Violenza politica: Visioni e immaginari
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Le parole «visioni» e «immaginario» nel titolo alludono alle diverse prospettive seguite e alle fonti eterogenee utilizzate. Queste ultime non derivano esclusivamente dal campo criminologico – ambito nel quale Vincenzo Ruggiero è tra i maggiori esponenti sul piano internazionale – ma anche da aree quali teoria sociale, scienze politiche, critica del diritto, letteratura e finzione.
Con scrittura agile ed erudita, Vincenzo Ruggiero offre una visione insolita e originale della violenza politica. Attingendo a filosofia, sociologia, criminologia e scienze politiche, la sua analisi spazia su un territorio che tocca la violenza sistemica e istituzionale, i comportamenti delle folle, i tumulti, le sommosse e le rivolte, il terrorismo e la guerra. Nella violenza politica l’autore scorge, ingatti, l’origine di alcuni dei maggiori pericoli che dobbiamo affrontare nel presente, ma anche un potenziale di emancipazione e liberazione.
Vincenzo Ruggiero è professore di sociologia presso la Middlesex University di Londra, e fondatore e codirettore della rivista «Forum on Crime and Society» pubblicata dalle Nazioni unite. Autore di numerosi libri, ha pubblicato in Italia, tra gli altri, Il carcere immateriale (1989); La roba (1992); Economie sporche (1996), Delitti dei deboli e dei potenti (1999), Movimenti nella città (2000), Crimini dell’immaginazione (2005).
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Anteprima del libro
Violenza politica - Vincenzo Ruggiero
immaginari
1. Introduzione
La violenza è al centro delle elaborazioni teoriche relative all’identità, alla formazione della legge e dell’autorità. I soggetti prendono forma attraverso la violenza e le norme che li guidano sono a loro volta, e per definizione, violente: ci vengono assegnati un genere e uno status contro la nostra volontà (Butler 2009).
Diverse analisi dello Stato sono anch’esse focalizzate sulla violenza, descrivendo la forza creativa che stabilisce legislazioni, crea sistemi e designa apparati di potere. L’uso diretto della forza viene ritenuto essenziale nel processo di formazione degli Stati (Tilly 1985). Si tratta di una forza, tuttavia, che può essere di segno conservatore, quando ad esempio protegge la stabilità di un sistema e ne rafforza i principi dominanti (Derrida 1992a; Benjamin 2010).
L’analisi della violenza, da questa prospettiva, può spiegare come il potere si forma e viene distribuito in una società, e come tale distribuzione può essere alterata. È questo anche lo scopo del presente libro.
L’etologia applicata agli umani suggerisce che il comportamento aggressivo si manifesta negli scontri personali, negli atti di criminalità, nella guerra e in analoghe attitudini distruttive che derivano da istinti innati (Lorenz 1966). Tali istinti troverebbero espressione quando insorgono circostanze appropriate. Lo studio sociale del comportamento, al contrario, mostra poco interesse per le forze innate che muovono le condotte, ma piuttosto per i condizionamenti che le generano. Non siamo obbligati a scegliere tra le due prospettive, anche perché entrambe non sono in grado di spiegare, allo stesso tempo, la violenza domestica, quella poliziesca, la pulizia etnica, la tortura e la guerra. Né possiamo aspirare a una teoria generale che ci consenta di distinguere tra violenza «cattiva», esercitata da attori criminalizzati, e violenza «buona», normalmente praticata da attori statali autorizzati. L’idea che non esistano individui violenti, ma soltanto contesti violenti, è ispirata dal tentativo di formulare una simile teoria generale.
