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Il vizio dello stupro. L'uso politico della violenza sulle donne
Il vizio dello stupro. L'uso politico della violenza sulle donne
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E-book848 pagine4 ore

Il vizio dello stupro. L'uso politico della violenza sulle donne

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Info su questo ebook

Un saggio che affronta l’infinito sgranarsi dei dolori delle donne, da sempre relegate in un soffocante spazio simbolico: un simbolico che ha permesso un terribile reale. Se già in tempo di pace la considerazione della donna come essere umano autonomo, indipendente e uguale al maschio fa fatica a emergere e realizzarsi, figuriamoci in tempo di contese politiche. Partendo da una disamina su quali e cosa sono in generale le prepotenze sulle donne, l’autore ricerca i significati di queste violenze in politica. È un lavoro, quindi, che porta fuori dall’ombra i tormenti di chi la luce è stata tolta, per rischiararli e ricostruire spiegazioni che fanno comprendere che non sono “bestialità naturali”, ma brutalità razionali che assolvono funzioni precise: non violenze sessuali, dunque, ma violenze sessualizzate.
Nella storia delle donne ogni volta che si pensa di aver raggiunto il fondo, arriva sempre qualcosa che fa ricredere, comprendendo che il fondo proprio non c’è.
LinguaItaliano
Data di uscita3 ago 2021
ISBN9788832281637
Il vizio dello stupro. L'uso politico della violenza sulle donne

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    Anteprima del libro

    Il vizio dello stupro. L'uso politico della violenza sulle donne - Renzo Paternoster

    Renzo Paternoster

    IL VIZIO DELLO STUPRO

    L’uso politico della violenza contro le donne

    Argot edizioni

    Copyright

    Copyright Tralerighe libri

    © Copyright Andrea Giannasi editore

    © Andrea Giannasi editore Lucca 

    Lucca, agosto 2021

    1° edizione

    Tutti i diritti sono riservati. Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633).

    ISBN 978-88-32281-63-7

    I lettori che desiderano informazioni possono visitare il sito

    internet: www.tralerighelibri.com

    dedica

    A tutti i maschi fragili

    che vivono nell’ottusa violenza.

    Prologo. La figura muta della storia

    Gli spazi della nostra vita sono organizzati sulla base di frontiere materiali e simboliche.

    Tali frontiere si basano su una concezione dualistica del mondo, ad esempio corpo e spirito, bene e male, interno ed esterno, simile ed estraneo, amico e nemico, maschio e femmina. Attraverso questi dualismi ciascun elemento si definisce in opposizione a un altro, diventando pericolosamente il mezzo che conferisce identità: noi/loro.

    Queste dualità producono una visione distorta dell’Umanità, negando molto spesso la fiducia a una delle due parti; poiché è sempre uno dei due termini a essere più esclusivo dell’altro, definendo — senza mediazione alcuna — l’orizzonte di senso e le regole che istituiscono ordini gerarchici di prelazione di una parte sull’altra.

    La più classica delle bipartizioni è quella maschio-femmina che, anziché favorire un modello dinamico delle differenze, circoscrive la diversità in uno schema statico, legittimando un ordine sociale che di fatto colonizza, attraverso una relazione di dominazione, una delle due parti, quella femminile¹. In questa maniera, la naturale diversità tra maschi e femmine si converte pericolosamente in artificiali disuguaglianze tra uomini e donne.

    Se la diversità biologica è data dalla natura (maschio e femmina)², la diversità di genere è un prodotto della cultura (uomo e donna). È quindi la natura a definire se siamo maschi o femmine, ma in seguito è la società, con la sua cultura, che attribuisce significato a questa distin­zione³. Di conseguenza, se la diversità e l’equivalenza tra maschi e femmine sono principi di natura, le differenze e le disuguaglianze tra uomo e donna sono concetti costruiti. Queste ultime affondano le radici negli atteggiamenti culturali che hanno determinano il modo di recepire e interpretare il rapporto maschio–femmina e di conseguenza uomo–donna. Dunque è la cultura, distinta dalla natura, a determinare la costruzione delle differenze e delle discriminazioni.

