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Solone: L’immagine di Nomos
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E-book172 pagine2 ore

Solone: L’immagine di Nomos

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L’immagine di Nomos, saggio di filosofia. Kratos, Physis, Nomos, osservazioni filosofiche.

Das E-Book Solone wird angeboten von Diogene Multimedia und wurde mit folgenden Begriffen kategorisiert:
osservazioni
LinguaItaliano
Data di uscita24 feb 2016
ISBN9788899126940
Solone: L’immagine di Nomos

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    Anteprima del libro

    Solone - Cintia Faraco

    I

    Kratos

    1. Posizione del problema. La forza e la violenza.

    Il tema dell’imperscrutabilità delle origini del potere è un perfetto esempio di sintesi tra logica e mitologica politica¹: questa sintesi soddisfa l’esigenza di limitare la regressio ad infinitum e il bisogno reale di raccontarsi. Tuttavia, l’origine del potere può essere solo rappresentata: la rappresentazione è infatti l’unica relazione possibile con le origini. Del resto, i meccanismi attraverso cui si può ricavare una rappresentazione sono due: da un lato, c’è la simbolica, nella quale la rappresentazione che ne deriva unisce l’assenza alla presenza, l’invisibile con il visibile; dall’altro, c’è la convenzionalità, la quale prescinde da quel binomio appena citato, ma su cui, comunque, si fonda².

    Maestro del simbolo e della necessità non solo di esprimersi attraverso di esso, ma di dare a questo nuovi significati ed interpretazioni, è Nietzsche. Il grande pensatore pone un problema fondamentale per la corretta comprensione dell’antichità greca, ossia quello della violenza che la pervade completamente, non solo nel suo svolgimento storico, ma anche nelle strutture del suo esistere³. I Greci, gli uomini più umani dell’epoca antica, hanno un tratto di crudeltà (…), che li rende simili a tigri, (…)⁴: così la pensava il grande filosofo; certo, egli esagerava, eppure si può trovare un fondo di verità nel suo modo di vedere.

    Infatti, nei confronti della guerra e delle sue violenze, anzi, della guerra come maestra di violenze, lo spirito greco non trovò mai motivo di turbamento, anche se, ben presto, giunse a subordinare nella gerarchia degli dèi Ares, dio insaziabile della guerra, ad Atena, divinità guerriera anch’essa, certo, ma soprattutto dea della sublimazione del logos.

    La guerra era una presenza naturale e necessaria, che non costituiva semplicemente nella vita sociale un settore a parte, ma che si confondeva con la vita comune del gruppo, come si esprimeva nelle strutture dello Stato. Però è indicativo il fatto che la pace (eirene) sia associata, in endiadi, alla ricchezza materiale⁵ (ploutos) e che quest’associazione sia costante.

    I Greci arrivarono a celebrare le virtù della contesa, di Eris, che in Omero è sorella di Ares ma che in Eraclito è invece identificata con Dike. La contesa così fu lodata come promotrice di esperienze spirituali positive, ossia come colei che, attraverso gelosia, astio e invidia, spingeva all’azione, anzi, per essere più precisi, che dell’azione era promotrice. Questo modo di sentire trova un’interessante conferma nel fatto che neanche il matrimonio aveva una valenza di radicale alleanza e pacificazione, così come invece è nella cultura latino-romana e non solo.

    Però, per quanto le divinità mitologiche fossero violente, esse apparivano, per i Greci, tutte riunite e riconciliate sotto la preminente sovranità di Zeus, così come l’ordine nell’Universo fisico riposa sull’equilibrio fra potenze opposte, o allo stesso modo in cui la pace nelle città deriva da un accordo fra i gruppi, quindi dall’armonia degli opposti⁶. Ma la riflessione filosofica trascende e dà luogo a due conseguenze: da un lato, tutto il politeismo è ricondotto nell’unità del logos, dall’altro il problema, quando assume connotati di pura violenza, è rimosso, ma tale operazione provoca il suo ripresentarsi in uno strato più profondo della coscienza, così come Freud mette bene in evidenza⁷.

    Lo stesso termine bia ha generato non pochi problemi. Per i Greci, bia era la forza in sé, al di là di qualsiasi altra qualificazione etico-sociale, anche se già nei testi omerici c’è una notevole serie di termini che possono essere tradotti genericamente con forza. Così bia potrebbe piuttosto significare l’uso della forza⁸: celebri, a tal proposito, sono proprio i frammenti in cui Solone riconosce, a suo merito, il fatto di aver saputo coniugare bia con dike, senza usare la bia dei tiranni.

    Il termine bia, che tradizionalmente è tradotto in italiano con ‘violenza’, compare effettivamente in questa accezione anche in alcuni testi originali⁹, dove, però, si sottolinea il collegamento con hybris. Di qui il problema di stabilire quale dei due termini possa fare a meno dell’altro e quindi quale in un certo senso risulti essere primigenio.

