Cosa indossavi?: Le parole nei processi penali per violenza di genere
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Anteprima del libro
Cosa indossavi? - Iacopo Benevieri
IACOPO BENEVIERI
Cosa indossavi?
Le parole nei processi penali per violenza di genere
prefazione di Maria Cristina Carratù
DIFFERENTIA
tab edizioni
© 2022 Gruppo editoriale Tab s.r.l.
viale Manzoni 24/c
00185 Roma
www.tabedizioni.it
Prima edizione marzo 2022
ISBN 978-88-9295-377-2
eISBN (PDF) 978-88-9295-378-9
eISBN (ePub) 978-88-9295- 607-0
Stampato da The Factory s.r.l.
via Tiburtina 912
00156 Roma
per conto del Gruppo editoriale Tab s.r.l.
È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, senza l’autorizzazione dell’editore. Tutti i diritti sono riservati.
Indice
Prefazione di Maria Cristina Carratù
Capitolo 1
Vis grata puellae. Il mito
della violenza sessuale
Capitolo 2
Il linguaggio come espressione delle gerarchie di potere nella società
Capitolo 3
Linguaggio e processo penale
3.1. La parola nel processo: potere e garanzia
3.2. Asimmetrie
Capitolo 4
Sopravvivere anche
al processo. La rivittimizzazione nel linguaggio
4.1. Rituali di degradazione
4.2. Nome e cognome
: il dominio sulla biografia
4.3. Gli stereotipi di genere nelle domande
Capitolo 5
La questione del consenso nel rapporto sessuale. Quante parole per dire No
Capitolo 6
Il silenzio
Conclusioni
Bibliografia
Prefazione
L’aula di un tribunale dovrebbe essere un luogo di garanzia per eccellenza, ma non sempre è così. E non lo è, molto spesso, nelle dolorose circostanze che portano una donna vittima di violenza a confrontarsi davanti a un giudice non solo con il suo abusatore/violentatore maschio, ma con il linguaggio stesso con cui si svolge questo confronto. È ampiamente noto come alcune delle domande spesso rivolte alle donne durante i processi – per esempio quelle sul tipo di abbigliamento indossato al momento della violenza, quasi si trattasse di un indizio decisivo della loro complicità, se non della loro diretta responsabilità, nell’accaduto – siano tanto insinuanti, e incalzanti, da non apparire neanche più domande, ma affermazioni perentorie, cui la presunta
vittima, incastrata dalla formulazione, si sente suo malgrado costretta ad aderire, con ciò, spesso, condannandosi
da sola. Si tratta di domande attraverso le quali chi partecipa a un dibattimento con un ruolo istituzionale – pubblici ministeri, avvocati, giudici, forze dell’ordine, periti, ecc., che già solo per questo appare a chi ha davanti come controparte dominante – può, se non consapevole di questo rischio, trasformare davvero in strumento di dominio, anziché di emancipazione e garanzia di diritti. Dimostrando così, in quella vicenda linguistica
per antonomasia che è il processo penale, come il controllo del linguaggio costituisca un vero e proprio fattore di sbilanciamento dei rapporti di forza fra i soggetti in campo, in grado di riprodurre e perpetuare anche per questa via gli stereotipi di genere che ancora infestano la nostra cultura.
Perché è vero, come ci spiega con dovizia di particolari l’autore di questo libro, che una lingua rispecchia sempre la società che la parla, in tutti i campi, e tanto più quello delle relazioni fra i sessi, che chiama in causa le modalità stesse di sopravvivenza della specie. Sorta di cartina di tornasole dei meccanismi consci e inconsci che hanno creato e consolidato, per successive stratificazioni, la visione del mondo delle antiche società patriarcali, ma arrivata praticamente intatta fino a noi, e che resiste nonostante gli sconvolgimenti epocali a cui siamo assistendo. Rivoluzione tecnologica e digitale compresa, in grado, anzi, paradossalmente, di riprodurre all’ennesima potenza quegli stessi meccanismi, evidentemente funzionali a una società tuttora regolata, a ben guardare (vedi le dinamiche della finanza e dei poteri economici, nonché dei social), dalla logica della struggle for life – dominatori e vittime, odiatori e odiati, persecutori e perseguitati, (anche) lungo la linea della distinzione di genere.
I trucchi
con cui l’inconscio – personale e collettivo – rema contro l’evoluzione dei rapporti di genere fuori dalla cosmologia
dei nostri avi sono infiniti, e vanno, per restare a quella rappresentazione così esemplare delle relazioni sociali che è l’aula di un moderno tribunale, dal modo con cui, anche inconsapevolmente (ma tanto più colpevolmente) si formulano le domande rivolte alle donne, al ricorso a tecnicismi giuridici e giudiziari fuori dalla portata dei non esperti, agli stratagemmi della retorica, e via dicendo, fino alla definizione, acriticamente condivisa dai media, degli autori dei reati come mostri
, e cioè diversi
(immigrati, pazzi, depressi, ecc.) dal resto della categoria (maschile), come se addossare ogni colpa al singolo anormale
non fosse anche questo un modo per deresponsabilizzare i portatori del pensiero androcentrico, dominato con ostinata continuità dall’ossessione del potere. Trucchi
, in ogni caso, che il linguaggio veicola, ma anche denuncia, rendendoli palesi e intollerabili a chiunque abbia davvero a cuore, anziché virili
sopraffazioni e abusi di potere, diritti e garanzie, e sollecitandoci (tutti) a una pacifica, ma rivoluzionaria, mobilitazione linguistica.
