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Tre campanellini d'oro
Tre campanellini d'oro
Tre campanellini d'oro
E-book433 pagine6 ore

Tre campanellini d'oro

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Info su questo ebook

Karl e Greta sono due giovani ebrei uniti da un amore profondo. Ben presto vengono risucchiati dal vortice d'odio delle persecuzioni naziste e deportati rispettivamente a Dachau e a Mauthausen. Un piccolo campanellino d'oro è tutto ciò che a Greta rimane di Karl: un oggetto delicato, dolce ma misterioso, che ben presto porterà alla luce dettagli scomodi e pericolosi per la sua stessa vita. Lei è perfetta e la sua bellezza non può passare inosservata. Ne vivrà inevitabilmente le conseguenze, attraverso un percorso straziante ma parallelo a quello di Karl, alla ricerca della salvezza.

“Gli anni della follia nazifascista e del buio della Ragione che sembrò accecare in modo irreversibile il genere umano vanno analizzati e raccontati non come se appartenessero a un’età mitologica e a noi lontana, ma facendo parlare la concretezza del terrore, del dolore, della fatica, della disperazione, dei sogni, anche, e delle speranze vissuti dagli attori, protagonisti incolpevoli, di quei giorni”.
(dalla Prefazione)

Nicola Mazzacane è nato a Bari nel 1979.
Da sempre appassionato di archeologia e storia, in particolare quella medievale e del XX secolo, ha studiato giurisprudenza e ama leggere e scrivere fin da ragazzino. Impiegato nel settore commerciale, è sposato e ha due figli. Tre campanellini d’oro è il suo romanzo d’esordio.
 
LinguaItaliano
Data di uscita16 ott 2018
ISBN9788863584875
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    Anteprima del libro

    Tre campanellini d'oro - Nicola Mazzacane

    Capitolo 1

    Mi fece subito tenerezza, ma non immaginavo cosa sarebbe diventato per me.

    Quando e come tutto ebbe inizio.

    L’aria fredda, densa e pungente di quelle prime ore del mattino poteva essere tagliata senza fatica anche con un coltello poco affilato. In quel giorno di fine novembre del 1939, appena aperta la porta di casa, un tappeto di foglie rosse di acero imbiancate dalla neve creò un effetto straordinario e appagante per gli occhi di Karl. Ogni giorno quell’albero era lì sempre pronto a salutarlo e ad accoglierlo al suo ritorno, ma mai come in quell’occasione gli aveva fatto un regalo così bello, donandogli uno spettacolo nuovo e affascinante. I Kaufmann possedevano un piccolo giardino, curato sapientemente da lui e da suo padre. Tante piante fiorite e una siepe recintavano negli altri periodi dell’anno quel piccolo terreno impeccabile e ordinato, ma l’autunno ingrigiva quasi ogni angolo, ad eccezione di quel tripudio di colore che resisteva al freddo e alla tentazione della morte. Fuggire da Vienna anche solo per poche ore Karl lo considerava una ghiotta occasione per distrarsi e per negare la realtà della capitale austriaca in quell’ultimo mese precedente all’inverno.

    Vienna era una città meravigliosa, romantica e artisticamente unica. Tutti avrebbero voluto viverci, prima della guerra. Ma era anche una città orfana del suo grande fascino. La vita quotidiana non aveva più niente a che vedere con quella di prima, truppe naziste dislocate in ogni angolo, strade e vie cittadine infuocate e insanguinate. Tutto rendeva più difficile e grave la posizione degli ebrei come i Kaufmann, esclusi da diritti politici, garanzie costituzionali e dall’esercizio di mestieri e professioni di vario tipo. Nessuna possibilità di vivere degnamente, vista quella loro assurda colpa: l’appartenenza a una discendenza scomoda, approfittatrice e opportunista con la sua religione, le proprie idee e abitudini. Erano inferiori a quella ariana, tanto acclamata ed elogiata da Adolf Hitler, cancelliere del Reich. Gli ebrei appartenevano non solo a un’etnia inferiore, ma anche a una stirpe nemica da eliminare perché unitasi volontariamente per distruggere soprattutto il popolo tedesco. Dal 1938, inoltre, dopo che un referendum aveva sancito l’anschluss, ovvero l’unione di tutta l’Austria allo stesso Reich, e dopo l’emanazione delle prime leggi antisemitiche, gli ebrei vivevano come degli appestati ai margini della società in gran parte d’Europa e, poco dopo l’inizio della seconda guerra mondiale, le persecuzioni nei loro confronti si erano inasprite ulteriormente.

    Erano costretti a portare la stella giudaica cucita sul petto, in segno di riconoscimento. Nessun contatto con il mondo ariano, nessuno svago o divertimento. Entro le otto di sera le strade pubbliche reclamavano ordine ed esclusiva presenza ariana. Passeggiare anche di giorno equivaleva a farsi umiliare per salvare la propria vita e il proprio onore.