Paura, eccitazione e rabbia si intrecciano nelle emozioni umane che fanno da sfondo alle interpretazioni micro-situazionali della violenza. Le guerre, ma anche gli episodi di violenza poliziesca, seguirebbero traiettorie analoghe, in quanto consentono di portare a fruizione e di esaurire la rabbia accumulata in situazioni di antagonismo (Collins 2014). La violenza delle folle, a sua volta, presenterebbe tratti tipici di quella militare, poiché prende avvio con gesti e posture ostili, per poi raggiungere il punto di rottura quando la situazione è satura di emotività collettiva che si traduce in scontro aperto. La violenza, insomma, viene interpretata come attributo di un campo, un contesto, non come una proprietà di un individuo o di un gruppo. I fattori estranei al contesto possono predisporre all’ostilità, ma secondo questa prospettiva, non sono sufficienti a spiegarla: «i contesti sociali, quali povertà e razza, o le esperienze dell’infanzia, non sono assolutamente in grado di spiegare cosa è realmente cruciale nelle dinamiche di una situazione violenta» (ivi, p. 20).
Questa teoria micro-situazionale incontra delle difficoltà quando si esamina la violenza collettiva che prende forma di resistenza popolare. Coloro che vi sono coinvolti possono anche essere un pugno di specialisti della violenza che traggono energia dal sostegno di spettatori o di loro pari. Quell’energia, però, non è soltanto situazionale. Deriva da una cultura, un repertorio di azione, una visione del mondo, una memoria storica e, in termini generali, da un apprezzamento ottimistico della soggettività umana. Quello che spinge all’azione non è semplicemente il contesto, ma il senso di «stupore» che si avverte quando una convinzione religiosa o secolare viene tradotta in una pratica collettiva. L’azione chiarisce e mobilita dei principi, e così facendo, svela e formula idee, dipinge immagini e immagina il futuro. Lo stupore esperito somiglia a quel timore reverenziale che Aristotele attribuisce a chi osserva il mondo e pone domande per il puro piacere di conoscere. Si tratta di uno stupore che non è soltanto all’origine della filosofia, ma anche dell’impegno politico.
Negli episodi di resistenza si osservano dinamiche che trascendono le situazioni contingenti. Vi si intravede, ad esempio, una sfida rivolta alla nozione di metapolitica, vale a dire l’uso della metafisica nelle scienze politiche, ma anche una risposta all’idea secondo cui, una volta che il potere venga assegnato a un sovrano, ai cittadini ordinari non rimane che abbandonare definitivamente l’arena politica. La resistenza può assumere contorni disordinati, ma risponde a situazioni opprimenti che fanno dell’ordine l’unica cosa che rimane dopo che tutto il resto è stato proibito (Esposito 2018).
Da un punto di vista storico e macro-sociologico, la violenza è stata anche definita come forza livellatrice, come unico strumento che possa ridurre le ineguaglianze (Scheidel 2015). Ad esempio, le due guerre mondiali hanno causato la distruzione di ricchezze enormi, ma, si suggerisce, hanno anche generato maggiore eguaglianza. I periodi post-bellici, al contrario, hanno restaurato le distanze tra gli avvantaggiati e i bisognosi (Scott 2017). Il livellamento, insomma, viene abbinato allo shock temporaneo provocato da turbolenze che annullano le iniquità prodotte dallo sviluppo economico. Queste turbolenze hanno un’anima comune, essendo tutte caratterizzate da azioni che infrangono l’ordine costituito, e possono presentarsi come sommovimenti radicali, crisi istituzionali o anche come pandemie.
La violenza che concerne il presente volume non può essere assimilata a una pandemia, a meno che quest’ultima non venga riferita al diffondersi di idee e speranza, non allo spargersi di un virus. Si tratta di una violenza che si qualifica attraverso la scelta di obiettivi e che possiede contenuti comunicativi. Idealmente, l’azione politica dovrebbe coinvolgere soggetti dotati di consapevolezza e capaci di riconoscimento reciproco. Dovrebbe condurre, come a volte fa, a un accordo condiviso attraverso la comunicazione. Tuttavia, talvolta assume forme violente e viene esercitata da una varietà di soggetti, sia quelli che amano la propria condizione sociale e intendono conservarla, sia quelli che la detestano e intendono migliorarla. La violenza politica è a volte nascosta e altre volte manifesta e sconvolgente, è situazionale solo nel senso che assume forme e modalità diverse secondo il contesto nel quale emerge.
