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Noi eravamo il male: Rinascere da una famiglia complicata
Noi eravamo il male: Rinascere da una famiglia complicata
Noi eravamo il male: Rinascere da una famiglia complicata
E-book690 pagine6 ore

Noi eravamo il male: Rinascere da una famiglia complicata

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Info su questo ebook

Come vi sentireste se nella vostra famiglia si sviluppasse un qualcosa di malato? Se sentiste a rischio la vostra stessa vita? Come reagire a una situazione familiare molto pesante, se ancora siete ragazzi che devono per forza vivere sotto lo stesso tetto?
Alison ha descritto la sua storia, decontestualizzandola, coinvolgendo il lettore nella propria rinascita, nella comprensione degli eventi e nella fatica di perdonare. La sua famiglia ha avuto un problema importante, e se sei la "sorella di mezzo" può succedere che la situazione ricada sulle tue spalle. Alison ha sopportato tutto questo, ha vissuto dei momenti davvero difficili, ma li ha superati, e scrivendoli lancia un messaggio di forza, amore e carattere, perché nessuna difficoltà può spezzare la speranza, e l'amore può salvare non solo noi stessi, ma anche gli altri.
Un libro senza dubbio memorabile.
LinguaItaliano
Data di uscita14 set 2020
ISBN9788893782128
Noi eravamo il male: Rinascere da una famiglia complicata

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    Anteprima del libro

    Noi eravamo il male - Alison C.

    detentrici.

    PREFAZIONE

    Cara lettrice, caro lettore,

    innanzitutto grazie per aver acquistato un libro di un piccolo editore come Panda: un gesto come il tuo permette l'esistenza di modi di vivere e pensare diversi dal mainstream, e tu forse senza saperlo sostieni direttamente un bene non monetizzabile: la bibliodiversità, che vuol dire anche saper pensare con la propria testa.

    Il libro che hai tra le mani ti sorprenderà: infatti ciò che leggerai è tutto vero, dalla prima all'ultima riga. La biografia di una ragazza come Alison merita di essere messa a disposizione del mondo, perché solo conoscendo il vissuto reale e diretto di chi ha passato certe vicissitudini ci si può confrontare con le difficoltà vere della vita. Ciò che leggerai ti turberà, forse, ti spronerà a porti delle domande, ma il mio consiglio è quello di metterti nelle migliori condizioni di ascolto. In questi tempi è facile dare un giudizio, siamo abituati a dire la nostra su ogni argomento, su ogni social che abbiamo sotto mano. Ma vorrei suggerirti, in questo caso, di attendere la fine del libro. L'evoluzione profonda che ha permesso all'autrice di superare il passato e affrontare positivamente il futuro (e il presente, va da sé) mi ha molto colpito, e penso – spero – possa colpire anche te.

    Alison oggi è una persona meravigliosa, con una carica positiva in grado di contagiare chi le sta intorno. Vedere il suo sorriso fa pensare: com'è possibile che un tale sole abbia alle spalle una storia simile? Per questo ho sottolineato che ogni riga racconta la verità: sembra incredibile.

    Il fatto che il libro venga pubblicato sotto forma anonima è per garantire ad Alison da un lato un certo grado di sicurezza personale, dall'altro – e primariamente – di preservarne l'intimità, esposta qui in modo pubblico, ma che difficilmente sarebbe gestibile in modo palese.

    Detto questo, ti auguro una buona lettura, in compagnia di Alison e della sua storia. Buon viaggio.

    Andrea Tralli – Panda Edizioni

    PROLOGO

    Buio.

    Ero avvolta in un gelido, sordo, sconfinato buio.

    Provai a muovermi, ma il mio corpo sembrava ignorare i miei segnali. Lo sentivo quasi deridermi mentre fingeva di non sentirmi e io urlavo e urlavo, ma la mia bocca non emetteva alcun suono. Cercai di concentrare l’attenzione su delle voci indistinte che sembravano provenire da lontano e tesi ogni muscolo del mio corpo verso quel rumore che mi circondava e mi chiamava. Inspirai profondamente, l’aria era così pesante che mi comprimeva il petto facendo pressione sulle costole.

    Le costole… Che tortura. Quasi mi ero scordata di quel dolore che aveva riempito ogni cellula del mio corpo. Come una malattia lo sentivo diffondersi in ogni direzione; la testa mi scoppiava, il cuoio capelluto bruciava.