    In quella mattina del 24 novembre Karl doveva recarsi con suo padre, il signor Peter Kaufmann, a Wels, una città situata nella regione nord-occidentale dell’Alta Austria. I motivi del viaggio erano di carattere lavorativo. Per il signor Kaufmann, noto medico ormai prossimo al riposo forzato, spostarsi di città in città era una più che normale consuetudine. Lo faceva con una Citroen Legere del 1934, ma acquistata nel 1937 a basso prezzo, visti i guadagni notevolmente ridotti, e tenuta in perfette condizioni, anche se negli ultimi tempi, stando alle leggi razziali, non poteva più neanche utilizzarla. Si limitava quindi a visitare pazienti residenti nella sua zona, ma non escludeva di assumersi il rischio, per il bene di chi lo chiamava.

    Preferiva portare con sé suo figlio, sperando che un giorno avesse potuto esercitare la sua stessa professione in un futuro con loro più clemente, ma Karl non sembrava manifestare altro che una spenta e silenziosa attrazione per la medicina. Inoltre le università, come tutte le altre scuole, erano state loro categoricamente vietate. Il suo desiderio era quello di diventare un marinaio, abile e forte, ma era ben consapevole che le condizioni sociali difficilmente glielo avrebbero permesso. Contrariamente a ciò che il suo luogo di nascita poteva suggerirgli, amava molto il mare e più volte aveva sognato di trasferirsi in una città marittima e lì formarsi una famiglia. Ma suo padre, quasi inflessibile, interveniva sempre dicendo che per lui sarebbe stato meglio proseguire gli studi, magari in una delle tante scuole per soli ebrei che andavano diffondendosi.

    Da piccolo, quello specchio liquido azzurro e trasparente l’aveva visto parecchie volte viaggiando, e restando incantato dal movimento lento delle onde nonché dal loro tiepido scrosciare, oltre che dagli splendidi giochi di luce del sole ad ogni alba e ad ogni tramonto.

    Concordarono la partenza per le sette del mattino.

    Karl sentiva ancora addosso il calore delle coperte di lana che lo avevano avvolto la notte, ma uscendo di casa sapeva bene che avrebbe percepito l’enorme differenza di temperatura ad ogni colpo di vento. Era stata una notte gelida, paralizzante, come non lo ricordava da tempo. L’acqua ghiacciata lo aveva già reso più sveglio e lucido rispetto a qualche minuto prima, quando era ancora a letto, ma il trauma derivante dall’impatto violento tra quella sostanza glaciale e la sua faccia riuscì a stordirlo non poco. Nelle ore immediatamente precedenti non aveva dormito, pensando a come sarebbe stata quella giornata. Sebbene a lui non interessasse affatto o quasi lo scopo del piccolo viaggio, farlo con suo padre rappresentava ogni volta un modo praticamente certo di imparare qualcosa di nuovo, osservando e migliorando le sue conoscenze. Farlo a quasi vent’anni poteva considerarlo ancora un privilegio più che una costrizione. Suo padre era una fonte inesauribile di esperienza, un concentrato di vita dal quale attingere il più possibile. Non se ne vergognava quando pensava che altri ragazzi della sua età avrebbero riso di lui, perché forse sarebbero stati loro a perdersi qualcosa. E poi chissà, visto che una decisione sicura sul suo futuro non l’aveva ancora presa, magari spostarsi con lui gli avrebbe fatto capire che in fondo quella della medicina poteva essere davvero anche la sua strada, sebbene non sapesse con precisione in quale modo avrebbe potuto seguirla. Pertanto, ogni volta, non vedeva l’ora di partire. Ma quella mattina era stanco e nella sua andatura rallentata e intorpidita mentre raggiungeva la macchina, suo padre notò stanchezza e malavoglia. Il sonno lo imbavagliava a tal punto che non sentiva l’esigenza di pronunciare alcuna parola. L’unica cosa che avrebbe voluto fare, almeno in quei primi attimi, sarebbe stato continuare a fissare il suo acero rosso, fedele amico e custode di casa.

    «Che c’è? Volevi ancora dormire? Guarda che non sei costretto a venire con me. Lo faccio per te, lo sai.»

    «Sì papà, lo so. Ho solo sonno, ma voglio venire, non preoccuparti» disse quasi torturato.

    «Poi non puoi mai sapere cosa ti riserva questa giornata, potresti innamorarti della medicina. E magari studiarla anche, no?» Ancora una frecciata che mirava a tirargli fuori frasi che altrimenti non avrebbe mai detto.