Secondo la formulazione di Max Weber (2005), l’azione violenta è politicamente orientata quando, dotandosi di forza organizzativa, mira a modificare l’appropriazione, l’esproprio e la distribuzione del potere e delle risorse. Chiaramente, questa formulazione si riferisce a gruppi sociali che difendono quello che hanno, ma anche a gruppi che aspirano a quello che non hanno. Weber, in breve, include tra i promotori di violenza politica gli attori potenti e gli Stati sovrani. Secondo alcune formulazioni contemporanee, al contrario, la violenza politica viene interpretata semplicemente come violenza che sfugge al controllo statale (O’Neil 2017). L’analisi, in questo caso, adotta tre narrazioni esplicative: istituzionale, ideologica e individuale. La prima si sofferma sulle costrizioni, le norme e le condizioni generali di vita imposte a certi gruppi sociali, i quali sentono la necessità di reagire. La seconda vede nell’azione violenta il rifiuto delle istituzioni ispirato da convinzioni politiche o religiose. Infine, la narrazione di carattere individuale va alla ricerca del «germe» della violenza nella costituzione socio-psicologica di chi la pratica. Gli Stati, insomma, possono creare i contesti nei quali la violenza erompe, ma sono esclusi dal novero degli attori che la esercitano.
Questo libro, al contrario, individua una gamma di soggetti violenti, offre una tipologia delle diverse forme di violenza che vengono adottate, collegandole in un continuum e in un campo di forze interdipendenti. Le forme identificate sono: violenza sistemica, violenza istituzionale, violenza di gruppo, lotta armata, terrorismo e guerra. La parola «visioni» nel titolo di questo volume allude alle diverse prospettive seguite e alle fonti eterogenee utilizzate. Queste ultime non derivano esclusivamente dal campo criminologico, ma anche da aree di sapere quali la teoria sociale, le scienze politiche, la critica del diritto e la letteratura di finzione. La finzione narrativa si intreccia al testo e lo sostiene, e in alcuni capitoli è l’analisi teorica a sostenere la narrazione. La letteratura può temporaneamente mitigare le nostre insoddisfazioni e, come un intervallo miracoloso, immergerci nell’illusione fantastica, offrendoci una temporanea tregua dalla realtà. Può trasformarci in cittadini di un mondo senza tempo, facendoci diventare «altri». Secondo Vargas Llosa (2001), quando chiudiamo un libro, abbandonando i territori splendidi che abbiamo visitato, rimaniamo delusi in quanto la finzione supera la vita e la letteratura ci rende consapevoli dello stato di servitù nel quale viviamo. In questo senso, la finzione è spesso sediziosa, non soggiogata, ribelle, una sfida contro l’esistente.
Secondo altre classificazioni, la violenza politica si manifesta, tra l’altro, come dominio, emarginazione e degrado, e viene definita da Balibar (2015) come ultraoggettiva e da Tilly (2003) come violenza nonviolenta. Bisogna pensare, a questo proposito, alle popolazioni, i gruppi e gli individui trattati come residui umani, corpi inutili, non in virtù di scelte espressamente violente da parte delle autorità, ma grazie alle regole che governano la distribuzione di potere e ricchezza. Nel Capitolo 2, a questo tipo di violenza viene dato il nome di sistemica, in quanto connessa al sistema sociale, economico e politico che la perpetua. La violenza sistemica riproduce le ineguaglianze, l’immobilità, l’ingiustizia e il degrado come conseguenza diretta del funzionamento ordinario, di routine, della convivenza e del suo regolare ordinamento. Non è quindi il risultato di crudeltà programmata, nonostante provochi conseguenze crudeli. La violenza sistemica è racchiusa nella nozione secondo cui la sovranità risiede nel potere di decidere chi può vivere e chi deve morire (Mbembe 2003).
