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La parola alta: Sul teatro di Pirandello e D’Annunzio
La parola alta: Sul teatro di Pirandello e D’Annunzio
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E-book320 pagine4 ore

La parola alta: Sul teatro di Pirandello e D’Annunzio

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Info su questo ebook

Nello scialbo panorama del teatro italiano di fine Ottocento, Pirandello e D’Annunzio propongono la «parola alta» quale modello di un lessico inventato e ne ipotizzano la validità, condizionando sempre più la messa in scena delle loro opere. Il saggio esamina il teatro dei due grandi autori privilegiando la dialettica tra pagina scritta e scena, individuando il bisogno di palcoscenico implicito nelle battute dei loro copioni.
LinguaItaliano
EditoreCue Press
Data di uscita29 giu 2015
ISBN9788898442591
La parola alta: Sul teatro di Pirandello e D’Annunzio

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    Anteprima del libro

    La parola alta - Paolo Puppa

    Note

    Premessa

    Perché raccogliere in unico volume scritti apparsi altrove? Innanzitutto per una comunanza tematica, perché l’oggetto riguarda i nostri due massimi scrittori del primo Novecento, ossia Pirandello e D’Annunzio. Letterati ambedue, ma entrambi tesi a inventarsi una lingua per la scena, delle storie ossessive, dei miti, dei montaggi e un vocabolario riconoscibili, lontano dalla fatuità del mercato o dall’opacità naturalistica. Così si fa strada un lessico alto, una sintassi poco mimetica della platea, nel caso del siciliano individuati nel sillogismo e nell’arzigogolo dialettico, in quello dell’abruzzese nel manierismo lirico. E questo nel panorama scialbo della nostra drammaturgia tardo ottocentesca, votata alla routine commerciale e rassegnata all’assenza di una grammatica (di scrittura e di interpretazione) ogni volta che si rinuncia alla comicità dialettale e all’aura del melodramma, i soli territori viceversa in cui è possibile coniugare memoria culturale e popolarità del circuito. Ora Pirandello e D’Annunzio, se tentano di personalizzare i propri codici linguistici proprio nella fase delicata in cui fuoriescono le avanguardie storiche a mettere in crisi lo statuto della parola comunicativa entro la scena e tra la scena e la sala, lo fanno altresì avanzando verso il nuovo e contaminandosi col vecchio.

    Questi miei interventi, commissionati a volte a contatto con laboratori drammaturgici o in contiguità con registi e attori impegnati in un simile repertorio, hanno cercato di mettere in luce la dialettica tra testo e spazio, tra parola e immagine, tra immobilità del copione e mobilità infinita dell’interpretazione stessa, scavando nell’intarsio della produzione teatrale complessiva dei due autori e nella ricostruzione di allestimenti coevi o più recenti.

    E così, per un Pirandello metteur en scène, influenzato dalle opere degli altri che inaugura nel momento in cui scrive le sue – vedi l’esperienza al Teatro d’Arte –, o scrittore di farse apparenti da boulevard (in contro luce, delle messe nere) e di variazione sul triangolo (in realtà oscure allusioni a famiglie di notte) come nell’Uomo, la bestia e la virtù e nel Giuoco delle parti, o ancora affabulatore di soggetti isolati dal mondo tipo Serafino Gubbio, è il palcoscenico nascosto a emergere dalle battute, quello storico o quello più vicino al nostro tempo, o quello onirico, rimosso dalla coscienza dei protagonisti. A sua volta, D’Annunzio, la cui Figlia di Iorio viene analizzata nei rimandi al patrimonio figurativo michettiano e nei compromessi stipulati col kitsch e col feuilleton di Sardou, risponde con le metamorfosi luttuose al centro di Fedra o con le parades della Nave, ma dove sono attrici divine o palchetti militarizzati l’interlocutore privilegiato della scrittura teatrale. Tra i due commediografi-poeti, infine, a ideale cesura, il dittico narrativo di Giovanni Episcopo e di Mattia Pascal, indagati quali attori della sofferenza, il primo immedesimato retoricamente con la propria passione, il secondo straniato in un gelido disincanto, e pertanto doppi strategici della drammaturgia complessiva dei loro autori.

