Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Racconti su un attore operaio: Luigi Dadina nel Teatro delle Albe
Racconti su un attore operaio: Luigi Dadina nel Teatro delle Albe
Racconti su un attore operaio: Luigi Dadina nel Teatro delle Albe
E-book289 pagine3 ore

Racconti su un attore operaio: Luigi Dadina nel Teatro delle Albe

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Questo libro racconta alcuni momenti della vita di Luigi Dadina: fino ai vent’anni tra Porto Corsini e il Villaggio Anic, poi con il Teatro delle Albe di Ravenna. L’ho scritto a partire da una grande quantità di conversazioni avute con lui e di esperienze condivise dalla fine degli anni Novanta a oggi. Seguendo i suggerimenti di Cesare Zavattini in merito al «pedinamento del reale» e alla convinzione che «il banale non esiste», ho cercato di raccontare gli aspetti concreti e minuti della vicenda di Gigio (tutti chiamano così Luigi Dadina, da sempre, e così ho fatto anch’io, qui): lui non è un teorico, è un uomo che realizza la sua essenza soprattutto attraverso il fare. Stare molto vicini alle cose credo sia corretto e rispettoso di questo suo modo d’essere. Per la stessa ragione ho mantenuto un registro linguistico concreto. Il mio obiettivo: raccontare una storia che si possa almeno un po’ immaginare, leggendola. Mi piace pensare di averla scritta anche per chi non è interessato al teatro in generale, né al Teatro delle Albe in particolare, né a Gigio: destinatario ideale è chiunque abbia voglia di rimanere per un po’ di tempo in compagnia della vita di un uomo. Questo libro è arricchito dai racconti di molte persone in diversi modi vicine a Gigio, e dai pensieri di Marco De Marinis (prefazione) e Gerardo Guccini (postfazione). Mi sono apprestato a questa piccola impresa con un po’ di timore. Oggi sento molta gratitudine per le sorprese che sono arrivate. (Michele Pascarella)
LinguaItaliano
Data di uscita17 mag 2017
ISBN9788872184240
Racconti su un attore operaio: Luigi Dadina nel Teatro delle Albe

Correlato a Racconti su un attore operaio

Ebook correlati

Articoli correlati

Recensioni su Racconti su un attore operaio

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Racconti su un attore operaio - Michele Pascarella

    Prefazione

    L’ATTORE E L’ARTE DELLA PROLUNGA

    di Marco De Marinis

    Racconti su un attore operaio, nonostante l’apparenza dimessa, è un libro di complessa concezione ed esecuzione raffinata, che si muove fra racconto di vita, autobiografia artistica, romanzo di formazione e contributo microstorico sulle nuove fenomenologie della scena contemporanea. È soprattutto, giusto il titolo, una narrazione a due voci, quella del protagonista, Luigi Gigio Dadina, e quella del suo intervistatore-istigatore, Michele Pascarella, ma in realtà le voci di cui essa è intessuta sono molte di più. Perché, come quasi sempre quando si tratta di gruppi teatrali contemporanei, parlare di un singolo esponente, per quanto importante, risulta impossibile senza convocare di continuo le altre individualità che lo compongono e senza far emergere incessantemente la dimensione collettiva che gli dà identità e consistenza. Giusto quindi, inevitabile direi, il sottotitolo: Luigi Dadina nel Teatro delle Albe. Di conseguenza il presente costituisce anche un (ulteriore) libro sul/del Teatro delle Albe, una delle realtà più importanti e originali della scena italiana da oltre tre decenni, e proprio come tale mi viene da accostarlo, si parva licet…, ad un altro lavoro polifonico sul teatro di gruppo, ormai in realtà un piccolo classico della nuova storiografia teatrale: Il crocevia del ponte d’Era. Storie e voci di una generazione teatrale, 1974-1995 (Bulzoni, 1996), pubblicato vent’anni fa da Mirella Schino.