    Le presunte differenze tra uomo e donna non sono un semplice luogo comune, bensì una serie di pregiudizi che sono serviti nella storia a giustificare interi sistemi sociali e politici, impregnati di discriminazioni, prevaricazioni ed esclusioni. Insomma un arbitrio culturale trasformato in qualcosa di naturale che, biologizzando il sociale⁴, ha realizzato un sistema di ruoli basato sulla produzione delle differenze, che di fatto ha legittimato il dominio di un sesso, quello maschile, su un altro, quello femminile.

    Una relazione fondata sull’asimmetria di potere non può che produrre violenza. Così, per tanti secoli, per troppi secoli, la donna, ritenuta incapace di determinare finanche se stessa, è relegata nell’ombra privata delle mura casalinghe sotto la tutela normativa dell’uomo di casa, senza avere storia, perché questa appartiene solo al maschio, custode non solo dell’ordine domestico ma anche di quello sociale. Tale ordine simbolico è talmente radicato, che è stato reputato come una emanazione della natura stessa. Paradossalmente ci sono volute delle leggi per riportare il discorso pian piano alla giusta e naturale equazione donna=uomo. Nel frattempo il simbolico ha permesso il reale. Infatti, questo sistema di dominio degli uomini sulle donne ha permeato di sé, sia a livello simbolico sia materiale, la storia. Se a livello simbolico ha determinato la negazione dell’autonoma soggettività, attraverso intere famiglie di divieti, condizionando la politica, le relazioni pubbliche e private; a livello materiale ha giustificato le molteplici forme di violenza come atti di potenza.

    Sia il livello simbolico sia quello materiale sono il guscio protettivo dell’uomo, divenendo utili al maschio per conseguire la legittimazione del proprio status sociale. «Non appena le donne cominceranno ad essere uguali a noi, subito saranno superiori», affermava Catone il Censore⁵. È stato questo l’ininterrotto timore ancestrale degli uomini nel corso della storia. Per questo il maschio ha scongiurato il proprio indebolimento identitario affermando continuamente l’inferiorità della donna. In questo modo si è accresciuta la figura di uomo, nutrendo il Sé maschile. Come dire, è un’autocelebrazione del maschio che si sente più virilmente uomo in quanto la donna gli è subalterna:

    Per secoli le donne hanno avuto la funzione di specchi dal potere magico e delizioso di riflettere raddoppiata la figura dell’uomo […] perché se queste non fossero inferiori, gli uomini cesserebbero di ingrandirsi.

    Il processo di costruzione dell’identità maschile, dunque, nasce dal presupposto che maschi e femmine siano gerarchicamente ordinati. Tale gerarchia ha segregato per secoli le donne in un recinto identitario che gli stessi uomini hanno costruito, trasformando la logica della naturalità in una artificiosa struttura binaria basata sull’inferiorizza­zione di una delle due parti dell’Umanità, quella femminile appunto, elevando il maschio a misura di tutto. La conseguente oggettivazione della donna ha pericolosamente determinato nel corso della storia la sua strumentalità e la sua violabilità.

    Questo saggio che il lettore ha tra le mani, riprende e amplia un capitolo incluso nel mio volume La politica del male. Il nemico e le categorie politiche della violenza⁷.

    Al centro di questo lavoro non troverete una vera e propria storia delle violenze sessualizzate di una politica criminale, che cerca anche nel corpo della donna la celebrazione del proprio potere. Spiegare da dove nascono comportamenti crudeli che, nella storia, hanno sempre una direzione, è l’intento di questa ricerca. L’ho fatta in un’ottica multidisciplinare per raggiungere il mio intento. Per questo mi preme evidenziare che, per l’intrecciarsi degli argomenti, molti temi sono ripresi più volte nei vari capitoli, per esaminarli sotto più punti di vista e avere un quadro più completo.

    Non è stato facile affrontare realtà sconvolgenti che narrano il dolore antico delle donne, tuttavia ricostruire l’evoluzione di questo infinito sgranarsi di terribili violenze contro le donne, può permettere di comprendere (comprendere, in tutto il suo significato originario: cum-prehendere, prendere con sé, col cuore, con l’intelletto, con entrambi), per allargare un orizzonte mentale limitato, che inquina le relazioni maschio-femmina e donna-uomo. È questo il motivo che mi ha spinto a dedicare questo saggio «A tutti i maschi fragili che vivono nell’ottusa violenza», perché si sentano carnefici, ma allo stesso tempo vittime ignoranti di una cultura ignorante da cui ci si può guarire.