Il Capitolo 3 procede con l’analisi della violenza istituzionale, la quale al contrario incorpora elementi spiccatamente soggettivi. Nelle sue forme estreme, questo tipo di violenza politica predica l’eliminazione di gruppi di persone ritenute pericolose o infettive per una comunità nazionale, etnica o religiosa. La violenza istituzionale può anche prendere di mira i nemici interni che contestano la distribuzione iniqua delle risorse. È per questo motivo che l’analisi di questo tipo di violenza sembra trovare giovamento da nozioni di economia come concorrenza, lavoro, capitale e, in generale, accesso al benessere (Gilpin 2015). Tra i concetti e le variabili utilizzate vi sono scarsità, costi, benefici e scelta razionale (Anderton e Brauer 2016). Anche le atrocità di massa vengono analizzate da un punto di vista razionale e strategico, il che le renderebbe prevenibili con l’uso di incentivi macroeconomici.
Nel Capitolo 3 di questo libro, invece, per violenza istituzionale si intende quella serie di violazioni perpetrate da rappresentanti dall’élite che infrangono le loro stesse regole e rigettano le filosofie che ufficialmente professano. La teoria della scelta razionale non figura tra i diagrammi interpretativi di questo tipo di violenza, in quanto le decisioni di chi la pratica verranno dedotte da condizioni psico-sociologiche e non da calcoli di costi e benefici (Baddeley 2017). I potenti che commettono reati esprimono una forma di razionalità vincolata che è pratica, ma anche limitata e selettiva, a volte conservativa, quando anziché perseguire nuove fonti di potere cerca di mantenere quelle già possedute. I potenti commettono errori, non valutano con attenzione i rischi, sono afflitti da insufficienze cognitive, posseggono informazioni limitate, cedono alle emozioni. Spesso si preoccupano più delle possibili perdite che dei guadagni potenziali. I temi affrontati in questo capitolo includono il lavoro, il consenso, la coercizione e la legittimità, ma anche la violenza politica implicita nelle «missioni democratiche». La visione del Marchese de Sade ispirerà un commento conclusivo per designare la violenza istituzionale, con il suggerimento che la sovranità implica la capacità di violare ogni proibizione.
Sia la violenza sistemica che quella istituzionale incoraggiano risposte conflittuali, pubbliche e collettive, che esprimono rancore e sollevano richieste nel tentativo di produrre cambiamento (Tilly 2003). A dar vita a queste risposte collettive è il sorgere di specifici «insiemi sociali». Si pensi ai tre tipi di ensemble identificati da Sartre (2004): serie, gruppi e organizzazioni. Le serie sono raggruppamenti inerti formati da individui isolati e intercambiabili, come un gruppo in attesa alla fermata di un pullman: tutti condividono le ragioni dell’attesa, ma ognuno rimane indifferente all’esistenza degli altri. Sartre chiarisce la sua definizione di serie con esempi di attività collettiva quali lavorare a una catena di montaggio oppure ascoltare la radio: «in ognuno di questi casi l’oggetto produce una unità indifferenziata, una unità di separazione» (Badiou 2010, p. 33). Le serie, in breve, sono caratterizzate da inerzia e impotenza. I gruppi reagiscono all’inerzia e all’impotenza quando tra chi li compone comincia a intravedersi un interesse comune: l’attesa del pullman sta per diventare intollerabile. Il gruppo, in altre parole, immagina un proposito collettivo e si prepara a trasformarsi in una coalizione pronta ad agire. Le organizzazioni, infine, sono entità profondamente politicizzate tenute coese da un impegno apertamente dichiarato, simile a un giuramento di fedeltà. È l’impegno che evita la dispersione dei partecipanti e incoraggia ognuno ad agire mantenendo una sensibilità unitaria con gli altri.