    Come narrazione, in realtà, questo libro si rivolge non solo all’appassionato di teatro o allo spettatore di professione ma a qualsiasi lettore, perché non racconta soltanto una vita nell’arte ma anche, non meno, un’arte della vita, anche se praticata soprattutto attraverso il teatro. Come contributo microstorico, poi, senza perdere nulla del suo fascino affabulatorio, risulta prezioso perché ci permette di osservare e conoscere il teatro e il lavoro dell’attore così come quasi mai riusciamo a leggerlo nei contributi storiografici o critici.

    Il nostro modo, dico di noi storici o critici, di guardare al teatro resta nonostante tutto troppo idealistico e astratto. Non si tratta più tanto del fatto che lo guardiamo ancora troppo dall’alto (anche se questo succede ancora, altroché se succede) quanto piuttosto del fatto che guardiamo soprattutto l’alto del teatro, e cioè la sua estetica, le sue proposte espressive, i suoi messaggi (quando ve ne sono) etc. etc., e facciamo una gran fatica a guardarne il basso, vale a dire le sue fondamenta, le sue radici, o più semplicemente le gambe e i piedi. Perché pure un teatro ha bisogno di gambe e piedi per camminare o anche soltanto per stare ritto.

    Gambe e piedi a teatro significano soprattutto e più di tutto una cosa sola: lavoro, lavoro e poi ancora lavoro. Lavoro manuale, tecnico, amministrativo, organizzativo, oltre a quello artistico in senso stretto (in realtà insieme ad esso). Sudore, fatica, ore e ore al giorno ogni giorno, per anni e anni. Con costanza, disciplina, passione e naturalmente competenza.

    Questo libro, senza trascurare il resto ovviamente, ci parla soprattutto di gambe e piedi del teatro, di un teatro, quello delle Albe, che Luigi Dadina fondò nel 1983 assieme a Marco Martinelli, Ermanna Montanari e Marcella Nonni. Appare dunque azzeccata la definizione di attore operaio per Gigio e non si tratta affatto, come si potrebbe credere a prima vista, di una dicitura riduttiva, al contrario. Gigio infatti è un attore operaio non tanto o soltanto perché proviene da una famiglia di operai e lui stesso ha fatto l’operaio e molti altri mestieri prima di consacrarsi al teatro; egli è un attore operaio soprattutto perché ha praticato e continua a praticare tutti i mestieri teatrali, dai più nobili (autore, regista, etc., oltre che attore) ai più umili o nascosti, ma non meno essenziali, come quello dell’organizzatore e dell’amministratore giù giù fino a tutta la sapiente, articolata e faticosa manualità artigianale senza la quale uno spettacolo non potrebbe mai andare in scena, essere montato, smontato e rimontato di nuovo. (E mi viene in mente che Jacques Copeau, uno dei Padri Fondatori, amava chiamare gli attori artigiani di una tradizione vivente).

    Gigio è dunque un uomo di teatro completo, totale, mi piacerebbe dire che è un uomo-teatro, se la cosa non rischiasse di apparire sacrilega, visto che si tratta della formula che Jean-Louis Barrault coniò nientemeno che per Artaud. Allora farò un altro accostamento, letterario, questa volta. Dadina, come emerge dalle pagine abilmente composte da Michele Pascarella, rappresenta per me il (uno dei) Faussone del teatro contemporaneo. Libertino Faussone, detto Tino, è lo straordinario operaio specializzato protagonista del romanzo più ottimistico di Primo Levi, La chiave a stella (1978), colui che fa proclamare all’autore: Amare il proprio lavoro costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra. E non mi stupisce apprendere da Ermanna Montanari, con cui ha fatto coppia scenica per decenni, che Dadina dicesse spesso (mentre le insegnava ad avvolgere i cavi per posarli ordinatamente sul furgone) di voler scrivere un libro sull’arte della prolunga¹.

    Gigio appartiene alla generazione di coloro ai quali il teatro poté apparire come un luogo in cui coltivare ed elaborare non (auto)distruttivamente la propria rabbia e il proprio bisogno di ribellione. Marco Martinelli deve aver pensato anche a lui, ne sono sicuro, quando ha scritto il movimento 89 del suo recente Farsi luogo. Varco al teatro in 101 movimenti:

    Alle mie spalle certe isole dei pirati di cui si favoleggia, i circoli degli anarchici che non mettevano bombe, gli esperimenti di comunità. Accanto a me, oggi, tutti gli scontenti, quelli che però non si lamentano, ma traducono l’inverno del loro scontento in azioni quotidiane e creatrici. Accanto a me tutti i rivoltosi, quelli che però non vanno a spaccare vetrine, e neppure si mettono in posa sulle riviste, ma traducono la rivolta in nuove architetture del mondo².