    Già nel 1993, ovvero vent’anni fa, avevo raccolto presso Laterza nove corposi saggi, quattro su Pirandello e cinque su D’Annunzio, sospesi tra narrativa (in particolare quella monologante di Giovanni Episcopo e Mattia Pascal) e palcoscenico. Datati tra il 1981 e il 1992, prendevano in esame le pratiche e le tecniche devianti da parte dei due scrittori meridionali rispetto al sistema culturale vigente e ai valori del mercato, nel passaggio tra l’epoca umbertina e il fascismo. Non mancava un confronto serrato tra i due, entro un comune approccio tematico relativo ai miti e alle metafore ossessive (per dirla alla Charles Mauron), di fatto un sottotesto che premeva sotto la superficie in apparenza autonoma dei vari contributi. In più, costante si manifestava un’attenzione esplicita verso l’aspetto linguistico, nella contrapposizione tra l’arzigogolo causidico, tra la comicità dialettale sublimata negli aforismi ilaro-tragici del raisonneur nel siciliano e il manierismo lirico, messo in moto dall’aura del melodramma, nell’abruzzese.

    Ma questo doppio percorso si incrociava e si contaminava coi processi aperti dalle avanguardie storiche, con la crisi non reversibile dello statuto comunicativo della parola e nel rapporto tra scena e sala, caos con cui i due autori erano costretti necessariamente a fare i conti. E nondimeno quest’attenzione alla pagina si apriva alla sua ricezione nel tempo, specie per quanto riguardava l’interpretazione controversa della ribalta, coeva e successiva. Nella prefazione del 1993, spiegavo altresì che la genesi di alcuni tra questi scritti si collocava nel mio secondo lavoro (secondo rispetto a quello di docente universitario e di commediografo-performer), ossia di consulente o dramaturg di registi importanti, oltre che da laboratori di drammaturgia tenuti in giro per il mondo. Ne derivava una rivalutazione esplicita della produzione scenica del pescarese, spesso liquidata come kitch dandy, improponibile nel contemporaneo, al contrario da me considerata nelle implicazioni antropologiche e nella memoria figurativa.

    A sua volta, la vocazione teatrale dell’agrigentino usciva da ogni immagine, da ogni battuta sulla stampa, sin dai meandri del sogno e della coscienza nei suoi raccontini dove il dialogante tra fantasmi e follie allenava i propri muscoli. Ovviamente, l’operazione editoriale di vent’anni fa si risolveva in una agevolazione per lo studioso, per lo studente, per l’appassionato di un simile territorio, in quanto era possibile trovare organizzato in un corpus organico testi in precedenza sparsi e sepolti in riviste spesso introvabili.

    Oggi nel 2013 il discorso vale, anzi si rafforza e nello stesso tempo si articola diversamente. Debbo alla tenacia di Mattia Visani, scatenato editore elettronico l’aver acconsentito di strappare al nichilismo del macero (dove la casa editrice alla fine aveva deciso di relegare il volume) o al silenzio polveroso di biblioteche universitarie questa Parola alta, e lo ringrazio pubblicamente. Sono troppo avanti negli anni, eufemismo utilizzato a sfumare le leggi dolorose dell’anagrafe, per poter vedere sino in fondo la metamorfosi del medium ormai in corso nell’editoria del mondo, e nella materialità e nel consumo dell’opera stessa. Appartengo per generazione alla categoria di gente abituata a leggere sulla carta, anche perché gli occhi quando non più giovani si stancano prima davanti al piccolo leggio del computer o dei più recenti e ancor più gulliverizzati prodotti elettronici. Ma il futuro è dell’e-book, non ho dubbi. Non piango sul mutamento. La Storia con la esse maiuscola ci insegna che alti lai si levarono nel secolo di Gutenberg. A piangere erano i cultori degli incunaboli medievali. Un millennio prima del resto la scrittura si depositava e si fruiva su tavolette di cera. Perché non considerare queste ultime la prova generale in fondo dell’attuale iPad, elogio calviniano della leggerezza e della sottigliezza dei nuovi circuiti?

    Pirandello capocomico, in «Biblioteca teatrale», 12, 1989.

    ‘Il giuoco’… in cerca d’autore, in AA.VV., Pirandello fra penombre e porte socchiuse, Costa Nolan, Genova, 1991.

    L’uomo, la bestia e la virtù, in «Quaderni del Teatro Carcano», n. 2, 1992.