Il Capitolo 4 si occupa di folle, quei raggruppamenti sociali animati dal risentimento che può sfociare in violenza. Spesso disorganizzata, la forma di azione politica adottata dalle folle (o i gruppi, nella terminologia di Sartre) può dar vita a una strategia di attacco intesa a modificare il sistema e le sue regole. Questa strategia può accompagnarsi a processi di radicalizzazione, anche se non sempre si manifesta in azione violenta immediata. Questo capitolo viaggia attraverso i contributi di analisi che vedono nella folla una massa mediocre e stupida. Analizza però anche i punti di vista che le attribuiscono profonda onestà e autocontrollo, che ne mettono in risalto la spontaneità, la tendenza al saccheggio, o persino l’attitudine all’aggressione «benevola». Il capitolo si conclude con alcune riflessioni sui movimenti sociali e il loro rapporto con la folla e la moltitudine.
Il Capitolo 5 racconta la storia di una cospirazione che rimane nei limiti della fantasia. Suggerisce che i processi di radicalizzazione non portano necessariamente all’azione violenta, ma spesso concepiscono dei sentimenti di vendetta e delle semplici ideazioni aggressive. Il romanzo di cui si discute vede una cellula rivoluzionaria fantasticare intorno a un progetto di azione politica illegale. Conflitto, suicidio, nichilismo e tradimento sono tra i topos che emergono e che verranno analizzati da un punto di vista criminologico. L’analisi si riferisce principalmente agli aspetti culturali della criminalità, alla sua forza seduttiva, elettrizzante. Questo approccio, come si vedrà, può illuminare alcuni aspetti della cosiddetta «desistenza dal crimine», ovvero prevenzione della recidiva.
Le organizzazioni (secondo la classificazione sartriana) sono l’oggetto di interesse del Capitolo 6, dove si assiste al passaggio dall’immaginazione omicida alla lotta armata e alla guerra civile. Il giuramento di fedeltà segnalato da Sartre serve, nelle organizzazioni osservate in questo capitolo, non solo a garantire la continuità dell’impegno dei suoi costituenti, ma anche quella dell’eliminazione degli avversari. Un punto di partenza promettente, a questo proposito, è il lavoro di Schmitt, in particolare le sue osservazioni intorno ai combattenti irregolari, la loro mobilità e il loro carattere tellurico. Il capitolo illustra poi come le organizzazioni armate tentano di collegarsi con gruppi di dissidenti che adottano le strategie della nonviolenza. Alcuni aspetti emotivi di questa ricerca di alleanza e complicità emergono dalle lotte dell’African National Congress (Anc), un gruppo che costituisce il principale studio di caso di questo capitolo. La lotta armata, fallimentare o meno, conduce in determinate circostanze alla guerra civile aperta. Qui si tracciano le origini di questa forma particolare di violenza politica, partendo dalla distinzione netta operata nell’antica Grecia tra conflitti contro nemici esterni e conflitti tra città o all’interno di queste. La storia dell’antica Roma, a sua volta, offre altri esempi che fanno da premessa per studi contemporanei delle guerre civili. L’orrore e il caos associati a questo tipo di violenza politica vengono riferiti alle idee di Tucidide e al concetto di Foucault di guerra civile come esercizio del potere. Le scissioni e contrapposizioni non negoziabili trasformano spesso la violenza politica in conflitto privato: confusione, animosità intollerante e vendetta presiedono un processo di privatizzazione dell’omicidio. La «visione letteraria» che accompagna questo capitolo si riferisce alla Rivoluzione messicana, consistente, secondo l’autore che ne presenta una versione romanzata, in un intreccio di ignoranza e orribile soqquadro che solo dopo, a ostilità concluse, verrà designato dalla storia come Rivoluzione.