    Il caso ha voluto che scrivessi queste poche righe poco dopo aver licenziato le ultime bozze della riedizione di un mio vecchio libro³, dedicato proprio alla rivolta teatrale degli anni Sessanta e Settanta, e, leggendo Racconti su un attore operaio, mi è sembrato di vedermi venire incontro uno dei tanti giovani del teatro di gruppo cui il mio libro era ed è consacrato. Come se reclamasse, pirandellianamente, il suo diritto a prendere la parola e a raccontare in prima persona la propria storia.

    Leggetela allora, anzi, leggiamola insieme.

    Bologna, 11 gennaio 2017

    DICHIARAZIONE D’INTENTI

    Questo libro racconta alcuni momenti della vita di Luigi Dadina: fino ai vent’anni tra Porto Corsini e il Villaggio Anic, poi con il Teatro delle Albe di Ravenna.

    L’ho scritto a partire da una grande quantità di conversazioni avute con lui e di esperienze condivise dalla fine degli anni Novanta a oggi.

    Seguendo i suggerimenti di Cesare Zavattini in merito al «pedinamento del reale» e alla convinzione che «il banale non esiste», ho cercato di raccontare gli aspetti concreti e minuti della vicenda di Gigio (tutti chiamano così Luigi Dadina, da sempre, e così ho fatto anch’io, qui): lui non è un teorico, è un uomo che realizza la sua essenza soprattutto attraverso il fare. Stare molto vicini alle cose credo sia corretto e rispettoso di questo suo modo d’essere. Per la stessa ragione ho mantenuto un registro linguistico concreto.

    Il mio obiettivo: raccontare una storia che si possa almeno un po’ immaginare, leggendola. Mi piace pensare di averla scritta anche per chi non è interessato al teatro in generale, né al Teatro delle Albe in particolare, né a Gigio: destinatario ideale è chiunque abbia voglia di rimanere per un po’ di tempo in compagnia della vita di un uomo.

    Per questo motivo non mi sono preoccupato di restituire nel suo insieme, con la dovizia di particolari e di riferimenti teorico-critici che certo meriterebbe, la vicenda del gruppo fondato nel 1983 da Marco Martinelli, Ermanna Montanari, Luigi Dadina e Marcella Nonni. Come è noto il Teatro delle Albe in questi decenni ha sviluppato, a partire dalle intuizioni di Marco Martinelli e Ermanna Montanari e grazie alla loro direzione artistica, il proprio originale percorso «intrecciando alla ricerca del nuovo la lezione della Tradizione teatrale»¹: una peculiare tessitura che è valsa alla Compagnia e ai suoi fondatori numerosissimi, prestigiosi riconoscimenti internazionali.

    Mi sono apprestato a questa piccola impresa con un po’ di timore.

    Oggi sento molta gratitudine per le sorprese che sono arrivate.

    MP

    Forlì, gennaio 2017

    COMINCIAMENTI

    Conversazioni attorno al tavolo, si potrebbe sottotitolare questo racconto: gran parte dei dialoghi alla base del libro sono avvenuti a casa di Gigio, negli anni. In cucina, attorno a un tavolo quadrato di legno marrone. Il piano è allungabile, per accogliere persone di passaggio e in arrivo: ciò accade spesso, qui. Su un lato c’è un frigorifero bianco sopra al quale sta una pila di libri riguardanti il progetto del momento. Dal lato opposto una grande finestra dà sul cortiletto interno, con una decina di pesci rossi che nuotano nella vasca circondata di piante. Un armadio di vetro opaco, zeppo di stoviglie di molti colori sta di fronte al lavandino e al fornello: Gigio è spesso da quelle parti.

    –Quando avevo due anni ero molto magro.

    Come lo sai?