    Per hybris invece non è possibile parlare di ambiguità, perché il concetto della tracotanza è sempre stato caricato di una valenza negativa, anche se non ha un’accezione monolitica. Ha infatti, accanto ad un elemento oggettivo che allude ad un comportamento guidato da bia, un dato soggettivo che esprime uno spirito di sopraffazione verso l’altro, un orgoglio tracotante verso gli dèi che non necessariamente deve tradursi in un comportamento violento, per apparire riprovevole. Un esempio invece di hybris associata alla violenza piena, ce lo fornisce Aiace.

    Di conseguenza, l’ostilità di principio che i Greci provarono nei confronti di hybris, non l’ebbero invece nei riguardi di bia; nonostante le due parole fossero legate da un’endiadi assolutamente plastica, la seconda perde ogni identità nell’ottica della prima, divenendo conseguenza materiale di un atteggiamento spirituale, che è quello che va combattuto e rimosso¹⁰.

    Nel diritto attico, si può vedere con chiarezza che i delitti, riconducibili all’ambito generico della violenza contro le persone, potevano essere perseguiti in modi diversi: questo anche perché l’elemento soggettivo del reato non veniva ad emergere in alcun modo; in pratica, i casi in cui era possibile ammettere il ricorso all’azione di hybris erano numerosi e articolati¹¹.

    Anche lo stesso Aristotele si sofferma ampiamente sulle cause, sui mezzi e sui risultati delle rivoluzioni e, a questo proposito, tra le cause di queste, pone la hybris del potere, mentre tra i mezzi pone la bia; è naturale che la prima sia generatrice di ingiustizia e che, a prescindere dall’aspetto concreto che può assumere di volta in volta, generi anche l’odio; al contrario, la seconda viene presentata con una certa freddezza, come uno strumento adoperato, a seconda dei casi, per combattere e vincere il sistema opposto.

    2. Bia e Kratos.

    L’antitesi tra violenza e giustizia è netta e va letta in stretta connessione con quella, ancora più celebre, tra dike e hybris. È a Zeus stesso che si oppone l’uomo violento e allora diventa chiaro il motivo per cui le azioni violente fossero viste dai Greci come empie, in quanto cioè erano rivolte contro la divinità; allo stesso modo, reciprocamente, ogni azione rivolta contro la divinità e i suoi voleri era qualificata come violenta; solo così bia e hybris assumono la stessa accezione¹².

    Tuttavia, per quanto la bia sia odiosa per il senso comune greco, lo stesso motivo di riprovazione ha costituito il fondamento di una sua possibile giustificazione: così appare il principio della tisis, nel cui termine vengono ricondotte più dimensioni, collegate tutte comunque alla vendetta¹³.

    Paradigma fondamentale della violenza legittima è evidentemente quello dell’omicidio per vendetta; un esempio lampante è il caso di Teseo, il quale fece subire le stesse violenze a coloro che avevano commesso azioni malvage. In tal maniera, bia veniva inserita nella logica della giustizia, intesa in senso strettamente retributivo¹⁴, un vero e proprio contrappasso che veniva a scontarsi nell’Ade e che era ancora più efferato se si trattava di crimini verso i consanguinei.

    La tisis sovrannaturale si realizza in una sanzione positiva, governata, oltre che dal criterio della retribuzione, da quello della più dura intimidazione¹⁵; anche per Solone varrebbe lo stesso discorso, se non fosse che quest’ultimo è più legato a quello che l’uomo può ottenere sulla terra, per cui, in un certo senso, il contrappasso è visto anche nella sua forma terrena di vendetta del divino sul tracotante.

    Se bia ha una valenza positiva, ha anche una connessione col divino, non a caso è sempre accompagnata da altre divinità come ad esempio Peitho, la Persuasione. Con essa spesso forma un’endiadi, pur essendo le due dimensioni confliggenti tra loro; tuttavia, accanto a questa contrapposizione, esiste anche una possibilità di conciliazione, in cui i due aspetti sembrano associarsi, cosicché peitho diventa una forma di bia, anzi, in alcuni casi, più grave di quest’ultima.

    Nella Teogonia, Esiodo si sofferma ampiamente sulla genealogia di Kratos e Bia, per spiegare come queste divinità siano fedeli servitrici di Zeus e non si allontanino mai dal suo trono. Ciò si spiegherebbe col fatto che le divinità olimpiche devono lottare con mezzi smisurati e quindi anche con la violenza contro gli dèi antichi, cioè contro i Titani; ne segue che la divinizzazione di bia è necessariamente connessa alla presa del potere e, di conseguenza, alla suprema divinità di Zeus; non ha assolutamente quindi una sua dimensione autonoma¹⁶.

    Nella Teogonia esiodea tutta la Titanomachia è scontro ed urto di bia contro bia, ovvero di quella dei Titani, che mostravano ciò che poteva la forza delle loro mani, contro quella degli Ecatonchiri, tremendi e gagliardi dèi di straordinaria violenza, e dello stesso Zeus che nel culmine della battaglia rivela tutta la sua superiore violenza, trionfando definitivamente. In quanto vincitore, Zeus concede la sua bia a chi predilige.

    Un’ulteriore conferma di quanto è stato appena detto la si trova nella prima scena del Prometeo incatenato di Eschilo, che mostra Kratos e Bia mentre sorvegliano Efesto, affinché assolva bene al compito di esecutore della volontà di Zeus, incatenando saldamente il Titano alla roccia.