Dopo aver proposto che cosa si debba intendere per terrorismo, il Capitolo 7 analizza la violenza indiscriminata e il martirio, cercando di catturarne le cause e la logica. Vengono notati i limiti di interpretazioni basate sulla marginalità e l’esclusione sociale, e si discutono i risultati di studi psicologici e di ricerche focalizzate su aspetti ideologici. Un’altra area di interesse riguarda il reclutamento nelle reti di terrore, che viene collegato alle aggressioni internazionali e alle invasioni illegittime. I giovani emigranti, si argomenterà, possono trovare motivazione nella loro condizione di marginalità e trovare nella radicalizzazione una risposta al loro vuoto esistenziale, ma possono anche essere sospinti verso l’uso della violenza dal risentimento e l’umiliazione sofferte da persone che ritengono loro simili. L’emergere del Califfato ha suscitato dibattiti accesi tra esperti di testi sacri, dibattiti che questo capitolo riassume, proponendo una lettura parallela della radicalizzazione dell’Islam e la crescente radicalizzazione della democrazia che ne è causa. Un’analisi del suicidio completa questo capitolo, che nota i precedenti storici della morte autoinflitta, ne analizza i contorni e vi intravede un rifiuto radicale del potere di vita e morte detenuto dal sovrano.
L’altra forma estrema di distruzione, la guerra, costituisce il tema del Capitolo 8, dove viene delineata la nozione di assassinio caotico che traspare da due romanzieri classici: Stendhal e Tolstoj. Questo capitolo prende le distanze dai contributi tradizionali che abbinano alla pratica bellicosa le variabili tempo, spazio e dimensione. Il trattato di Sun Tzu (2013), ad esempio, valuta queste variabili per stabilire quando e in quali circostanze le battaglie risultano vincenti. Von Clausewitz (2007), a sua volta, argomenta che «le teste eccitabili» non vincono mai le guerre (Lewis Gaddis 2018). Questo capitolo, al contrario, propugna l’idea che le guerre sono lontane dalle grandi prescrizioni strategiche, che le battaglie possono essere vinte da teste assai eccitabili come gli antieroi di Stendhal e dai combattenti disorientati che ignorano quello che fanno e perché. L’illusione e l’inganno hanno importanza cruciale, entrambe provocano oceani di barbarie. Tolstoj dipinge i suoi belligeranti come soggetti privi di progettualità e raziocinio, individui che nutrono poco rispetto per i superiori. La storia, a suo modo di vedere, non viene fatta dai grandi conquistatori, ma è l’esito di masse umane, aiutate da catene di circostanze, che perseguono obiettivi comuni. In questo capitolo le visioni di Stendhal e Tolstoj si intrecciano con le argomentazioni proposte dalla criminologia della guerra.
Le guerre hanno sempre colpito alcune persone più brutalmente di altre in quanto confermano, celebrano e radicalizzano le divisioni sociali e quelle di genere. Guerra e violenza sessuale, oggetto del Capitolo 9, vengono esaminate in quanto forme specifiche di criminalità che colpisce le donne, strumenti per la produzione di mascolinità. Lo stupro associato alla guerra viene alla ribalta persino nel Vecchio Testamento, ad esempio nelle ingiunzioni di Mosè, ma lo troviamo anche nella storia della Roma antica. Tra gli esempi forniti in questo capitolo verranno notati gli stupri commessi dai gloriosi alleati anti-nazisti in Germania durante la Seconda guerra mondiale, quelli eseguiti con democratica ostinazione dai soldati americani in Vietnam e quelli che hanno fatto da sfondo ai conflitti nella ex Jugoslavia. Nel capitolo trova spazio anche il femminicidio selettivo condotto con metodo in Ruanda, dove anche le donne, occorre sottolineare, hanno giocato un ruolo nella programmazione degli omicidi di massa. L’analisi poi si concentra sulle donne guerriere, la loro auto-percezione e i loro tentativi, attraverso missioni violente, di raggiungere una improbabile autonomia. Anche gli uomini vengono stuprati, come si vedrà in alcuni esempi riportati dalla Libia. Vi è da chiedersi se violenza sessuale e guerra non siano componenti del patriottismo, quel sentimento da molti ritenuto nobile che si alimenta di eroismo e che connette gli uomini, anche se in maniera ributtante, rafforzandone l’identità nazionale e di gruppo.