    –Ho le foto. Me ne ricordo una. Avevo una pistola, sparavo in alto. Indossavo un grembiule a quadretti azzurri e bianchi.

    La foto è in bianco e nero o a colori?

    –In bianco e nero.

    La pistola era di legno o di plastica?

    –Non ricordo. Era una pistola giocattolo. Spero.

    Cos’altro?

    –In testa avevo un basco che apparteneva a mio babbo.

    Eri seduto sopra a un tavolo? Sai che una volta facevano le foto così, ai bambini piccoli.

    –No, non ero in posa, stavo da qualche parte all’aperto. Di fronte a casa, a Porto Corsini.

    Chi scattò la fotografia, i tuoi genitori?

    –No, loro non hanno mai posseduto una macchina fotografica. Me la fece qualcun altro.

    I tuoi genitori erano nati a Porto Corsini?

    –Mio babbo e mia mamma erano originari di Imola.

    Che lavoro faceva tuo padre?

    –Il paracadutista.

    Il paracadutista?

    –Sì, nell’Esercito. Subito dopo la guerra, a inizio anni Cinquanta. Come nazione sconfitta, potevamo avere un numero di paracadutisti molto limitato.

    Come gli venne l’idea?

    –Quando aveva dieci o undici anni, vide «gente venire giù dal cielo», come mi raccontò con gli occhi spalancati. Nacque nel ’32, quando la Seconda Guerra Mondiale finì lui aveva tredici anni. Durante la guerra rubava il burro ai tedeschi, lo rivendeva, cercava di concludere affari con tutti. A diciotto anni decise di arruolarsi come paracadutista, anche perché si guadagnavano molti soldi. Era complicato entrare, e restare, in quel Corpo. Lui vi resistette due anni.

    Dopo?

    –Per un po’ di tempo lavorò come rappresentante di materiali edili per lattonieri. E nel ’57 fu fra i primi a essere assunto all’Anic.

    Hai fotografie di tuo babbo paracadutista?

    –Sì. Una in posa, in piedi, da bell’uomo un po’ muscoloso. Un’altra con un cane. Una in cui si lancia dall’aereo. In un’altra immagine si vedono molti paracadutisti in cielo e c’è una freccia che indica quale è lui: la disegnò con la penna biro nera.

    Era orgoglioso di esserlo stato?

    –Quando doveva vestirsi bene per andare da qualche parte, sul bavero della giacca appuntava una spilla con un piccolo paracadute azzurro e oro.

    Come si chiamava?

    –Giuseppe.

    Con tua madre che tipo di rapporto aveva?

    –Per certi aspetti Giuseppe era come un quarto figlio. Lei era il capo assoluto della famiglia. Lui doveva lavorare e portare a casa lo stipendio, ma la gestione di tutto era responsabilità e cura di mia madre. Si chiamava Candida.

    Corpo a corpo. Fino ai sei anni Gigio sta sempre con lei, incollato. Candida non ha amiche a Porto Corsini. L’unico lusso che si concede è comperare la rivista Oggi. Ogni settimana, per decenni. Da giovane, prima della nascita di Gigio, apre assieme alla sorella una cartolibreria a Imola, che poi fallisce. Soldi in casa, pochi. Si risparmia, ma senza cupezza.

    –A tredici anni capii che dovevamo finire di pagare alcuni debiti. Prima non me ne ero mai accorto.

    Candida legge i Gialli Mondadori e la Selezione dal «Reader’s Digest». Accompagna Gigio in spiaggia, d’inverno. Mentre lui gioca, lei legge. Cucina zucchine bollite nel latte. Fa la sfoglia, prepara il ragù. Mamma e figlio lavorano assieme nell’orto dietro casa. Sgranano i piselli, puliscono i porotti, lavano l’insalata, preparano barattoli di vetro con dentro pesche sciroppate, verdure sottolio, pomodori pelati per fare la salsa. Non giocano insieme.

    –Se mio babbo stava zappando nell’orto, era vietato entrare: quando l’ortolano era in azione bisognava starne lontani.

    Giuseppe ogni tanto scompare. Va a lavorare, a raccogliere le vongole, a caccia e a pesca. In casa c’è poco.