    Riuscii finalmente ad aprire gli occhi e a fatica tentai di mettere a fuoco quella che si rivelò non essere la mia stanza: i muri erano bianchi e spogli, ed ero sola. A circondarmi c’erano solo alcuni macchinari collegati alle estremità del mio corpo che con il loro ticchettio scandivano il tempo.

    Da quanto mi trovavo lì?

    Guardai lentamente la mano sinistra in cerca del mio orologio da polso, ma non avevo più niente addosso. Cominciai nervosamente a tastarmi il corpo ignorando il dolore che si faceva strada, e scoprii di indossare solo un semplice camice di cotone nascosto da una grossa coperta che mi avvolgeva completamente. La porta della stanza era socchiusa e attraverso la fessura vidi una donna vestita di bianco; stava parlando sottovoce con due poliziotti. Doveva essere una dottoressa, a giudicare dallo stetoscopio che le fuoriusciva dal taschino destro del camice.

    Cosa stava succedendo? Che ero in ospedale ormai l’avevo intuito, ma perché due poliziotti sostavano davanti alla mia porta?

    Cosa avevo fatto?

    Il cuore cominciò a martellare, lo sentivo rimbombare nelle orecchie. Le mani presero a sudare, un formicolio crescente iniziò a intorpidirmi le dita e d’un tratto cominciò ad annebbiarsi la vista. La sensazione di vuoto che avevo nel petto mi stava trascinando giù, fino alle profondità della terra. Potevo sentire l’aria diventare incandescente, respirare era diventato impossibile, mi bruciava la gola e più tentavo di riemergere in superficie, più venivo trascinata a fondo.

    Panico.

    Panico.

    Panico.

    Tutti i macchinari intorno a me iniziarono a suonare a intermittenza. Il volume era così alto da intorpidirmi i timpani, ma fu solo questione di attimi. Ogni rumore stava via via diventando indistinto e lento, ogni dolore stava svanendo. Mi stavo perdendo. Non volevo lasciarmi trascinare via, ma ero così stanca… Avevo bisogno di chiudere gli occhi e riposare, avevo la necessità di spegnere i pensieri. E fu così che mi lasciai trasportare in un sonno profondo.

    CAPITOLO I - Autunno 1998

    Dove andiamo mamma? chiesi mentre mi scostavo un boccolo biondo dal viso.

    Lei non rispose. Caricò me e mio fratello sul sedile posteriore della sua Golf e richiuse la portiera dietro di sé.

    Mi voltai verso mio fratello e ci guardammo per un istante che sembrò un’eternità. Lo fissai con aria interrogativa cercando in lui una risposta, ma si limitò a scuotere il capo e a guardare in basso.

    Thomas era più grande di me di quattro anni, e nei suoi occhi già allora ero in grado di scorgere una tristezza insolita in un bambino di quell’età. Non era difficile capire che prima che io nascessi aveva dovuto sopportare tutto da solo. Forse era stato troppo per un bambino di nove anni.

    Lei aprì la portiera del conducente e girò la chiave di accensione. Il motore cominciò a rombare sotto il riflesso dei lampioni che illuminavano la città già da qualche ora. Alzai la testa e la guardai con aria di supplica quando incrociai il suo sguardo attraverso lo specchietto retrovisore… Non farlo mamma.

    Mi bastò un istante per capire che quegli occhi non erano i suoi. Da color caramello si erano fatti più scuri, più tristi, ma allo stesso tempo duri e distaccati, due pozze nere sconosciute in cui annegai.

    Non era più lei… Di nuovo.

    Sfilò una delle sue Marlboro dal pacchetto, prese l’accendino e infiammò quel misero pezzo di carta ripieno di tabacco. Aprì il finestrino di qualche centimetro, ingranò la marcia e partì. Il paesaggio oltre il vetro cambiava immagine repentinamente, scorreva veloce, era difficile riuscire a distinguerne i confini. Mi stavo lasciando alle spalle case, palazzi, campi e strade. Stavamo percorrendo chilometri e chilometri di nero e granuloso asfalto. Ci stavamo allontanando da casa e, per un attimo, l’idea di non poterci più tornare mi sfiorò la mente. Dovevo pensare ad altro. Mi concentrai sulla trama del sedile su cui ero seduta. Il tessuto era trapuntato e ruvido al tatto. Con la punta delle dita delineai i sentieri che percorreva la fantasia grigio chiaro. Si trattava di piccoli cerchietti adiacenti gli uni agli altri che tanto mi ricordavano le casette delle api. Iniziai a vagare con i pensieri, pensai al cartone animato dell’ape Maia, al completino nero e giallo che indossava e quell’immagine incitò la mia mente ad aprire un altro cassettino. Proprio lì dentro erano infilate le calze a righe gialle e nere che tanto desideravo ricevere per Natale. Presi nota di chiederle a S. Claus nella letterina che avrei scritto con l’aiuto di papà il mese successivo. Senza nemmeno rendermene conto avevo iniziato a canticchiare sottovoce. Cantare mi aiutava a rilassarmi, mi infondeva sicurezza. Vola, vola, vola l’ape Maia. Gialla e nera, nera e gialla, tanto gaia. Vola sopra un monte e sfiora il cielo, per rubare il nettare da un melo… Interruppi quel sussurro. Era inutile, non riuscivo a distrarmi. La paura stringeva in una morsa il mio stomaco.