    Capitolo I. La donna nella storia

    1.1. Quando Dio era femmina

    Alle origini dell’Umanità è probabile che le prime comunità umane fossero fondate sull’eguaglianza dei sessi e sulla sostanziale assenza di una precisa gerarchia. Sono quelle che Riane Eisler, riprendendo le analisi dell’archeologa Marija Gimbutas, ha chiamato società gilaniche. Gilania è un neologismo coniato dalla scienziata sociale per indicare questa fase storica plurimillenaria di parità tra i sessi: gi– deriva dal termine greco gynè, donna; an– viene da andros, uomo; la lettera l in inglese rappresenta il linking, l’unione⁸.

    Le società gilaniche sono equilibrate e creative. La produzione artistica conferma il loro carattere pacifico. Infatti, nelle pitture rupestri difficilmente sono ritratte scene che raffigurano crudeltà e violenza⁹.

    Basate sul modello del partenariato, sono presenti sicuramente alcune differenze sociali, ma non radicalizzate e comunque non basate sull’appartenenza a un genere sessuale. Quindi consorzi umani in cui è assente l’idea di dominio e di possesso di un genere sull’altro.

    Furono queste le società della rivoluzione agricola, la transizione da un’economia basata su caccia e raccolta alla coltivazione e all’ad­do­mesticazione di animali. Con l’agricoltura le popolazioni diventano sedentarie e l’organizzazione sociale più complessa, ma tale rivoluzione non comportò la nascita della proprietà, dello schiavismo e della gerarchizzazione della società.

    Il modello della società gilanica è verosimilmente già presente nel Paleolitico superiore e prosegue nel Neolitico, anche se iniziò a prodursi una separazione dei compiti: i maschi andavano a caccia, le femmine lavoravano nei campi e accudivano i figli¹⁰.

    Nelle prime forme di comunicazione concettuale scritta (incisioni e disegni rupestri), è riprodotto uno dei simboli più antichi di cui si ha conoscenza: il triangolo pubico. È un triangolo col vertice rivolto verso il basso, o una V, entrambi originari simboli del pube, della vita, della fertilità. Quest’ultima non deve essere letta soltanto in chiave di riproduzione, e quindi finalizzata unicamente alla gestazione e parto. Fertilità è anche altro, è lo scandire del tempo ciclico, è sequela della vita, è espressione della terra che si rinnova, è simbolo di energia. Questo a dimostrazione che agli albori dell’Umanità è il femminile a incarnare l’archetipo del divino e, quindi, dell’alta considerazione che gli esseri umani preistorici avevano della donna.

    È proprio una potente divinità femminile a essere riprodotta in numerosi reperti archeologici preistorici¹¹. È la Dea Madre, probabilmente la prima divinità primordiale, venerata attraverso figure steatopigie, le cosiddette Veneri dai grossi seni e dai paffuti sederi¹². Si tratta di una potente Creatrice cosmica, dispensatrice della vita, modello di unità di tutte le creature, simbolo del rinnovamento della vita¹³.

    Nelle sue diverse raffigurazioni, la Dea è riprodotta in piccole statue intagliate nella pietra, trovate un po’ ovunque nel Vicino e Medio Oriente, ma anche nell’Eu­ropa preistorica, dai Balcani al lago Baikal in Siberia, da Willendorf in Austria alle Grotte du Pape in Francia sino al bacino del Mediterraneo¹⁴.

    La presenza di un culto rivolto a una Dea Madre deve quindi essere un riflesso della struttura sociale esistente¹⁵. Non società matriarcali, intese come società in cui la donna costituisce il centro, come spiega l’antropologa Peggy Reeves Sanday:

    Il matriarcato non è un sistema di governo della famiglia o della società associato al dominio femminile esclusivo. Il matriarcato è un sistema sociale equilibrato in cui entrambi i sessi giocano ruoli chiave fondati su principi sociali materni.¹⁶

    Dunque, società dove la funzione delle donne è centrale, ma non di dominio rispetto all’uomo, quindi in un’ottica di collaborazione sociale tra i due sessi. La Dea Madre, dunque, diventa l’espressione votiva di queste società gilaniche.