    Da Imola, dove era nato anche tuo padre, come finiste a Porto Corsini?

    –Affittammo un appartamento lì perché costava un po’ meno ed era vicino alla fabbrica. C’erano quasi solamente casette a un piano. Noi abitavamo in un edificio a due piani: sembrava di vivere in un grattacielo. Strade bianche, ricoperte di ghiaia, d’inverno erano piene di fango. Le donne andavano a fare la spesa in ciabatte. Quando era freddo indossavano calzettoni di lana.

    Tu quanti anni avevi?

    –Vissi a Porto Corsini dai due ai sei anni d’età.

    Come passavi le tue giornate?

    –Quasi sempre in pineta.

    Molti anni dopo, la pineta di Classe diventerà lo spazio scenico in cui dare vita ai Trebbi. Gli spettatori arrivavano in autobus, tutti assieme nella notte, la attraversavano a piedi per raggiungere un casolare tra gli alberi. Gigio-attore si faceva narratore. Nella presentazione di questo progetto, scriverà: «La pineta è enorme. È uno spazio della psiche che per molti ravennati rimane assolutamente sconosciuto. Ho creato questi Trebbi perché molti possano vivere l’esperienza di camminare e sostare in pineta nelle notti d’autunno. E in questo modo riavvicinarsi concretamente, fisicamente, all’atto originario del raccontare e dell’ascoltare: come quando presentammo Griot Fulêr in un grande cortile all’aperto in una cittadina del Senegal, ancora una volta si è trattato di trovare un luogo non condizionato da una fruizione convenzionalmente teatrale».

    Chi giocava con te in pineta?

    –Spesso ero da solo. Ci saranno stati dieci bambini della mia età, a Porto Corsini. Li vedevo ogni tanto in primavera. D’inverno incontravo solamente una bambina che abitava di fronte a casa mia. Gli altri ragazzini erano selvatici tanto quanto lo ero io. In pineta imparai ad andare in bicicletta: c’era un piccolo avvallamento, io salivo più in alto possibile e poi partivo. Caddi un po’ di volte, poi pian piano andò meglio.

    Cos’altro facevi?

    –Costruivo fionde. Il mio amico Roberto, che era un po’ più grande di me, ne aveva una: mi spiegò che tipo di legno dovevo cercare. Lui era il figlio del nostro padrone di casa.

    E in estate?

    –Cambiava tutto: andavamo a dormire nei bassicomodi.

    I bassicomodi?

    –I garage, le cantine di casa. Il bagno era fuori, nel cortile, vicino a una pompa di ferro per tirar su l’acqua. Era divertente trasferirsi di sotto. Ci spostavamo per affittare i nostri appartamenti ai bolognesi che venivano in vacanza al mare. Di solito avevano figli.

    Era facile socializzare con loro?

    –Abitando lì, ne sapevo più di tutti quei turisti su quel che c’era da fare e da vedere nella zona. La mattina i bambini bolognesi mi svegliavano e io li accompagnavo al mare.

    Turisti-marziani: si vestono da spiaggia, uomini con pantaloni corti e donne cotonate, bambini un po’ maldestri e spaventati nel rapporto con la natura.

    –La nostra casa aveva il mare davanti, a sinistra la pineta, dove stavo volentieri in inverno, perché vicino all’acqua faceva freddo. C’era il molo. Ogni tanto andavo a pescare, anche con mio babbo. La mattina, a volte, raccoglievamo le vongole, in estate e in autunno se pioveva cercavamo lumache. Poi gli asparagi. E un tipo di funghi di pineta, le spugnole. C’erano sempre cose da raccogliere, là.

    Sto qui a collezionare un elenco di fatti, facce e minime descrizioni: se storia deve essere, che sia minuta, concreta. «Un piccolo fatto vero», dice il poeta. Altro da sé che ci costituisce, ci fa sostanza. A proposito di poesia: fa poesia.