    Presi la mano di mio fratello, la strinsi forte e gli sorrisi mentre una lacrima mi accarezzava la guancia. La macchina prese velocità, l’aria mista a fumo che proveniva dal lato del conducente mi investì completamente, incitando le ciocche ribelli che mi ricadevano sulle spalle a danzare disordinatamente oscurandomi la visuale.

    Una piccola automobile gialla sbucò all’improvviso da una via laterale tagliandoci la strada. Non ci aveva visto, correvamo troppo e non aveva avuto il tempo di bloccarsi e lasciarci passare.

    Ma che cazzo faiiiii! imprecò Lei frenando bruscamente. Idiota! strillò poi effettuando un pericoloso sorpasso, le dita incollate al clacson.

    Mi arrampicai sullo schienale del sedile sul quale poggiavo la schiena e mi sporsi per guardare attraverso il lunotto posteriore. Alla guida della macchina che avevamo sorpassato c’era una ragazza dai capelli ricci e rossi. Aveva il viso corrucciato e mi fissava seria. Sollevai la mano e la salutai, ma lei mi ignorò. Non le avevano insegnato che salutare era educazione?

    Strinsi le labbra in un broncio, incrociai le braccia al petto e mi voltai, non prima però di averle mostrato una bella linguaccia.

    Lei aveva cominciato a guidare pianissimo, quasi a passo d’uomo, ero dell’idea che lo facesse di proposito per infastidire la signorina dietro di noi. In effetti la macchinina gialla continuava a spostarsi verso la riga bianca che divideva in due la carreggiata, probabilmente aveva fretta e voleva provare a superarci.

    Non appena si creò nella corsia opposta lo spazio necessario per effettuare il sorpasso, l’auto di riccioli rossi iniziò la manovra e ci affiancò. Mi rimisi seduta composta e non appena guardai in su e posai lo sguardo sullo specchietto retrovisore dell’auto, mi si palesò davanti agli occhi l’immagine riflessa della sua bocca che lentamente si contorceva in un sorriso inquietante.

    Oh no… Quel ghigno non era mai un buon segno.

    Un’accelerata improvvisa mi incollò al sedile contro la mia volontà. Lei non aveva alcuna intenzione di farsi superare. Pestò con violenza l’acceleratore e si voltò verso l’altra donna mostrandole il dito medio attraverso il finestrino.

    Ora sì che ci divertiamo... sibilò.

    Dalla curva in fondo alla strada sbucò una macchina scura. Era distante, ma correvamo talmente veloci che i metri che ci separavano diminuivano a vista d’occhio. Mi voltai a sinistra e osservai riccioli rossi: aveva la fronte corrucciata per la preoccupazione, ma era ostinata, non voleva lasciar vincere la sua avversaria. Era un gioco pericoloso il loro… Riccioli rossi rischiava uno scontro frontale.

    Mamma ora basta! Lasciala passare! gridai.

    Taci! mi ordinò.

    Ma così la uccidi! intervenne Thomas stringendosi i capelli a ciocche dall’esasperazione. Non reggeva tutta quella tensione.

    Io non uccido nessuno, sta facendo tutto da sola.

    Sei brutta e cattiva! la rimproverai colpendo con un calcio il suo sedile.

    Ormai l’impatto era inevitabile, mancavano pochi metri.

    Mi voltai di nuovo e con grande sollievo notai che la macchinina gialla aveva d’un tratto rallentato ed era rientrata nella corretta corsia di marcia. Liberai i polmoni da tutta l’aria che avevo trattenuto e rilassai i muscoli contratti.

    Non era finita, però. Non per noi almeno...

    La velocità aumentò costantemente, sempre di più. Ancora e ancora. Ormai la macchinina di riccioli rossi era scomparsa dalla nostra vista, l’avevamo seminata.

