprima con delicatezza, strisciando leggermente i polpastrelli sulla superficie della cute e poi, pian piano, sempre più forte. Ne prendo uno, di questi foruncoli, e provo a spremerlo: ne esce qualcosa, ma niente di soddisfacente, l’intruso resta lì e anche il fastidio.
Da allora, con il crescere del prurito – più ti gratti, più pizzica, si sa – c’è stato un aumento del mio pensiero paranoide. Tutto mi sembra eticamente complesso. Io un’etica in senso stretto non ce l’ho mai avuta. Non vado in giro ad ammazzare la gente, capiamoci, neanche a rubare, anzi sono una persona piuttosto corretta. Voglio dire che ho cercato in tutti i modi di lasciarmela dietro, un’etica. Il moralismo dico, ecco, quello delle chiese e della scuola. Da quando ho iniziato l’università ho cominciato questo percorso di liberazione. La filosofia non consola solamente, ma per certi versi emancipa. E poi un giorno ti svegli e inizi a pensare in maniera ossessiva e contorta a quello che scrivi, a quello che fai, a quello che pensi. Sarà il lavoro, la scuola, la fidanzata, la famiglia, l’essere schiacciato tra tutte queste cose?
Il pensiero, da liberazione diventa gabbia. Come in quel meme dove è rappresentato un grafico della gioia che cresce o diminuisce a seconda della tua conoscenza della filosofia: alla fine del liceo raggiungi l’apice del piacere, poi approfondisci così tanto che la gioia inizia a calare fino a portarti alla depressione.
Ma lasciando da parte un attimo questo, da quand’è che m’interessa quello che pensano gli altri? Da quand’è che mi è venuta questa paranoia, questi pensieri fissi? È come se stessi sbagliando o peggio, come se avessi costantemente paura di sbagliare.
Ecco. Più o meno si tratta di questo: la sensazione di fare o dire o pensare qualcosa di offensivo, che agli altri non vada bene; la paura di non essere compreso, di frequentare territori tematici e di pensiero non adeguati. Ed è come una censura interna. In realtà nessuno ti dice nulla, sei tu che scorgi negli sguardi la disapprovazione, che leggi nelle parole scritte allusioni a qualcosa che avresti fatto senza pensare, accuse che non ti meriti.
È pesante.
Tutto questo lavorio mentale un giorno si è trasformato in un prurito. O almeno, ho collegato le due cose. Ho pensato che fosse lo stato d’animo a influenzare il fisico. O forse il contrario. O forse è reciproco.
E allora, su consiglio di un’amica, ho trovato qualcuno che forse mi avrebbe potuto aiutare. Un prurito, ecco cosa era diventato tutto questo rimuginare. Un prurito dietro la nuca, sotto le ascelle, come un linfonodo infiammato, vicino l’inguine – ancora un linfonodo.
Nello studio del dottor Marino, nella periferia della città dove vivo, c’è una piccola scrivania a muro, due sedie nel centro e nient’altro. Nel resto della stanza vuota, in fondo, c’è un’enorme porta-finestra che dà su un balcone da cui s’intravede un parchetto, da sobborgo praticamente abbandonato, dagli alberi spogli e dai sentieri in rovina, dove i padroni portano i cani a cacare e non raccolgono perché tanto è campagna, ma poi in realtà la merda se la ritrovano loro stessi sotto i piedi nelle discese successive perché non è vero che la terra la assorbe così rapidamente come uno si immagina.
La finestra nello studio di Marino è chiusa. Avrei imparato che questo è un chiaro segnale da interpretare. Porta-finestra chiusa vuol dire che il dottore è serio, forse incazzato, e quello che dice lo esplica in un ambito che potremmo confinare nella sfera del senso comune. Quando la porta-finestra è aperta le parole di Marino s’intersecano con i piani del sogno e quello che dice va inteso in senso metaforico, perché lui è gioviale, energico, e la sua terapia più efficace.
Marino fa cenno di accomodarmi. Sediamo a un paio di metri di distanza. Non mi aspettavo certo un divanetto, ma neanche una sedia scomoda come questa. D’altronde, questo dottor Marino cosa fa? È uno psicoterapeuta? Un dottore? Uno stregone? Clara, la mia amica, mi ha detto: – Devi farti vedere quei bubboni che hai dietro la testa, soprattutto se ti pizzicano. – Allora ho pensato fosse un dermatologo, ma non ho trovato altre informazioni riguardo la sua professione. Forse è un ciarlatano.
Insomma siamo uno di fronte all’altro. Marino mi guarda con gli occhi piccoli, cerchiati da occhialetti tondi, dalla montatura spessa e nera, la bocca è un segno di matita su un foglio di carta e la sua stempiatura non serve a smorzare la sua aria austera. È un uomo minuto, ha le gambe accavallate e sembra vestito con una taglia più grande della sua.
– Allora?
– Allora – dico. – Insomma ho questi foruncoli proprio qui dietro che…
Mi sporgo in avanti, ma lui alza la mano e mi ferma.
– Aspetti. No. Partiamo da dentro. Che c’è dentro?
Socchiudo gli occhi con fare scettico, ma allo stesso tempo provo una sorta di moto di sollievo. Sebbene non desiderassi consapevolmente una terapia psicologica, forse sono dalla persona giusta.
– Dentro, dice? Nel senso, nei foruncoli. Oppure dentro, nel corpo. Nello stomaco, nel petto o… – Allungo la vocale.
– O? – La allunga pure lui.
– Sì, ecco, insieme a ’sto prurito sono arrivati dei pensieri fastidiosi, che non sono come pensieri, sono più come degli stati d’animo, come…
– Come dei trampolini di lancio.
– Prego?
– Ha mai letto Ballard?
Avevo degli Urania da ragazzino. Asimov, Dick, quando andava bene, Goulart, Hubbard, che insomma, anche troppo sopravvalutati. Mi piaceva Reynolds; certo avevo letto solo un paio di titoli. E Simak, idem. Di Ballard avevo letto Vento dal nulla e mi aveva abbastanza annoiato. Ricordo un’ottima sensazione oppressiva verso il finale, ma niente di più. La storia non reggeva, per quanto ci capissi io di letteratura fantastica a diciott’anni, e anche adesso. Credo di aver letto anche dei racconti sparsi qua e là, forse un’antologia intera. Ma insomma,