    Serafino Gubbio e le bestie, in AA.VV., Si gira - Il romanzo cinematografico di Pirandello, Edizioni del Centro Nazionale Studi Pirandelliani, Agrigento, 1987.

    Giovanni Episcopo e Mattia Pascal, in «Autografo», 21, 1990.

    ‘La figlia di Iorio’ tra Michetti e D’Annunzio, in «Quaderni del Vittoriale», 29, 1981.

    ‘Fedra’ e ‘Il fuoco’, in AA.VV., G. d’Annunzio - Grandezza e delirio nell’industria dello spettacolo, Costa Nolan, Genova, 1989.

    ‘La nave’ a Venezia, in AA.VV., D’Annunzio e Venezia, Lucarini, Roma, 1991.

    D’Annunzio e la scena francese tra boulevard e simbolismo, in AA.VV., a cura di S. Sinisi, Miti e figure dell’immaginario simbolista, Costa Nolan, Genova, 1992.

    La parola alta

    Pirandello capocomico

    L’esperienza di Pirandello al Teatro d’Arte o Teatro degli Undici, inaugurata il 2 aprile 1925 e protrattasi fino alla stagione 1927-28, è la storia nobile e controversa di un fallimento. All’enfasi pionieristica, all’intransigenza ardente del progetto nella fase iniziale si contrappone infatti una realtà concreta, fatta di compromessi e di rinunce. A quasi sessant’anni, il commediografo non esita ad aderire all’iniziativa di giovani autori non allineati all’industria dello spettacolo, tra cui il figlio Stefano Landi e Orio Vergani (1), considerando maturi i tempi per una scelta del genere e dunque sbandierando con fervore propositi alternativi alle modalità produttive della scena italiana: no al pressappochismo artigianale, all’improvvisazione, al guittismo; no alla brevità delle prove, ai fondalini dipinti e al suggeritore; sì al rilancio della drammaturgia nostrana, alla valorizzazione degli esordienti e dei non garantiti all’insegna dell’arte e della professionalità. Ebbene, a spulciare documenti e memorie di quanti presero parte all’avventura, non si evita un’impressione di velleitarismo e di astrattezza nel riscontro dei dati oggettivi (2).

    Il suggeritore, ad esempio, continua a imperversare. E, del resto, le cinquanta opere allestite in soli quattro anni di attività, di cui ventidue dello scrittore siciliano, necessitano evidentemente d’un supporto per la memoria degli attori. Virgilio Marchi, architetto e scenografo di molte messinscene, ci racconta un gustoso e significativo aneddoto in occasione della generale e poi della prima all’Argentina della Nuova colonia (24 marzo 1928): Marta Abba, la Spera del testo, nella convulsa sequenza finale, allorché in cima allo spuntone di roccia scaglia la maledizione ai gruppi sovraeccitati che intendono strapparle il figlio, sfinita dalle tensioni, dallo sforzo richiesto «e dalla responsabilità della parte alla quale aveva dato da tempo tutta se stessa, perdeva il controllo, mancava all’afflato generale. Qualche battuta venne saltata. Imbarazzo del suggeritore e degli attacchi susseguenti» (3).

    Anche la promozione di giovani autori si risolve in un nulla di fatto. Su cinquanta spettacoli, s’è detto, ventidue riguardano opere pirandelliane, e questo non per il narcisismo del drammaturgo, ma per le richieste e le sollecitazioni che premevano da parte di impresari e organizzatori delle tournée all’estero, indispensabili per sanare i debiti contratti nelle messinscene in Italia, e in quei circuiti era Pirandello capocomico di se stesso che richiamava le committenze. Nondimeno, per altri ventotto allestimenti, gli autori italiani sono pur sempre in minoranza e mescolati in un assortimento non impeccabile: di fronte al Bontempelli di Nostra Dea e a La morte di Niobe di Savinio, a Il Vulcano di Marinetti, alla ripresa del sansecondiano Marionette, che passione! e infine a Bellinda e il Mostro di Cicognani, stanno inquietanti i De Stefani del Calzolaio di Messina e poi dei Pazzi sulla montagna, i Giovannetti di Paulette, il Vergani del Cammino sulle acque, e peggio ancora; rispetto all’intimismo da boulevard o ai conati filosofici e alle allegorie di maniera di questi ultimi autori si accampano opere come La casa nel giardino di Sommi Picenardi o La Croce del Sud di Interlandi e Pavolini, titoli da rimuovere con imbarazzo e da addebitare all’ingenua generosità di Pirandello rabdomante, per non parlare del ripescaggio, negli ultimi mesi dell’esperienza, entro il repertorio obsoleto fine Ottocento come Le Vergini di Praga o Scrollina di Torelli. Non si tratta solo di cattivo gusto o di una cecità critica nel «maestro». È il pubblico da conquistare e da mantenere che determina questi filoni. Perché le sale spesso mostravano indifferenza o disaffezione nei riguardi della proposta. Alcune perplesse recensioni mettono in luce la precarietà del rapporto con la platea italiana, perché «si son vedute serate in cui a uno spettacolo inscenato e diretto da Luigi Pirandello, che sarebbe stato un avvenimento in tutto il mondo, a Roma si presentava una sparuta schiera di ammiratori» (4).