    Mamma ti prego fermati, ho paura! urlò mio fratello con la mano sempre intrecciata alla mia.

    Silenzio.

    M-m-ma... Perché sei arrabbiata? balbettai con voce rotta.

    Non meritate di stare a questo mondo, la faremo finita tutti e tre insieme. Sono stanca, bambini, biascicò tra una curva e l’altra senza smettere di accelerare.

    Voi siete miei! Mieiiii, avete capito? E come vi ho messi al mondo ho tutto il diritto di togliervi ciò che vi ho dato. Eccome se ne ho il diritto, cazzo! State zitti ora e smettetela di frignare!

    Prese una curva un po’ troppo veloce e la macchina sbandò facendomi sbattere contro la portiera. Non ci aveva neanche allacciato la cintura e il mio seggiolino si trovava nell’auto di papà.

    Papà…

    Perché non era lì? Perché dopo che avevano litigato l’aveva lasciata andare via con noi?

    Ripercorsi i ricordi di quella sera.

    Era quasi orario di cena, io e Thomas stavamo giocando sul tappeto peloso del salotto.

    Allora, tu sei la mamma di Cicciobello e gli devi dare il latte con questo, altrimenti piange, mi spiegò mostrandomi un piccolo biberon dal beccuccio azzurro.

    E tu chi sei? Il papà?

    No, fare il papà è da femminucce. Io sono il patrigno cattivo. Arrivo con la ruspa e rubo il latte di Cicciobello. Spacco tutto così, guarda! Bruuuuum, bruuuuum! Passò le ruote della sua ruspetta sopra il biberon fingendo di romperlo.

    E io cosa faccio poi? Se il mio bambino rimane senza latte poi si mette a piangere.

    Tu dev… La sua voce venne coperta dalle urla che provenivano dalla cucina.

    No! Non mi interessa! Me ne frego di te, me ne frego di loro, me ne frego di tutti! Maledetto il giorno che ti ho incontrato! Mia madre mi aveva avvisata, sei solo un fallito!

    Tom mi guardò sconvolto e io gli restituii la medesima espressione.

    La mano con cui brandiva la ruspa era rimasta sospesa a mezz’aria.

    Ueeeeee, ueeeeeeeee… Il pianto del bambolotto ci fece saltare sul posto entrambi. Avremmo dovuto rimuovere le batterie, era troppo fastidioso quando iniziava a piangere senza motivo.

    Colto alla sprovvista, Thomas mollò la presa lasciando scivolare a terra il suo giocattolo. Fortunatamente eravamo ancora adagiati sopra il tappeto, quindi atterrò sul morbido e non si ruppe.

    Lasciami andare! O te ne vai tu o me ne vado io! Mi fai schifo! Mi fai schifo tu, la tua divisa, i tuoi colleghi e la tua famiglia di mafiosi! Sei solo un verme che striscia!

    La sua voce mi entrò fin dentro le ossa, come una lama affilata mi aveva trafitto il petto oltrepassandomi da parte a parte. Credo che una parte del mio cuore si scheggiò proprio quella sera. Un piccolo pezzetto di esso si staccò e il dolore che ne derivava era così reale… Ero molto piccola, ma il ricordo di come Lei parlò a mio padre rimase impresso nella mia mente come un marchio.

    Forza voi due, mettetevi le scarpe che ce ne andiamo! Irruppe in salotto, si avvicinò all’appendiabiti e afferrò borsa e cappotto.

    Tom mi guardò spaesato.

    Vi muovete? Non ho tutta la sera! sbraitò battendo il piede destro a terra.

    Papà ci osservava in silenzio dalla porta della cucina.

    Decisi di non ascoltarla e rimasi immobile stringendo il mio bambolotto fra le braccia.

    Adesso mi avete rotto i coglioni anche voi! Forza! Mi raggiunse con due falcate e mi strattonò per il braccio.

    Ahia! Mi fai male così! mi lamentai.

    Delia, smettila! Nostra figlia indossa ancora il pigiama! Dove vuoi portarla così? Fuori fa freddo, intervenne papà.

    Hanno inventato i giubbotti per un motivo, sai? gli rispose acida.

    Tieni, infila questo. Mi lanciò un piumino turchese.

    Thomas, indossa il giubbino anche tu che ce ne andiamo.

    Ma dove li porti a quest’ora? La cena è quasi pronta. Calmati, ti prego.

    Dove li porto non è più affar tuo, rispose piena di rabbia.