Maria Cristina Carratù
giornalista
Capitolo 1
Vis grata puellae
Il mito
della violenza sessuale
Marianne: «Trovi che io sia così difficile?».
Johan: «Solo quando parli».
Marianne: «Va bene, non farò più una parola».
I. Bergman, Scene da un matrimonio, 1973
Nel romanzo epistolare Les Liaisons dangereuses la protagonista Cécile Volanges scrive alla marchesa di Merteuil per raccontarle di esser stata sedotta, la notte precedente, dal visconte di Valmont: «La cosa di cui mi rimprovero massimamente, e della quale devo parlarvi, è che temo di non essermi difesa come avrei potuto»¹.
Cécile viene travolta dunque da quella primitiva colpa che, secondo concordi fonti statistiche, ha attraversato l’animo delle donne in ogni epoca storica e ha costituito e costituisce tuttora il più segreto fondale che residua nell’animo delle vittime di violenze sessuali: sentirsi responsabili, reali autrici dell’accaduto per il fatto di essersi messe nelle condizioni di subirlo, di aver quasi risvegliato un destino che era sopito².
Questi dolorosi sentimenti rivelati da Cécile alla marchesa di Merteuil sono quelli che ancora oggi inducono molte donne a non denunciare la violenza sessuale. Nel 2014 l’Istat ha rilevato come la vergogna, l’umiliazione, il convincimento di apparire in torto
, il timore di non esser credute abbiano costituito alcune delle principali ragioni dell’omessa denuncia all’autorità giudiziaria³, dato confermato da decenni di rilevazioni statistiche in molti altri paesi del mondo⁴.
D’altronde è proprio a causa di questo sentimento di colpa che Lucrezia, abusata dal figlio di Tarquinio il Superbo, decise di togliersi la vita. Le suppliche del marito e dei familiari non bastarono a distoglierla dal tragico gesto:
Consolano l’infelice allontanando la colpa da lei, che era stata costretta, per ricondurla al responsabile del delitto: è la mente che pecca, non il corpo e la colpa non riguarda colui al quale sia mancata l’intenzione.⁵
Non apparirà azzardato allora cercare di osservare fino a quale profondità carsica nella società sprofondino le radici di questo sentimento di vergogna. Ignominia subita sì, ma tale da mutare addirittura il dolore per l’atto subito in colpa per l’atto compiuto. Per Cécile e Lucrezia aver subito la violenza ha significato sottostare, rassegnate, a una conseguenza che loro stesse ritengono di aver provocato. Subire
uno stupro presenta un significante passivo ma conserva anche un profondo significato attivo. È un verbo socialmente deponente. Oggi come allora e come sempre, nel subire
la violenza si scorge la semantica dell’imprudente azione compiuta dalla vittima, piuttosto che quella del torto ricevuto.
Non denunciare per profondo convincimento di esser responsabili del fatto subito ci racconta come la vittima sia sopraffatta ben prima della consumazione dello stupro: la sopraffazione esiste nelle strutture sociali, esiste nei più antichi miti, nei più lontani trascendenti inconsci di una società.
D’altronde l’uomo contemporaneo osserva ancora la realtà con occhi mitologici⁶. In questa prospettiva, dunque, la percezione e la valutazione della realtà spesso riflettono gerarchie di valori e strutture psichiche diffuse nella società, riecheggiano la voce di archetipi collettivi la cui origine è spesso rappresentata attraverso il mito. Il mito costituisce uno dei primi codici narrativi attraverso i quali l’uomo racconta sé stesso, è l’antico specchio d’acqua attraverso il quale una società si osserva. Nell’ambito di tali rappresentazioni il tema della violenza sessuale, senza dubbio per il fatto di originarsi sul più complesso terreno dei corpi e della sessualità, è stato codificato fin dall’antichità in modi in cui le figure dell’autore e della vittima e le loro dinamiche relazionali hanno costituito modelli che son giunti sino a noi. Le principali narrazioni mitologiche dimostrano come l’attuale percezione sociale di questo fenomeno sia stata già descritta e narrata nelle fiabe, nei miti, nelle favole.
Discendono così credenze sullo stupro rigide e culturalmente prescritte, che narrano la colpevolizzazione della vittima e una pacata indulgenza verso l’autore, rafforzando la rappresentazione della donna (e inducendo la donna stessa a percepire sé stessa) unicamente attraverso categorie prevalentemente maschili⁷.
Il consenso della donna all’atto sessuale viene rappresentato come un impedimento da superare, come variabile ostile da controllare con ogni mezzo: da rocambolesche simulazioni e inganni per carpire la sillaba consenziente, a travestimenti e mutazioni della propria identità, finanche a rapimenti e all’impiego di filtri d’amore e pozioni magiche che conducono la donna in uno stato di transitoria incoscienza⁸.
Cutrettola, volatile sacro ad Afrodite, fu da costei donato agli uomini proprio perché potessero preparare i filtri d’amore. Pindaro ne parla come di un «uccello del delirio», un animale capace di provocare nella donna uno stato di alterazione