    L’assenza di immagini di violenza, di battaglie, di divinità bellicose, come anche i loro stanziamenti in pianure, senza difese, lasciano intendere che anche queste società furono pacifiche, con un orizzonte culturale e simbolico rivolto all’armonia sia tra i membri dello stesso gruppo sia con quelli di altre tribù¹⁷.

    Nel lento passaggio dalla Preistoria alla Storia si pongono le basi per l’affermarsi di un potere tutto maschile (patriarcato), che eclissa il sacro potere generativo del femminile (Dea Madre), riconducendolo ora a divinità maschili, prima secondarie.

    Così come il patriarca tribale sulla terra ha sottomesso le sue donne, anche gli dèi del cielo hanno assoggettato le loro dèe. È la fine dell’ugua­glianza dei sessi e l’inizio dell’uso strumentale della differenza di genere. La femmina è ora considerata inferiore al maschio e la sua funzione di donna è declassata, diventando «il primo animale domestico dell’uomo»¹⁸.

    1.2. I discriminanti sentieri androcentrici del sacro

    Col passaggio a una visione androcentrica del mondo, i sentieri del mito iniziano a popolarsi di figure femminili perfide o mostruose. Tra queste: Lilith,  il demone femminile della Mesopotamia, portatore di sventura e morte, divenuta nella Cabala ebraica la prima donna e prima moglie di Adamo nell’Eden, poi ripudiata per avergli disobbedito; Ammit, la Divoratrice dell’antico Egitto, colei che annienta i colpevoli; Astarte, dea semitica dell’amore lubrico e crudele divinità guerriera; Circe, Medea, Scilla e Clitemnestra nell’an­tica Grecia, ingannatrice la prima, assassina la seconda, mostro marino la terza e adultera l’ultima; Strige, presso gli antichi Romani, creatura che si nutre di carne e sangue umano, specialmente quelli dei bambini; Hel, infernale dea norrena dell’Aldilà infernale, portatrice di disgrazie e malattie ogni volta che si manifesta tra i viventi; Kali, la terrificante dea hindu.

    La stessa morte, la più grande sventura che possa capitare all’essere umano, nelle rappresentazioni popolari è spesso personificata in una nera signora.

    Anche nella produzione dei testi sacri sono racchiusi tutti i fondamenti della misoginìa. Facendo a gara a chi avrà più irriverenza e disprezzo per la donna, gli estensori raffigurano una visione della donna come origine del peccato, causa della caduta dell’uomo, stru­mento di seduzione malefica, ispiratrice del male. Ella è bramosa di potere e vuole finanche sov­vertire i comandi di Dio: Pandora, ad esempio, la prima donna per la mitologia greca, infrange l’ordine di Zèus e, aprendo il vaso che gli aveva regalato, fa uscire i mali del mondo (malattia, vizio, pazzia, vecchiaia, gelosia), che si abbatterono inesorabilmente sull’Uma­nità¹⁹; oppure Eva, la prima donna della cultura ebraico–cristiana che, inducendo Adamo a disobbedire a Dio, causa la caduta dall’Eden²⁰.

    Queste narrazioni, rendendo la donna colpevole dei mali dell’Uma­nità, hanno così elaborato una teologia gerarchica e asimmetrica, legittimando di fatto un modello di donna fisiologicamente, moralmente e giuridicamente inferiore all’uomo: alla parità spirituale dei due sessi non corrisponde purtroppo un’uguaglianza materiale.

    I testi sacri abbondano pertanto di divieti e di imposizioni imposte alle donne, sempre sottomesse al patronato dell’uomo (padre, fratello, marito).