    Sotto i suoi occhi perentori infilai il mio giubbottino e presi per mano mio fratello.

    Papà, non voglio andare via, lo supplicò Thomas.

    Lo guardai anche io con occhi gonfi di lacrime, ma sapevo che non avrei ottenuto alcunché. Non si sarebbe mai messo contro di Lei, sarebbe stata una causa persa in partenza.

    Non ottenendo alcuna risposta, Thomas si avviò a piccoli passi fuori di casa trascinandomi con lui e la porta si richiuse alle nostre spalle con un tonfo.

    La sua risata isterica mi riportò al presente. L’urto contro la portiera mi aveva fatto male, ma non avevo tempo di pensare al dolore: l’auto sfrecciava sempre più veloce e non sembrava aver intenzione di rallentare.

    Mio fratello slacciò la mano dalla mia e si coprì gli occhi con forza pregandola di smettere. Scalciai, colpii a più riprese il sedile di fronte a me con tutta la forza che avevo in corpo, la supplicavo di fermarsi e di lasciarci andare, ma si ostinava a non ascoltare.

    Percepii un repentino rallentamento, stavamo per imboccare una strada a senso unico. In fondo potevo scorgere il cancello di una casa in costruzione. Due corridoi d’erba la affiancavano, mentre nella parte anteriore del giardino un grande escavatore stazionava silente. Il respiro che si era fatto dapprima irregolare rallentò, pensai fosse finita, che le nostre suppliche l’avessero intenerita. Che ingenua… Il motore rombò di nuovo, aveva premuto fino in fondo il pedale dell’acceleratore. La vettura in pochi istanti prese di nuovo velocità. Troppa.

    Fermati! Fermati! la supplicava Thomas con il respiro mozzato. Aveva gli occhi rivoltati all’indietro per la paura. Ci stavamo avvicinando sempre di più al cancello in ferro battuto posto in fondo alla via e gridai con tutta la forza che le mie corde vocali mi consentirono. La fine era lì davanti a me, immobile, pronta ad attendere il mio arrivo. Stavo per dire addio alla mia vita, una vita che a malapena avevo vissuto.

    Era forse giusto tutto questo? Avevo solo cinque anni.

    Quando ormai la rassegnazione aveva riempito il mio piccolo cuore, sentii lo stridio dei freni sull’asfalto e la mia testa si schiantò rovinosamente contro il sedile del conducente.

    Ahiiiiaaaaa! strillai premendomi la fronte d’istinto.

    Ero stordita, non riuscivo a capire più niente. Aprii un occhio alla volta e mi guardai attorno: ero viva. Eravamo tutti vivi. Lei aveva frenato in tempo e la macchina non aveva nemmeno sfiorato il cancello che si trovava ormai a meno di un metro di distanza dal cofano.

    L’istinto mi fece voltare subito verso mio fratello.

    Tutto bene? gli chiesi preoccupata.

    Mmh. Mmh, rispose.

    Stava bene anche lui. Sì, stavamo bene.

    Lo guardai a lungo ma lui non ricambiò. Rimase in silenzio, nemmeno una lacrima gli aveva rigato il viso.

    L’auto si mosse di nuovo e il cuore minacciò di uscirmi dal petto. La forza con cui colpiva la cassa toracica mi lasciava senza fiato. Inghiottii la saliva e mi strinsi le ginocchia con le mani. Procedevamo lentamente, il rumore dell’acceleratore si sentiva a malapena. Stavamo tornando indietro.

    Nessuno proferì parola lungo il tragitto, ma l’aria pullulava di tensione. Scariche elettriche percorrevano il mio corpo e l’adrenalina che ancora mi accompagnava ridusse i miei occhi castani a due pulsanti rosse fessure colme di lacrime.

    Varcata la porta di casa, il primo istinto fu quello di correre in camera senza dire una parola. Volevo solo riabbracciare Balù, lo scimmione peloso e gigante che mio padre mi aveva regalato per il compleanno. Feci due passi e scorsi papà seduto sul divano in silenzio con la testa bassa, era perso nei suoi pensieri. Non mi fermai. Proseguii fino alla mia stanza, mi sistemai sul lettino e inspirando profondamente nascosi la testa in quell’ammasso di pelo che mi superava sia in altezza che in larghezza. L’odore che emanava non era dei più gradevoli, ma mio fratello Tom mi aveva assicurato che le scimmie erano le creature più puzzolenti dell’universo - doveva essere una scimmia anche lui allora - quindi giunsi alla conclusione che se Balù puzzava non era di certo colpa sua. Era nella sua natura di scimmia e io gli volevo un gran bene lo stesso.