    Qui sta però una delle contraddizioni, insuperabili negli anni Venti, che minano alle fondamenta l’impresa, demotivandone progressivamente la tenuta e facendo slittare l’iniziativa, concepita quale stabile, nelle defatiganti e onerose condizioni di una compagnia di giro, tra cui il trasferimento dalla piccola sala dell’Odescalchi a quella più spaziosa e costosa del Teatro Argentina. In effetti il pubblico cui si rivolge, fin dal suo debutto, il gruppo degli Undici, è un destinatario «aristocratico, e in gran parte cerimoniosamente invitato» (5), mentre i giornali fanno a gara nel sottolineare come nella sala sfavillante di mondanità e di eleganza, simile ai sogni di Mommina nella novella Eleonora addio! o alle radiose prime teatrali nel romanzo Suo marito, si siano incrociati arte, intellettualità, politica, censo, «fulgori di bellezza e fascino di muliebri eleganze» (6).

    Il biglietto d’ingresso costa centoventi lire all’inaugurazione del 2 aprile, col dittico costituito dalla pirandelliana Sagra del Signore della nave e da Gli Dei della montagna del commediografo irlandese Lord Dunsany. Ora, la paga di Lamberto Picasso era di centosessanta lire, cifra altissima per l’epoca, e quella di Marta Abba, che avrebbe dovuto essere solo una delle quattro prime attrici nella sbandierata riformulazione dei ruoli all’interno della vecchia «ditta» all’italiana, per poi risultare in realtà l’unica prima donna della compagnia, era di ben centosettanta lire appunto giornaliere! Dunque il modello sociale di fruitore è decisamente selezionato, elitario, e non nel senso culturale nella misura in cui il progetto si colloca al di là di stravaganze e di eccentricità sperimentali (7), quanto proprio nell’accezione economica del termine. Ci si dimentica insomma, nonostante i consigli di d’Amico, il quale mirava in quel periodo ad allargare la base sociale della sala, che «fra il pubblico nostro la parte più colta, più spiritualmente attiva, più disposta a svegliarsi, è la più povera. La cultura in Italia è diffusa soprattutto fra la piccola borghesia, e fra una minoranza di giovani: studenti, professori, impiegati, artisti e, già più di rado, modesti professionisti. Gente che […] non ha i denari per pagare il biglietto d’ingresso. È così che le ragioni morali e intellettuali della crisi del teatro si complicano, in Italia, d’una ragione economica. Riprova palese: basta che un buon spettacolo si replichi, come è uso in Roma e altrove, per un giorno della settimana, e a prezzi popolari, e il teatro si riempie. Quella che non se ne dà per intesa è la classe agiata. La quale […] domanda unicamente la beata digestione» (8).

