Scrivere una commedia di successo in dieci passi
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Anteprima del libro
Scrivere una commedia di successo in dieci passi - Ombretta De Biase
Prefazione
Agli aspiranti autori, perché ne facciano buon uso
Relegata ai margini per decenni, ora la nuova drammaturgia italiana sta vivendo una stagione più propizia, merito di premi teatrali, festival, iniziative sostenute da Stabili e Teatri privati che credono, dopo un periodo in cui un affannoso complesso di inferiorità ci assaliva al cospetto specie di penne d'Oltremanica, che anche gli autori italiani abbiano qualcosa da dire.
Ma la scrittura per il teatro è del tutto particolare e pretende il prerequisito di conoscere cos'è il teatro. Non è affatto un caso che normalmente chi scrive per il teatro, il teatro lo conosce dall'interno, e lo conosce bene: spesso è regista, o attore, o anche critico teatrale o perlomeno spettatore consapevole. Dunque Ombretta De Biase, che in questo suo ultimo lavoro si rivolge agli aspiranti drammaturghi dopo aver dedicato varie opere alla formazione dell'attore, scolpisce quale pietra miliare che, prima di inforcare la penna, è indispensabile sapere che cos'è quel mondo finto ma più vero del vero che è il teatro. Per scrivere un buon testo non ci sono ingredienti sicuri, non c'è teorema che valga, nemmeno dà garanzie un approccio emulativo a scrittori di successo, ma far bottino degli ottimi consigli che l'autrice dispensa generosamente, questo sì, è un auspicabile punto di partenza per chi voglia avvicinarsi alla drammaturgia. Perché la tentazione di scrivere per il teatro può colpire chiunque abbia facilità di scrittura tale da indurlo a provarsi in questo genere che definir di nicchia
è d'uopo. Intanto un testo teatrale difficilmente sarà oggetto di amena lettura al pari di un romanzo o di un saggio. I testi teatrali quasi sempre si leggono in contesto scolastico (e in questo caso qualche scena e non per intero), se si tratta di classici, oppure nell'ottica di una messinscena, cioè immaginando che un testo da lettera morta
diventerà lettera viva
recitato dagli attori.
L'autrice allora accompagna il drammaturgo in fieri verso la creazione teatrale fornendogli gli attrezzi del mestiere
, spingendolo verso quella coerenza espressiva che è la qualità di ogni pièce che valga. Quella coerenza che lega il personaggio al suo linguaggio (che il drammaturgo deve forgiare), quella coerenza che motiva le azioni dei personaggi e provoca reazioni e relazioni (che il drammaturgo deve statuire). Quella coerenza, ancora, che rende compatto un tessuto drammaturgico che, come ha perfettamente coniato Ombretta De Biase, deve rendere conto in definitiva a un'unica legge, tanto semplice quanto ferrea, e che risucchia qualsiasi speculazione intellettuale e cioè l'ineludibile principio di rappresentabilità. Il sincero e appassionato impegno pedagogico che Ombretta esprime in queste pagine, e soprattutto la volontà di comunicare, nel senso proprio di mettere in comune, la propria esperienza, le conoscenze acquisite sul campo, il patrimonio di riflessioni costruito in decenni di teatro vissuto, sono la cifra autentica di quest'opera dedicata agli aspiranti autori perché ne facciano buon uso. D'altronde, il futuro del teatro è colmo di testi ancora tutti da scrivere.
Anna Ceravolo
Introduzione
L’ineludibile principio di rappresentabilità
Un’espressione un po’ impegnativa semplicemente per affermare, indicare la capacità di un copione di 'funzionare' non solo sulla carta, dove può anche risultare di gradevole lettura, ma sul palcoscenico, il che è tutt’altro che scontato, come cercheremo di capire più avanti. Infatti la scrittura per il teatro non è un'espressione letteraria come la poesia, il racconto, il romanzo, la biografia, etc. ma è una creazione artistica con i suoi codici molto diversi da quelli validi per la letteratura in senso lato. Non si tratta di una questione di lana caprina come la distinzione fra scrittore e romanziere che può prevedere, senza danno, contaminazioni; qui il danno è notevole perché in genere dequalifica la drammaturgia degli autori esordienti ed è un peccato perché invece le idee, le storie e le potenzialità abbondano. D'altronde, forse che noi tutti non definiamo, a partire dai sommi autori greci, W.Shakespeare, C. Goldoni, A. Cechov, H.Ibsen, L. Pirandello, S. Becket, E. De Filippo, D. Mamet, fino ai nostri contemporanei come E. Erba, S. Massini, F. Paravidino, G. Manfridi, P. Spinato, P. Delbono, A. Ruccello, U. Marino, etc. drammaturghi e non scrittori ?
A ciò si aggiunga la considerazione che, dalle rivoluzioni delle Avanguardie novecentesche in poi, il fare teatro può essere declinato in forme diverse, ognuna delle quali presuppone una significativa esperienza sul campo.