    L’avvento delle tre grandi religioni monoteiste porta con sé una forte sterzata maschilista e misogina:

    Alla donna disse: Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà. [Sacra Bibbia, Vecchio Testamento, Genesi 3, 16]

    Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore; il marito infatti è capo della moglie, come anche Cristo è capo della Chiesa, lui che è il salvatore del suo corpo. E come la Chiesa sta sottomessa a Cristo, così anche le mogli siano soggette ai loro mariti in tutto. [Sacra Bibbia, Nuovo Testamento, Efesini 5, 22-24]

    Gli uomini sono anteposti alle donne, a causa della preferenza che Allah concede agli uni rispetto alle altre. [Sacro Corano, Sura IV An-Nisâ’ (Le Donne), versetto 34]

    In soccorso alla parte misogina dei testi sacri, vengono anche i santi, i giuristi, i teologi, gli esegeti, i padri delle Chiese. Il fanatismo degli apologeti delle Scritture, poi, completa il quadro²¹.

    I passi della Sacre Scritture delle religioni monoteiste che fanno riferimento alle donne sono numerosi e soggetti a varie interpretazioni storico-giuridiche.

    Di fatto, il legame religione e donna, ricco di ombre e con qualche luce, è tutto determinato da chi si assume il potere di interpretare le Scritture e decidere. Ora, la religione dovrebbe essere l’occasione in cui l’uguaglianza dovrebbe essere predicata come un valore imprescindibile, anziché alimentare discriminazioni. Così la voglia di conoscenza della prima donna, la sua curiosità, il suo spirito di ribellione, la sua capacità di convincere, sono divenuti pretesto in Occidente per squalificare tutto il genere femminile e scongiurare così l’indeboli­mento identitario di quello maschile, diventano il leitmotiv che ha permeato la storia di pura e sana misoginia. Tutto questo è potuto accadere perché nessun testo sacro è stato scritto da donne. Il patriarcato vigente sulla terra, dunque, è stato esteso in cielo.

    Le Scritture raccontano cosa Dio pensa degli uomini (esseri umani), gli uomini (nel senso di genere maschile) interpretano la Parola con cosa loro stessi pensano che Dio abbia detto. Ma Dio è innocente, perché se Egli ha fatto l’uomo (maschio e femmina), a sua immagine, gli uomini (nel senso di genere maschile) hanno fatto un dio a propria immagine e somiglianza, ingabbiando la femmina-donna in un duraturo recinto identitario edificato a immagine maschile. La Parola di questo dio maschio ha prodotto nel corso dei secoli una grande frattura tra il mondo femminile e quello maschile, diventando il collante che ha messo d’accordo la maggior parte dei maschi.

    1.3. La donna nelle società antiche

    Già nelle più remote legislazioni la donna è generalmente dequalificata, salvo rare eccezioni riguardanti per lo più donne appartenenti alle caste più alte, quindi ha uno status e funzioni subordinate in tutti gli ambiti della vita, assumendo il valore di proprietà del maschio (padre, fratello, marito)²².

    Il Codice di Hammurabi (XVIII secolo a.C), una delle più antiche raccolte di leggi scritte, dichiara che la donna, pur avendo notevole indipendenza giuridica, «è proprietà del marito e la figlia nubile è di proprietà del padre» (rigo 129). Presso gli antichi popoli germanici la donna è ostaggio della forza maschile; nella società ebraica antica è giuridicamente inferiore ed è passibile di ripudio; nelle antiche Cina e India è anche vittima di infiniti abusi e violenze.

    Insolita in quel tempo è la condizione della donna presso gli egizi, tanto che lo storico greco Erodoto, scioccato dalla relativa libertà delle donne egiziane, credeva che, nel trattare le loro donne meglio di qualsiasi altra civiltà del mondo antico, gli egizi avessero «invertito le pratiche ordinarie dell’umanit໲³. Infatti, la donna egizia rispetto alle donne di altri popoli, vive in una situazione privilegiata, non esistendo alcuna barriera né di tipo culturale né tanto meno religioso nei diversi livelli societari. Ella, in maggior modo nell’Antico Regno (2650 – 2150 a. C.), ricopre un ruolo societario portante e i giudizi da lei espressi godono di notevole considerazione. La storia d’Egitto, difatti, racconta di numerose donne al potere o attive nelle scelte politiche e militari dei sovrani²⁴.

    Presso gli antichi greci e romani, invece, la donna era generalmente un vero e proprio possesso del maschio di casa (marito o padre), anche se la sua condizione è differente nel tempo e nei luoghi²⁵.