    Presi le lunghe braccia del mio amico, le intrecciai intorno ai miei fianchi e finalmente rilassai i muscoli contratti del corpo nel suo caldo abbraccio.

    Peccato che quella sensazione di assoluto benessere durò poco: un fastidioso cigolio la interruppe e il mio irrigidimento fu immediato. Affondai la testa nella pancia di Balù e mi morsi il labbro inferiore che aveva deciso di mettersi improvvisamente a tremare.

    Tutto bene scimmietta?

    Falso allarme, non era Lei. Mi voltai lentamente e incrociai gli occhi preoccupati di mio padre.

    Cos’è successo là fuori? Indicò con l’indice la finestra di vetro alle sue spalle.

    Niente papà, risposi con un filo di voce.

    Venne a sedersi sul bordo del letto. Vuoi un bicchiere di latte?

    No grazie, non ho sete. Strinsi più forte il mio peluche.

    Si alzò e fece per andarsene, ma non appena sfiorò la maniglia della porta si voltò spostando il peso da un piede all’altro.

    Mi dispiace... riuscì a dire visibilmente a disagio.

    Ingoiai il groppo che mi si formò in gola.

    Perché la mamma fa così papà? A volte è buona con me, altre volte invece mi tratta male e sembra che io non le piaccia. L’altro giorno quando siamo tornate dalla scuola materna mi ha chiusa a chiave in bagno perché ha visto che parlavo con Samantha davanti al cancello e si è arrabbiata. Non è vero quello che ti ha detto quando sei tornato da lavoro, non mi aveva appena chiusa lì dentro perché avevo fatto i capricci. Sono rimasta lì da sola a guardare fuori dalla finestra finché non è diventato tutto buio.

    Il suo viso si contorse in una smorfia di disagio.

    Lo so piccola, ma tu non parlare con quella bambina se sai che alla mamma dà fastidio. Non ti è bastato quello che è successo un mese fa?

    Già… Un mese fa.

    Quel giorno mio padre mi aspettava fuori dal cancello di scuola insieme a Lei. Fortunatamente avrebbe fatto il turno di notte a lavoro, quindi avrebbe passato tutto il pomeriggio e la sera in casa con noi.

    Ero la prima della fila e la maestra mi teneva per mano quando ci avvicinammo in fila indiana all’uscita in attesa del suono della campanella. Cercai con lo sguardo i miei genitori e non appena li vidi sorrisi nella loro direzione sistemandomi il grembiulino rosa che arrivava fin sotto alle ginocchia. A un tratto però vidi Lei dirigersi verso il padre di Samantha che, in compagnia della moglie, attendeva come tutti gli altri genitori l’uscita da scuola della figlia. La seguii con lo sguardo e notai che non appena raggiunse il padre della mia compagna, l’espressione di quest’ultimo mutò improvvisamente.

    Guai in vista...

    Mio padre, che stava chiacchierando con un altro genitore, si voltò di scatto, come del resto tutti quanti, non appena udì la propria moglie urlare e tirare calci e pugni al papà di Samantha. L’uomo cominciò a difendersi e inveire contro di Lei che nel frattempo era riuscita a graffiarlo in viso facendolo sanguinare. Entrambi caddero a terra in una nuvola di calci, pugni e urla. Portai incredula le mani alla bocca e spalancai le palpebre davanti a quella scena pietosa. In pochi istanti la mamma di Sam si era gettata nella mischia in difesa del marito, e mio padre, che era accorso per dividerli, venne risucchiato in quel caos. Un cerchio di persone si era formato intorno a loro, possibile che nessuno reagisse e tutti stessero lì a guardare senza far nulla? D’altronde nemmeno io riuscii a muovere un muscolo, ero immobile, impietrita davanti a ciò che stava accadendo. Solo quando la maestra mi prese in braccio e mi allontanò da quello scenario mi resi conto di aver trattenuto il respiro per tutto il tempo.

    La tua mamma sta strappando i capelli della mamma di Sam! affermò Loris spalancando la bocca.

    La tua mamma è cattiva, mi fa paura! commentò una bambina tra il mormorio generale.

    Inghiottii il boccone amaro che mi stava riempiendo la bocca e rimasi in silenzio. Provavo vergogna, le mani mi prudevano per la rabbia, avevo una voglia irrefrenabile di correre da Sam e chiederle scusa per tutto quello che stava accadendo, volevo farle capire che io non avevo nulla contro di lei. Se avessi potuto le avrei offerto la mia amicizia, ma non potevo.