E dunque ogni aspirante drammaturgo deve iniziare con il chiarire, innanzitutto a se stesso, che cosa significa esattamente scrivere un testo teatrale che abbia i crismi della rappresentabilità e cioè che tipo di conoscenze teoriche e pratiche comporta e a quali obiettivi realistici mira. Ed ecco il motivo di questo mio ultimo manuale che nasce con l'idea, o piuttosto con la speranza, di essere d'aiuto per quei tanti giovani che intendono scrivere per il teatro ma non sanno come e da dove iniziare ma anche semplicemente di riuscire a informare coloro che intendono conoscere la specificità della scrittura per il teatro. Pertanto qui, evitando di addentrarci nel terreno dotto e quindi minato della trattazione teorica della parola drammaturgia, resteremo sul terreno di una pratica spicciola, una sorta di manovalanza, partendo dai fondamentali, cioè dalle famose aste d'antan, quelle che un secolo fa i maestri facevano fare ai bambini per insegnare loro a scrivere correttamente le lettere dell'alfabeto.
Cominciamo quindi con il chiederci:
Che cos'è un copione?
Non è una domanda oziosa ma serve a puntualizzare, a mettere i puntini sulle 'i', sull'oggetto, in senso materiale, che qui tratteremo. Cominciamo dall'ovvio:
un copione è una successione di dialoghi scritti in trenta-cinquanta pagine, che dovranno essere detti in un tempo determinato che va solitamente dalla mezz'ora alle due ore circa.
Detta così non sembrerebbe poi così difficile, basterebbe in fondo raccontare al pubblico una storia più o meno attraente, dialogarla nel linguaggio quotidiano o anche in vernacolo, e il mio copione sarà pronto per la scena. Tra l'altro, ci si potrebbe aiutare con qualche video o con arricchimenti sofisticati come giochi interattivi, se siamo esperti di linguaggi multimediali.
Diciamoci la verità, questo è proprio ciò che abbiamo pensato inizialmente quando abbiamo deciso di scrivere un testo teatrale e di qui, chissà?, sperato di riuscire a lavorare in teatro come autori ma anche come attori o registi, ritenendo che sia il lavoro più affascinante del mondo. Lo è, in effetti, ma non sarà così semplice come sembrava e le nostre illusioni cadranno ben presto.
Ora proseguiamo con lo sfatare la prima e più insidiosa leggenda chiarendo che:
un copione NON è un racconto.
Ma se non è un racconto allora che cos'è?
Un copione È una domanda.
Infatti, per quanto la nostra storia sia originale, emozionante, addirittura 'unica', non è detto che riesca a interessare il pubblico. Infatti, non sarà sufficiente il 'che cosa' racconteremo ma il 'come' lo racconteremo. Il 'come' non attiene alla forma, anche se questa ha la sua importanza, ma attiene soprattutto e in prima battuta al coinvolgimento emotivo e razionale che quella storia ci ha ispirato in quanto ci ha posto un dilemma, una questione, una 'domanda', appunto, su un tema, una metafora, un'idea sociale o politica, un 'qualcosa ' che ha attratto la nostra attenzione e che vogliamo trasmettere, condividere con altri tramutandola in una pièce. Quindi, prima di scegliere la nostra storia e iniziare a scrivere, dovremo chiederci con sincerità:
questa storia mi interessa davvero? Fino a che punto mi coinvolge?
Ovvero, si riverbera in qualche modo misterioso sul mio vissuto, aldilà del fatto che me ne renda lucidamente conto o meno? E qui incalza un'altra domanda: come faccio a saperlo?
È semplice: quando una storia, un evento, un personaggio, una semplice annotazione, persino il titolo di un libro o di un articolo producono una sorta di leggero sussulto che colpisce il nostro plesso solare, ecco che il gioco è fatto, ne veniamo attirati all'interno e vogliamo indagare, saperne di più. La morte di un bambino può coinvolgerci meno della morte di un cane. Ciò ci fa sentire in colpa? Non importa. Scriviamo la pièce sul cane. In teatro non contano valutazioni morali o etiche, conta ciò che davvero ci tocca, ci coinvolge emotivamente.
La leggenda narra che ogni drammaturgo scrive sempre la stessa storia per quante commedie abbia scritto. Sarà falso o sarà vero? Ambedue le cose, a mio avviso. Dipende dal punto di vista con cui analizzeremo la sua produzione. Se la consideriamo dal punto di vista del semplice lettore o, meglio, spettatore, è falso. Infatti cos'ha a che vedere lo Z io Vanja di A. Cechov con Il Gabbiano sempre di A. Cechov, oppure Sette minuti, consiglio di fabbrica, di S. Massini con la Lehman Trilogy sempre di S. Massini? Nulla, quindi è falso. Ma l'assunto predetto risulterà vero se, da autori di teatro, analizzeremo quei copioni dal punto di vista del cosiddetto 'mito di riferimento' di quell'autore, ovvero del suo tema preferito, o meglio del suo 'problema' con quel tema, indipendentemente dalla storia rappresentata.