    Nell’antica Grecia lo status sociale della donna è variabile in base ai diversi luoghi e ai diversi tempi della storia ellenica. Se le donne a Delfi, Gortina, Tessaglia, Megara e Sparta hanno gestito di fatto anche l’economia e le proprietà²⁶, nelle altre pólis questo diritto è molto limi­tato e le donne sono parte della proprietà del maschio padrone (padre o marito):

    A una certa libertà nel mondo minoico miceneo tra il III-II mil­lennio a.C. segue, fin dall’età omerica tra il VIII secolo a.C. una gra­duale segregazione in casa della donna, sancita anche dalle leggi, che raggiunge il suo apice nell’Atene del V secolo a.C. [nel] periodo sto­rico chiamato ellenismo dal IV secolo a.C. […] la donna gode di una certa considerazione, aggiunte le nuove idee filosofiche portarono alle donne una vita più libera, riordiamo le numerose epigrafi che ricor­dano donne medico, artiste, benefattrici e atlete.²⁷

    La ripetuta invettiva di letterati e filosofi contro il genere femminile ha influito non molto sulla misoginia degli antichi greci.

    Esiodo (VIII secolo a.C. – VII secolo a.C.) in Teogonia sottolinea come il bel corpo della donna nascondi in realtà un’indole ingannatrice e un animo corrotto. Nella visione esiodea la donna è anche un elemento parassitario, poiché inutile bocca da sfamare in quanto non partecipa al duro lavoro dei campi²⁸.

    Semonide di Amorgo (VII secolo a.C. – VI secolo a.C.) ne Il biasimo delle donne (conosciuto anche come Frammento 7), traccia una tipologia dei difetti attribuiti al sesso femminile, i quali rappresentavano l’archetipo di tutte le donne esistenti. Egli, infatti, afferma che Zèus abbia plasmato le donne basandosi su dieci differenti specie di animali e su due dalla natura: dalla scrofa, la donna sudicia e sciatta; dalla volpe, quella astuta e maliziosa; dalla cagna, quella bisbetica e aggressiva che tutto vuole sentire e sapere; dall’asina, quella testarda ma gran lavoratrice se si usa il bastone; dalla donnola, quella che riduce l’uomo alla nausea; dalla cavalla, quella vanitosa e poco incline ai lavori domestici; dalla scimmia, quella peggiore di tutto il genere femminile senza collo e sedere; dalla gatta, quella sensuale e ladra; dalla terra, quella pigra e apatica; dal mare, quella capricciosa e con instabilità di umore. Unico ritratto positivo è la donna che deriva dall’ape, moglie e madre affettuosa e virtuosa, la migliore che possa capitare ad un uomo, anche se di questa specie gli dèi ne fecero davvero poche²⁹.

    Nelle opere dei grandi tragici del V secolo la donna è ancor più vilipesa. A lei non si attribuisce neppure la capacità di generare la prole. Eschilo (525 a.C. circa – 456-455 a.C) fa dire ad Apollo ne Le Eumenidi:

    Non la madre, non lei produce il suo frutto […] Solo, nutre il gonfio maturo del seme. Lui procrea, che d’impeto prende. Lei come ospite all’ospite: veglia sul giovane boccio, se un dio non lo schianti. Ti offro la prova di questo argomento: padre senza madre è possibile. Una testimonianza è qui vicina, presente: Atena, la figlia di Zèus, che non crebbe nel cavo ombroso di un seno.³⁰

    Per questo, Euripide (485 a.C. – 407-406 a.C.) fa dire ad Ippolito (nell’omonima tragedia) che meglio sarebbe se gli uomini potessero acquistare il seme dei propri figli, senza avere bisogno di portarsi in casa una donna:

    O Zèus, perché dunque hai messo fra gli uomini un ambiguo malanno, portando le donne alla luce del sole? Se proprio volevi seminare la stirpe dei mortali, non dalle donne dovevi produrla: ma che gli uomini comprassero il seme dei figli, depositando in cambio nei tuoi templi oro o ferro o peso di bronzo, ciascuno secondo il valore del prezzo, e viver senza donne in libere case.³¹

    Che la donna incarni l’aspetto più incompleto del genere umano è un topos anche della produzione filosofica greca.