    Lei non me l’avrebbe permesso.

    Paoloooooooooo! Quella voce squillante fin troppo familiare mi trascinò via dai ricordi.

    Devo andare, buonanotte tesoro. Adesso cerca di riposare che domani ti devi svegliare presto.

    Sogni d’oro papà, ti voglio bene.

    CAPITOLO II - Estate 1999

    Correvo più veloce che potevo, senza guardarmi indietro. Riuscivo a sentire i sassolini scricchiolare sotto le suole mentre mi lasciavo alle spalle piccole nuvole di polvere bianca. Non avevo più fiato, ma dovevo resistere, non potevo permettergli di prendermi.

    Arrivai davanti alla siepe che delimitava il giardino, guardai prima a destra e poi a sinistra: non avevo via di scampo.

    La sua voce mi sorprese alle spalle Ferma o sparo!

    È finita, pensai.

    Alzai le mani in segno di resa e con gli occhi chiusi mi voltai lentamente nella sua direzione.

    Non è giusto che vinci sempre tu però! sbuffai afflitta.

    Se tu sei lenta come una lumaca non è mica colpa mia.

    Ma io ho le gambe più corte delle tue e sono una femmina. Tu stai barando!

    Smettila o ti lavo! ribatté lui.

    Ok, ma dammi la pistola ad acqua, adesso tocca a me fare la poliziotta, tu fai il ladro. Tre, due, uno, scappaaaa! Impugnai il giocattolo e rincorsi mio fratello sparando acqua in tutte le direzioni.

    Il fianco iniziò a pungere quasi subito, non riuscivo a inalare aria sufficiente per correre più veloce. Ero proprio una schiappa.

    Tanto non mi prendi, tanto non mi prendi! cantilenò quello sbruffone tirando fuori la lingua. Gli avrei tappato quella boccaccia con il mio Liquidator, se lo meritava. Brutto antipatico!

    Lo rincorsi per tutto il giardino, inciampai due volte, ma come una vera poliziotta mi rialzai senza scoraggiarmi. Quando ormai eravamo entrambi sfiniti e ci fermammo, mio fratello Tom non aveva neanche un capello bagnato, io invece non ero riuscita bene a capire quale fosse il verso della pistola e mi ritrovai completamente zuppa.

    Alison! Ma come ti sei conciata! Corri in casa che ti devo cambiare, dobbiamo essere da tua zia tra meno di mezz’ora, disse mio padre affacciandosi alla finestra del salotto.

    No, papà! sbuffai seccata. Non vedi che stiamo giocando? Non voglio cambiarmi adesso. Incrociai le braccia al petto e misi il broncio.

    Ho detto di rientrare subito. Sbrigati!

    Ma uffaaaaaa! Perché a Thomas non dici niente? Sempre io, vero?

    Thomas mi fece di nascosto dei versacci e si mise a sghignazzare.

    Tuo fratello non è bagnato dalla testa ai piedi come un pulcino, tesoro. Forza entra in casa. Si addolcì.

    Senza aggiungere altro gli ubbidii. Attesi qualche minuto - il tempo necessario a dimostrargli la mia insolenza - e poi entrai in casa dirigendomi verso le scale che portavano alla cameretta.

    Stavo gocciolando ovunque, papà si sarebbe arrabbiato parecchio. Forse era meglio asciugare prima che se ne accorgesse. Feci dietro front e mi avviai verso il bagno del pianterreno. Presi il rotolo di carta igienica e strappai una dozzina di fogli. Mi avvicinai alla scalinata e iniziai a strofinare a terra la carta per asciugare l’acqua.

    C’era qualcosa che non andava, però. La carta si era in parte sciolta e appiccicata alle piastrelle e ora gli scalini erano ricoperti da una specie di poltiglia bianca. Decisi di fare finta di niente e nascondermi in camera. Se papà se ne fosse accorto avrei dato la colpa a Thomas.

    Ero arrivata quasi in cima alle scale quando sentii il fragore di un oggetto frantumato a terra. D’istinto mi immobilizzai e tesi le orecchie per capire cosa stesse succedendo. Il rumore proveniva dalla stanza dei miei genitori. Era in atto una delle solite discussioni: Lei che alzava la voce e mio padre che ascoltava in silenzio pronunciando qualche sporadica parola nel tentativo di calmarla.