    Ovviamente Kratos e Bia personificano il sommo potere del re degli dèi e il fatto che costituiscano un’endiadi rende evidente la diffusività del potere divino, cioè la sua necessaria diffusione, non in singole manifestazioni, bensì in manifestazioni plurime. Del resto, si può leggere la coppia come la personificazione scenica dei due aspetti opposti e complementari del potere; da un lato, il potere legale, l’autorità fondata sulla logica dell’ordinamento sociale che, per sua natura, richiede la subordinazione ad una norma comune; dall’altro, il potere reale, la forza bruta, la violenza senza la quale l’autorità stessa sarebbe priva del necessario supporto materiale¹⁷.

    Se tale è la violenza, cioè negatività, de-formazione, furore cieco e muto, il giudizio su di essa dovrà essere giudizio sul logos che la guida: giudizio retto, duro e sincero, e soprattutto coraggioso; solo il coraggio di giudicare può sciogliere le ambiguità, può distinguere e discriminare e dire su bia quella parola che essa in sé né possiede né arriverà mai a possedere¹⁸. All’incatenamento di Prometeo presiede Bia, che tace, insieme a Kratos che invece, più che parlare, sproloquia. Quest’ultimo ha la solerzia di chi serve un padrone di nuova nomina e procede quindi velocemente per eliminare le ultime resistenze, per incatenare gli oppositori e, se continuano ad esistere, per precipitarli nel Tartaro¹⁹. È però la presenza di Bia che rende efficace l’azione di Kratos; la prima, come abbiamo già detto, assiste alla scena in silenzio²⁰. È muta, agisce, ma non parla, perché è forza priva di logos, costrizione che non avverte l’esigenza di giustificarsi con argomentazioni di carattere generale. Quasi rappresenta l’antropomorfizzazione dell’atto crudele che Efesto sta compiendo su di un dio che ha il suo stesso sangue, gesto che egli stesso definisce di bia.

    Continua, dunque, a tacere e a guardare: si tratta di un silenzio terribile, impressionante, com’è impressionante la manifestazione della forza di Zeus, che Kratos riassume, a suo modo, nell’affermare che la colpa di Prometeo sta nel non aver compreso che nessuno è libero tranne Zeus. È certamente vero che le parole di Kratos sono quelle di un essere che si identifica con l’insensibile onnipotenza di un ordinamento astratto, retto da leggi nuove volute da Zeus e che sono destinate a non tramontare mai.

    È significativo, allora, che Kratos e Bia non mutino il loro aspetto in benevolo e che non tradiscano la loro natura come invece accade nelle Eumenidi, la tragedia eschilea in cui le Erinni, esaurito il loro compito, mutano la loro essenza per divenire umane ed amichevoli²¹.

    Ma, ancora, questa efferata coppia potrebbe alludere anche all’ambivalenza che è inscritta nella doppia dimensione del potere che si fa o che è violenza²². Tale doppia figura risponde al doppio aspetto dell’atto fatale compiuto da Prometeo, atto giuridicamente illecito, in quanto si tratta di un furto, ma umanamente legittimo in quanto dono per gli uomini; atto, insomma, ambivalente - delitto e beneficio, insieme - e che per questo trova una risposta altrettanto ambivalente in Kratos e Bia.

    Non si dimentichi poi come il mite Efesto attenda malvolentieri al compito che il potente Zeus gli impone; però, pur rammaricandosi molto, deve obbedire all’ordine di incatenare un dio che ha il suo stesso sangue, la sua stessa origine. A lui non importano gli intrighi di palazzo e gli sono completamente estranee le lotte di potere, ma si sente interiormente stretto tra la sofferenza di un’ingiustizia che si compie proprio per il suo tramite e l’impossibilità di opporvisi per l’incombere di un potere interamente sovrano.

    Ben diversa dunque è la funzione di Efesto che, in qualche modo, resta ostaggio della presenza di questi ingombranti sgherri: egli non ha vie d’uscita ed in questo assomiglia a Prometeo, anzi si può dire di più: incatenando il Titano, Efesto finisce per incatenare se stesso, la parte originale di sé, cioè le sue origini, discorso che sarà nuovamente affrontato a proposito della figura di Odisseo.

    Ma si è detto anche che il kratos è forza numinosa, quella forza che indica possessione totale che pervade. La sua forza così piena del resto è ben chiara in Solone²³ quando immagina Zeus nell’intento di agire. Tale azione divina, cioè la punizione, viene raffigurata come una tempesta, i cui effetti distruttivi, pur ricalcando immagini già note allo stesso Esiodo e prima ancora ad Omero, sono controbilanciati dall’attenzione che Solone rivolge agli effetti positivi²⁴.

    3. Dike. Lettura dell’Elegia alle Muse di Solone.

    L’azione punitrice di Zeus rappresenterebbe il ripristino del nomos violato che, nell’Elegia alle Muse, è rappresentato da dike. L’intervento di Zeus quindi si basa sull’ordine naturale delle cose che l’uomo con la sua hybris, con la sua

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