    –Non frequentai l’asilo. La mattina, soprattutto d’inverno, andavo a comperare il latte con mia mamma. Un giorno, io ero molto piccolo, ricordo una signora, probabilmente veneta, che le raccontava di parenti morti a causa del crollo di una diga. La donna un po’ piangeva, parlava una strana lingua, diversa dalla nostra. Quella diga era il Vajont, scoprii anni dopo.

    E tuo padre?

    –Un giorno gli altri bambini vennero da me e uno mi disse: «Tuo padre ha detto al mio che andando a caccia ha incontrato un serpente, lo ha colpito con un bastone e lo ha ucciso». Vagammo per molto tempo in mezzo alla pineta, finché trovammo la biscia dentro a una buca. La portammo a casa.

    Con gli altri bambini parlavate in italiano o in dialetto?

    –In italiano, credo. Eravamo quasi tutti romagnoli, ma c’erano anche dei comacchiesi, alcune famiglie di pescatori arrivate da Chioggia e altre venute giù dalla montagna dopo la guerra. C’erano anche operai dell’Anic arrivati da tutta Italia. Le uniche due famiglie veramente originarie di Porto Corsini, almeno così mi dicevano, erano i Ravegnani e gli Stella.

    Gigio impara a nuotare con il sistema che si usa all’epoca: «Si veniva legati a una corda e si veniva gettati nel canale». Gigio ha quattro anni. «Oggi ti insegniamo a nuotare» gli dice Marco Ravegnani, il padrone di casa padre di Roberto, quello della fionda. Vanno nel Candiano. Gli lega una fune attorno al petto, sotto alle ascelle, e lo butta in acqua: «Chi non riusciva a stare a galla veniva strattonato, per non affogare». Dopo aver imparato a nuotare, Gigio può andare al mare da solo. Il mare è a cento metri da casa.

    –Il medico di stanza a Porto Corsini era un amico di mio babbo. Si chiamava Franzoni: è quello di cui racconto nello spettacolo Narrazione della pianura . Ne do conto quando parlo di Zabaron, un facchino, gran narratore che avevo conosciuto sui diciassette anni lavorando in fabbrica.

    Quando lavoravo in fabbrica, a j o cgnusù Zabaron¹. Non so se lo conoscete. No? Vabbè… Zabaron e e’ caschéva sèmpar int e’ mi tùran, l’éra una muntâgna d’zènt e vent zènt-trènta chilo², la prima cosa che faceva quando arrivava a lavorare era andare su una pesa per i sacchi e controllarsi il peso, se s’accorgeva di aver perso anche solo un mezz’etto andava nello spogliatoio a mangiarsi un panino. Immediatamente. Portava tutti i vestiti senza le maniche, anche d’inverno, le aveva tolte anche al giubbone, non ho mai capito il perché. Quando a metà del turno di notte ci fermavamo per mangiare qualcosa, andavamo nello spogliatoio. Noi giovani scendevamo nel piazzale, dove c’era un camioncino che faceva da bar, panino alla mortadella e birra piccola era il menù fisso. Di sopra i vecchi avevano tirato fuori di tutto dalle loro gamelle: maccheroni, salsicce, castrato, verdure. Zabaron e’ tnéva d’astê che tot cvènt j aves finì d’magnê e pu l’atachéva a cuntê. E cun piò che i fët j era strambalé e cun piò Zabarò e’ staséva séri³. Che lui andava a comprare la carne in Jugoslavia un sabato sì e un sabato no con il traghetto da Ancona perché costava di meno. Oppure di quella volta che sua mamma aveva questo gran problema alla cistifellea. Ed era già diversi anni che ne soffriva, passava da uno specialista a un altro ma non c’era niente da fare. Il dolore non scompariva. C’era solo una medicina che la faceva stare un po’ meglio, non è che la guarisse, ma insomma, almeno il dolore era un po’ meno forte. Questa medicina gliela aveva trovata Franzoni, il suo dottore che stava a Porto Corsini. Un giorno era lì nella sala d’aspetto in attesa di farsi fare la ricetta, sente due signore che parlano tra di loro, e una diceva di questo specialista della cistifellea che era un gran luminare, era appena tornato dal Paraguay, dove aveva vissuto molti anni, «che guarda, se te hai un problema alla cistifellea lui te la guarda e te

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1