    E viceversa, per garantire una penetrazione nel mondo dell’industria e della finanza da cui la società privata del Teatro d’Arte si riprometteva appoggi, e per coinvolgere le istituzioni politiche nella mitica prospettiva di una scena nazionale (9), ecco il palco reale, ricavato dall’architetto Marchi dal vano d’una finestra e dotato d’una entrata privata, da cui poteva contemplarsi l’epifania di Mussolini o del principe Umberto, luogo che nei lavori di restauro dell’Odescalchi assumeva la funzione simbolica di cooptazione dell’occhio del potere, di rinascimentale memoria, a suggellare sovvenzioni e benevolenze che non sarebbero in realtà mai venute! Ecco ancora il sontuoso arredamento che trasforma la sala Odescalchi, ex scuderia e poi Teatro delle Marionette di Podrecca, in una morbida sinfonia di tappeti viola (andando contro l’antico tabù quaresimale che vietava questo colore nel mondo dello spettacolo), di seriche stoffe grigie alle poltrone e di argento che caratterizzava balaustre, fanali e scorniciature (10). Le toilette delle grandi dame romane si intonavano, la sera dell’inaugurazione, al nuovo décor, ma anche le didascalie delle prime opere ospitate non mancavano di adeguarsi allo stile cromatico dell’ambiente, basti pensare al grigio tortora con cui si fasciava Nostra Dea di Bontempelli, ossia Marta Abba al suo debutto, il 22 aprile 1925, nella compagnia pirandelliana, nei momenti di languore e di arrendevolezza dettati alla poliedrica protagonista che mutava l’anima col cambio delle vesti (11).

    Ma i citati «fulgori di bellezza e fascino di muliebri eleganze» erano ovviamente contraddetti dal gusto conservativo della platea. Disastrosa è l’accoglienza riservata a La morte di Niobe, tragedia mimica di Savinio, scritta nel 1913 e messa in scena all’Odescalchi il 14 maggio 1925. Il pubblico romano reagisce con malumore e risa sguaiate alla grottesca parodia della creatura mitica, punita dal Dio per essersi vantata della sua numerosa prole, e collocata dal suo autore in una pantomima astratta, ritmata da percussioni rumoristiche e da un pianoforte suonato con registri futuristi. A questo destinatario alto borghese, chiuso nella sua sicumera mondana, Savinio riserva parole disincantate di ironico sgomento: «il pubblico quanto a sé, è l’orda dei camerieri che assistono alla festa, assiepati dietro l’uscio dell’anticamera: vedono le danze, sentono la musica, ma non partecipano, i poverini […]. Dopo di che, chiaro diverrà ai miei lettori che al musicista, cui Euterpe ispira altri suoni che non quelli della Serenata di Toselli, convenga anzitutto armarsi di coraggio, e comporsi l’animo guerriero di quei missionari che vanno a propagare il verbo di Cristo tra i cannibali che vivono tuttora nel centro del Congo» (12).

    Ora, le incertezze circa l’identità culturale della sala, poco disposta a seguire Pirandello, nel suo lavoro di promotore della nuova drammaturgia, si ripercuotono pure nell’insicurezza con cui il commediografo stesso qualifica il proprio ruolo all’interno della compagnia. In una delle interviste rilasciate nell’imminenza del varo dell’Odescalchi, il 31 gennaio 1925, lo scrittore si definisce «direttore, impresario e organizzatore insieme» (13), non regista. Ma non si tratta solo del ritardo della parola, che accede tra mille difficoltà sui nostri palcoscenici e sui nostri dizionari (si dovrà attendere l’intervento del linguista Migliorini su «Scenario» nel 1932, perché il termine regista abbia uno statuto di circolazione fra gli operatori del settore); la precarietà lessicale, sostituita nei primi tempi con surrogati oscillanti tra messinscena, apparatore e régisseur, si raddoppia infatti nell’ottica con cui Pirandello tiene a distanza la demiurgia europea del creatore unico sul palcoscenico, quasi occupandone lo spazio totalizzante. E in tal modo si colloca agevolmente entro l’opzione idealistica, da sempre sospettosa nei riguardi della materialità della scena, e favorevole viceversa al primato del testo, al servizio del quale verrebbero inglobate pure le nuove istanze produttive sollecitate dalla figura emergente del regista. Alle spalle di una simile diffidenza preme il magistero ideologico di Silvio d’Amico, la strategia moderata con cui il fondatore dell’Accademia nel 1935 introdurrà ufficialmente nel nostro teatro il «concertatore» esorcizzandone gli aspetti rivoluzionari. Già nel 1926, durante l’esperienza dunque del Teatro d’Arte e in occasione di una tournée italiana dei Pitoeff, d’Amico addita con perentorietà la strada da percorrere stigmatizzando la pretesa iattanza del novello despota: «se l’artista drammatico è, come dev’essere, un mago, ha da fare dei miracoli: e noi esigiamo da lui l’impossibile: che sia artista, senza essere libero; che sia personale, sforzandosi di restare alle dipendenze di un’altra personalità, quella dell’autore. […] Ma se ammettiamo che, nel teatro drammatico, vale a dire in quello che ha per scopo di commentare scenicamente un’opera drammatica, la messinscena deve servire gli intenti dell’autore, allora s’intende bene che un ‘problema della messinscena’ […] non esiste. Esistono tanti problemi, quante sono le opere da mettere in scena: ciascuna vuole la messinscena sua. […] Al contrario, quando l’interesse per l’apparato scenico viene in primo piano, e trionfa esageratamente il gusto visivo, allora quasi sempre la poesia drammatica decade. […] Il teatro drammatico è regno di poeti; e sono i poeti che vi debbono comandare. A tutti gli interpreti, siano régisseur siano attori, spetta servire» (14).