Il Capitolo 10 esamina il rapporto tra religione e violenza, affrontando il dilemma se dalla fede in una divinità debbano necessariamente scaturire sentenze di morte. Si comincia dal sacrificio di Ifigenia, l’autodistruzione mitologica compensata dagli Dei con gloria e prosperità. Ogni tradizione, come verrà chiarito, si ispira a un’idea di terrore numinoso, ma le cause della violenza non si esauriscono in una lettura strettamente teologica. La violenza religiosa, tuttavia, è di tipo promozionale, è una rappresentazione che drammatizza lo scontento e, allo stesso tempo, accenna a una strategia percorribile di cambiamento sociale. Il dibattito sulla nostra «era secolare», che ci ha portati dalle società premoderne agli Stati nazionali, può condurre alla convinzione che la violenza religiosa sia ormai inservibile. Si vedrà invece che la violenza di Stato contiene un nucleo religioso, espresso tramite omicidi sacri che sopravvivono e vengono reinventati, trasformandosi in capacità di infliggere morte in maniera pulita, clinica, tecnologica. Dopo una serie di considerazioni riguardanti l’evoluzione del martirio, il capitolo osserva come i «senza fede», gli atei convinti, si tratti di gruppi sociali o Stati nazionali, in realtà aderiscono alle proprie convinzioni in maniera intensamente religiosa.
A questo aspetto si dà prominenza nel Capitolo 11, che esamina le passioni violente suscitate dalle dottrine politiche, particolarmente quelle che legano la possibilità del mutamento sociale in maniera esclusiva all’esercizio della forza collettiva. I movimenti del ventesimo secolo, ad esempio, adottavano una prospettiva escatologica, sebbene in forma secolarizzata, postulando che solo una valanga rigeneratrice di violenza sarebbe stata in grado di porre fine alla violenza occulta e manifesta dei sistemi ingiusti (Balibar 2015). Ma come può, direbbe Hegel, il malanimo rivestirsi in violenza benevola? Come fa la crudeltà a sconfiggere la crudeltà? Questo capitolo interroga Vico, Marx, Engels, Lenin, ma anche Burke e Schiller. Rilegge l’Enrico V di Shakespeare e le poesie di Auden, spostandosi poi su Musil e la sua idea di mutamento sociale determinato da donne e uomini «senza qualità». Come si chiede Amleto, bisogna proprio essere crudeli che essere benevoli?
Il Capitolo 12, che conclude questo volume, mette in risalto i legami che intercorrono tra le diverse manifestazioni di violenza politica esaminate e, ottimisticamente, ne auspica una netta riduzione. Certamente, ridurre ogni tipo di violenza politica richiede il riconoscimento dell’umanità degli altri, la loro vita, i loro sogni e speranze. I soggetti che praticano violenza politica, probabilmente, vedranno come problematico un simile riconoscimento e opteranno per lo scontro. Nel corso della storia, argomenteranno, la forza ha generato emancipazione e libertà, in particolar modo quando l’azione da crudele si è trasformata in civile. Nei nostri tempi turbolenti sarebbe opportuno effettuare una simile trasformazione.
2. Violenza sistemica
La violenza sistemica infligge sofferenza a gruppi sociali specifici e si alimenta dei meccanismi automatici che scandiscono il funzionamento ordinario dei sistemi. Le persone che ne sono vittima non sono in grado di soddisfare i bisogni elementari, sono afflitte da disabilità di varia natura che rendono loro difficile condurre un’esistenza che si dica umana. Questo capitolo esplora come gli assetti economici e politici generano violenza sistemica e come quest’ultima viene presentata come effetto ineluttabile delle interazioni umane e dei processi storici che le sottendono.
Nell’analisi di Johan Galtung (1969), questo tipo di violenza si manifesta come esclusione inflitta a gruppi disprezzati o ignorati e si miscela spesso con sentimenti quali il nazionalismo, il sessismo, l’etnocentrismo, l’antropocentrismo