    Per Platone (428-427 a.C. – 348-347 a.C.) la donna rappresenta una degenerazione fisica dell’essere umano, quindi ella è inferiore all’uomo, un’inferiorità tuttavia solo quantitativa che non pregiudica un loro concorso al governo della pólis e in generale ad attività riservate ai soli maschi. Per Aristotele (384-383 a.C. – 322 a.C.) la donna è caratterizzata da una natura incompleta, dunque la condizione di maschi menomati giustifica la sua sottomissione (la donna è materia e passività, l’uomo è forma e attività). Per Pitagora la donna è generata dal principio cattivo che creò il caos e le tenebre³². Nonostante questo la donna, per il suo ruolo finalizzato alla perpetuazione della specie umana, non può essere esclusa completamente dalla società, quindi ad ella è assegnato il ruolo di moglie e madre, con il compito di occuparsi dell’oikos, l’amministrazione della casa³³.

    Nella millenaria storia di Roma la condizione femminile registra inaspettate aperture e brusche chiusure³⁴.

    Da una legge inclusa nelle XII Tavole (451-450 a.C.), una tra le prime codificazioni scritte del diritto romano, si può ricavare la posizione giuridica della donna del tempo: «Feminas, etsi perfectae aetatis sint, in tutela esse, exceptis virginibus Vestalibus» Ossia: «[è stabilito], sebbene siano di età adulta, le donne devono essere sotto tutela, eccettuate le vergini Vestali», che erano sotto la tutela del pontefice massimo³⁵.

    Dunque, nei primi secoli della repubblica il sesso femminile è causa limitatrice sia della capacità giuridica sia della capacità di agire. Non a caso è coniata l’espres­sione latina, ancora oggi usata, imbecillus sexus, sesso debole³⁶. Tale debolezza è infatti dovuta, ritenevano gli antichi romani, a ragioni ascrivibili alla imbecillitas mentis (inferiorità naturale), alla infirmitas sexus (debolezza sessuale) e alla levitatem animi (leggerezza d’animo), che determinano una ignorantia iuris igno­ranza della legge). Tuttavia, rispetto alle ateniesi, le donne romane non erano completamente segregate in casa, ma accompagnavano i mariti nei banchetti e condividevano con loro l’autorità sui figli e sui servi. Sul finire del periodo repubblicano si registra un miglioramento dal punto di vista sociale, anche se giuridicamente le donne restano sotto tutela del maschio di casa. Questa evoluzione è dovuta alla continua assenza del maschio, impegnato nelle incessanti guerre, o al suo decesso in battaglia. Causa forza maggiore, pratiche prima disapprovate sono ora accettate, divenendo prassi comune anche durante l’impero. Maggiori beneficiarie di questo nuovo clima sono le donne di buona famiglia, ammesse anche nelle scuole. Così le donne hanno potuto lasciare traccia di sé sulla scena sociale e, a volte, anche in quella politica³⁷.

    Nello stesso tempo cominciano a circolare le opere di autori del nascente cristianesimo, che riconducono la donna nello spazio della famiglia e della casa.

    1.4. I peccati delle donne medievali

    Nel Medioevo la donna è sempre considerata inferiore all’uomo, anche se questa condizione ha risvolti diversi secondo le diverse aree geografiche e la periodizzazione presa in considerazione³⁸.

    Nell’occidente cristiano, si parte da un’ondata misogina dell’Alto Medioevo, dovuta al monopolio del sapere e della cultura da parte degli uomini della Chiesa di Roma. Basandosi sulle affermazioni della Bibbia e dei primi apologeti cristiani, alla donna si continuano infatti ad attribuire sia improbabili errori di natura — dovuti al fatto di essere un uomo mutilato, fallito e mal riuscito³⁹ — sia colpe imperdonabili — dalla tentazione di Adamo alla disobbedienza verso Dio, dalla morte di Giovanni il Battista alla rovina di Sansone. La donna è dunque inferiore, oggetto di perdizione e pure strumento del diavolo, per questo deve essere temuta e controllata. Tertulliano (150 – 220 ca), apologeta cristiano, è chiaro, la donna è «Diaboli ianua»:

    Tu sei la porta del diavolo, tu sei la profanatrice dell’albero della vita, tu sei stata la prima a

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