    Sfilano in questa apodittica dichiarazione alcuni capisaldi destinati appunto ad affermarsi, tra le due guerre, e oltre, nella nostra cultura teatrale e si rendono trasparenti le sole condizioni con cui la nuova professionalità passa le Alpi: il regista infatti può esistere o come commentatore-critico di un testo scritto o come sacerdote-ministro del Dio-autore, valido insomma nella misura in cui si annulla. E Pirandello ritrova in codesti princìpi alcune metafisiche ossessioni della sua giovinezza, come quella secondo cui l’opera dovrebbe mettersi in scena da sé, senza mediatori di sorta. Eccolo pertanto intervenire nel settembre del 1925 a supporto di una prospettiva del genere e a giustificazione, inoltre, delle proprie scelte di capocomicato: «si ripete spesso che in generale gli autori sono incapaci di fare recitare le loro produzioni. Non contraddico quest’opinione, ma se un autore crede di sapere come bisogna sia recitata una sua commedia, mi pare che egli debba avere maggiore facilità d’ottenere lo scopo di un direttore di professione sia o non sia anche attore» (15).

    Nella trilogia metateatrale assistiamo, del resto, a un’autentica fenomenologia del nuovo ruolo, nel suo progressivo svilupparsi dai vecchi modelli operativi. Nei Sei personaggi in cerca d’autore del 1921 a un drammaturgo rimosso corrisponde sul palcoscenico l’ancora autorevole figura di direttore-capocomico (e un direttore di scena si mostra qua e là in tutta la sua umile subalternità) (16). Tre anni dopo, con Ciascuno a suo modo, il capocomico si è scisso dal direttore (di teatro, però) e dall’amministratore della compagnia in una più razionale e conveniente articolazione di oneri e competenze, mentre rispunta il personaggio dell’autore, in un’ironica autocitazione, quale responsabile della pièce a chiave, ma nondimeno disposto a farsi emarginare dagli accadimenti che proliferano nel ridotto (17). In Questa sera si recita a soggetto, infine, scritta nel 1929 in Germania, ossia nelle vicinanze del gigantismo registico di Reinhardt e di Piscator, il commediografo si immola in un autodafé antifrastico, vale a dire si riduce a «rotoletto di poche pagine […] novelletta, o poco più, appena appena qua e là dialogata da uno scrittore a voi non ignoto» (18), salvo poi riemergere nell’invocazione finale degli attori impauriti dall’eccesso di investimento emotivo che rischia di farli morire con il personaggio in cui si incarnano. La didascalia che presenta Hinkfuss, il dottore sotto la cui direzione si produce la recita a soggetto e che imperversa con i suoi raffreddamenti tra le trance degli interpreti, è già un’anticipazione eloquente del trattamento umoristico che gli è riservato, ossia la risposta della biblioteca e della poesia drammaturgica incerta tra il disprezzo per il mago ciarlatano e l’invidia ammirativa circa le sue capacità scenotecniche. Hinkfuss, piede zoppo a suggello d’una diversità arcaica e di un disturbo cinico (19), irrompe con la sua voce bizzosa per ricordare alla sala e ai commedianti il proprio dominio moderno nella macchina dello spettacolo; eppure «ha la terribilissima ingiustissima condanna d’essere un omarino alto poco più d’un braccio. Ma se ne vendica portando un testone di capelli così. Si guarda prima le manine che forse incutono ribrezzo anche a lui, da quanto sono gracili e con certi ditini pallidi e pelosi come bruchi» (20).

    Eppure questa mostruosa creatura è una pallida eco, una reviviscenza imbastardita e ormai irriconoscibile

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