In merito al copione possiamo fare un piccolo esperimento. Una 'prova del nove' che non è sempre valida, tuttavia può essere d'aiuto soprattutto quando affronteremo in prima persona la scrittura di una pièce.
Scegliamo una delle commedie classiche meno conosciute e che non abbiamo letto. Cominciamo a leggere le prime due-tre pagine e ci accorgeremo infallibilmente che siamo interessati a continuare la lettura, che vogliamo sapere che cosa succederà ai personaggi. Un esempio per rendere l'idea: tempo fa tirai fuori casualmente dagli scaffali un volumetto con alcune commedie del drammaturgo spagnolo del sedicesimo secolo Lope de Vega, sicura che l'avrei rimesso presto al suo posto. Accadde che fui letteralmente catturata dal ritmo del dialogo di quei testi nonostante che il linguaggio, le storie e i personaggi fossero lontanissimi dai miei gusti oltre che, ovviamente, dai nostri tempi. Ciò significa che, se un copione funziona, funziona sempre e fin dalle prime righe perché l'autore non dimentica mai, anche quando apparentemente divaga, che alla base di ogni commedia c'è l' AZIONE, il qui e ora, e che tutto dev'essere ricondotto a ciò.
Un consiglio: quando avremo scritto il nostro copione, diamolo da leggere a qualche amico sincero e capiremo se funzionerà o meno. In caso affermativo, ciò non significherà che la nostra commedia è di alto livello qualitativo ma che ha comunque le basi per funzionare in scena .
Scrivere per il teatro o scrivere per lo spettacolo?
Fare teatro e fare spettacolo sono attività creative diverse che si praticano su un palcoscenico. Fare spettacolo sottintende la conoscenza della tecnica dell'intrattenimento tout court, attiene a generi diversi come: musical, cabaret, satira, commedia gialla ... tutte creazioni che hanno contenuti e ritmi propri e inconfondibili. Non a caso e non da ora, soprattutto nelle grandi città europee, molte sale ospitano solo quel tipo di spettacolo che spesso rimane in cartellone per anni. Chi scrive per lo spettacolo intende offrire puro divertimento, evasione da una quotidianità spesso opprimente. Noi italiani siamo maestri nel campo; chi non ricorda, anche solo per sentito dire, la famosa rivista d'antan con i suoi artisti, dai mitici Vanda Osiris, Macario, Bramieri, Rascel e lo stesso Totò, il duo televisivo Tognazzi-Vianello, lo stesso e bravissimo Gigi Proietti? Gli autori dei testi in questi casi si chiamavano: Enrico Vaime, Vito Molinari, P. Francesco Pingitore.
Fare teatro, invece, presuppone un intento che possiamo definire universale e senza tempo, indipendentemente dalle forme e modalità utilizzate. In pratica, significa voler semplicemente
raggiungere l’anima dell’uomo (K. Stanislavskij).
Nel senso del tentativo, o meglio dell'aspirazione, pressocché irraggiungibile, di comunicare, o meglio condividere con il pubblico, i dilemmi esistenziali e le esperienze emotive profonde e comuni da sempre a ogni essere umano. Ovvio che la distinzione fra i l fare teatro e il fare spettacolo è soggetta a contaminazioni e non comporta alcun giudizio di merito in quanto entrambe le attività hanno la stessa dignità. Tuttavia, deve esserci e deve risultare chiara e inequivocabile, aldilà del fatto che entrambe queste espressioni artistiche abbiano in comune lo stesso spazio fisico: il palcoscenico. Uno spazio simbolico che va aldilà dell'esistenza del palco e delle poltrone rosse, e che può essere anche uno spazio aperto, un scantinato, una stanza. È un luogo mentale, oltre che fisico, con una sua precisa valenza universale che travalica il merito di quelli che ne calcano le famose tavole. Anche lo spettatore occasionale avverte che qualcosa è successo nel passato, succede e sempre succederà all'interno, indipendentemente dall'aspetto fisico del luogo e da ciò che, quella sera, si aspetta di veder rappresentato. Frasi famose come la magia del palcoscenico, l’atmosfera del teatro, ecc. non sono frasi romantiche e un po’ ridondanti ma sono una realtà che i teatranti amano al punto di dire 'Vorrei morire sul palcoscenico', com'è infatti accaduto a Molière.
Morire no, però ho visto grandissimi attori come Salvo Randone, Eduardo, Marcello Mastroianni che, a pochissimo tempo dalla morte, recitavano magistralmente, con le ultime forze, reggendosi a fatica in piedi o dovendo rimanere seduti, con un filo di voce che però miracolosamente arrivava anche in fondo alla sala. Un'atmosfera in cui anche lo spettatore occasionale avverte un non so che, un’eccitazione che non riguarda solo l’aspettativa