    Sentirli litigare mi faceva soffrire, sapevo che quando accadeva Lei poi si arrabbiava con tutti noi e i due giorni successivi sarebbero stati difficili in sua presenza. Non mi piaceva vedere i miei genitori litigare, li amavo entrambi e li avrei sempre voluti uniti e felici.

    Mi infilai in silenzio in camera, presi due tazzine da tè e le posai sul tavolino rosa che avevo sistemato al centro della stanza. Aiutai Balù a sedersi sulla sedia di fronte alla mia e chiacchierai con lui cercando di coprire con la voce il rumore che proveniva da due stanze più in là.

    Hai ragione Berta, le nostre amiche del tè sono in ritardo, ma non temere, arriveranno. Balù assomigliava proprio a una signorina. L’avevo agghindato per bene e la coroncina di fiori che gli avevo messo in testa gli conferiva un tocco di classe.

    Dici sul serio? Tua cugina Clotilde ha lasciato il marito? Ma non può farlo! Cornelius è così dolce… Finsi di intristirmi. Avevo memorizzato alcuni dialoghi di una soap opera che il mio papà guardava quando pensava che nessuno fosse nei paraggi e lo potesse cogliere in flagrante. Adoravo recitare quelle battute insieme a Balù, anzi, a Berta.

    Non mi dire… Gli ha detto che era troppo peloso per stare con lei? proseguii. Ma quello non è un problema, Berta. Esistono delle cose che metti sulla pelle e quando le strappi via i peli spariscono magicamente. Anche il mio papà è peloso, anzi pelosissimo. Ha una criniera sulla schiena che assomiglia a quella di tuo fratello Balù, ma ogni tanto strappa via la pelliccia e diventa come Babe, il maialino coraggioso.

    Ero intenta a riempire la bocca del mio pupazzo con pasticcini di gomma quando Lei irruppe nella stanza aprendo di scatto la porta. Mi voltai nella sua direzione e la sorpresi a guardarmi mentre gli angoli della bocca le si incurvavano verso l’alto.

    Sta davvero sorridendo? Ma allora è felice… Bah, io i grandi non li capisco.

    Non feci in tempo a contraccambiare il sorriso che mi diede le spalle e scese in silenzio le scale che portavano al piano di sotto. Ero pronta a sentirla urlare per via del disastro che avevo lasciato di sotto poco prima, ma non arrivò alcun rimprovero.

    Mio padre fece capolino in camera mia pochi istanti dopo e mi cambiò i vestiti ancora bagnati.

    Come hai fatto a ridurti così? Hai il retro dei pantaloni tutto sporco di fango.

    Sono caduta papà, scusa. Abbassai lo sguardo e incollai gli occhi al pavimento.

    Mio padre si addolcì e mi sorrise. Allargò le braccia e io gli saltai in braccio.

    Sei proprio una scimmietta, lo sai? mi sussurrò dandomi un bacio tra i capelli.

    Scendi ora, dobbiamo metterci dei vestiti pul… Interruppe la frase a metà non appena si accorse di Berta e la fissò sgranando gli occhi.

    E quella cosa sarebbe? Che fine ha fatto Balù? Accartocciò la faccia in una smorfia incredula.

    Quella è Berta, la sorella di Balù. Lui non c’è, essendo un maschio non può partecipare al circolo del tè.

    Il circolo del tè? Ma dove le senti tutte queste cose tu? Lo sai di avere sei anni vero?

    Il circolo del tè, papà. È un gruppo di donne che beve tè e pasticcini e chiacchiera. Come in quei film che guardi tu.

    Le sue guance cambiarono colore all’improvviso. Non ho idea di cosa tu stia parlando. Comunque muoviti, alza le braccia che ci leviamo di dosso questa maglietta zuppa prima che ti venga un raffreddore.

    Feci come mi suggerì e mi cambiai.

    Una decina di minuti dopo ci trovavamo tutti in auto pronti ad andare a cena a casa della zia, il che era una rarità perché Lei aveva sempre avuto un rapporto di amore e odio con la sua famiglia: un giorno la amava e il giorno dopo ne parlava male.

    Spesso mi diceva che non dovevo fidarmi della nonna perché era cattiva. Affermava che le mie cugine erano le nipoti preferite, mentre io e mio fratello non eravamo quasi considerati. Mi raccontava di aver avuto un’infanzia difficile causata dal fatto che sua madre non l’apprezzava, favorendo invece la sorella minore che risultava sempre la migliore in tutto. A me tutto sommato piaceva andare dalla

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