    «Certo… Dai papà, lo sai che non la amo molto. Comunque andiamo.» Karl non voleva e non riusciva invece a sbilanciarsi più di tanto sull’argomento. Suo padre lo guardò come volesse sfidarlo. Era convinto che prima o poi suo figlio sarebbe diventato un bravo medico. Bastava spingerlo, in maniera costante. Non costringerlo, ma invogliarlo. Il suo era uno dei pochi mestieri che potevano assicurargli un certo prestigio in un momento in cui, per loro, niente garantiva rispetto sociale. In campo medico, storicamente, gli ebrei erano affermati e stimati sin dal Medioevo, avendo imparato e messo in pratica tutto ciò che antichi romani e greci avevano lasciato scritto su carta. Eppure anche loro, a partire soprattutto dal 1938, persero parecchio in credibilità. Il padre di Karl, noto e ricercato cardiologo, nonché uomo austero e deciso, era stato contattato la sera precedente da un amico che aveva problemi vascolari. Niente di serio, ma doveva andarci, cercando anche di fare in fretta.

    I due si misero in cammino, come deciso, proprio alle sette.

    Il viaggio era lungo, bisognava spostarsi da est a ovest, stando attenti anche allo stato del manto stradale peggiorato dal tempo non certo clemente che aveva accompagnato quegli ultimi giorni. Durante tutta la notte aveva nevicato e ai lati della strada c’era neve, accuratamente raccolta per non creare problemi a chi, di fretta come loro, avrebbe dovuto attraversare quella via, immersa in uno scenario davvero incantevole. Un bianco candido riempiva i campi vicini. I tronchi degli alberi quasi non si distinguevano e, in fondo, l’orizzonte azzurrino del cielo era diventato terso. Quella che stavano percorrendo era sicuramente la strada giusta e portava a Wels, ma qualcosa spinse il signor Kaufmann ad assicurarsene.

    ‘Adesso mi fermo per chiedere informazioni’ pensò, mentre osservava suo figlio appoggiato al vetro, con uno sguardo quasi assorto e annoiato. Era soprappensiero e guardava oltre il finestrino bagnato lo scorrere della strada con offuscata lucidità. La sua schiena era comodamente adagiata sul sedile rivestito di pelle grigia. Karl osservava il movimento intermittente dei tergicristalli, che, muovendosi da sinistra a destra, pulivano il vetro anteriore appannato dal freddo. Lì davanti, la strada diritta che continuava ad andare, piegata di tanto in tanto da qualche curva. Ai lati, s’indovinavano qua e là alcune casette di campagna, anticipate da viottoli che sembravano perdersi tra la neve. Sul volante, le mani ruvide del padre di Karl che guidavano con attenzione ed estrema decisione. Il sole, lassù nel cielo alto, era finalmente riuscito a ritagliarsi uno spazio nel quale poteva adesso esercitare il suo dominio. Tuttavia, lasciava verso sud di nuovo campo a qualche nuvola agguerrita ancora carica e ormai stanca di aspettare.

    Poco oltre Linz, l’auto si fermò nei pressi della prima abitazione che trovò. Una masseria molto accogliente, situata in una zona lontana dal resto del centro abitato. Il padre di Karl scese dall’auto e si diresse verso l’unica persona che in quel momento poteva vedere: una graziosa ragazza poco più che ventenne, non molto alta, con capelli e occhi chiari. Accompagnata dal suo fedele spitz bianco, si mosse a passi titubanti verso quell’uomo con atteggiamento dubbioso. Nessuno mai si avvicinava a quella piccola cascina, soprattutto da un anno a quella parte. Vedere, perciò, due uomini avanzare lentamente non fece altro che metterla in guardia.

    «Mi scusi signorina, è questa la strada per Wels? Dovremmo essere lì per mezzogiorno, ma ho paura di essere già in ritardo» le chiese lui. Karl stava lì, dietro suo padre, incantato da una ragazza che non aveva mai visto prima e con cui non sarebbe riuscito nemmeno ad aprire bocca. Era troppo preso dal suo viso e dal suo sguardo per poter parlare.

    La ragazza si avvicinò ulteriormente a loro mascherando incertezza e rispose:

    «Penso che dovrebbe farcela, la strada è quella giusta. Wels è poco distante da qui.» Ma doveva capire chi fossero quei due e se quella della strada non fosse solo una scusa per scoprire informazioni su di lei e la sua famiglia. Si inventò un pretesto per continuare a parlare e riprese: «Posso fare qualcosa per voi? Avete fatto colazione? Ho dell’ottimo latte fresco, se volete.»

    ‘Come? Vuole offrirci la colazione?’ pensò Karl. ‘Non ci conosce, perché vuole farlo? Dev’essere una brava ragazza, è davvero sorprendente. Spero che papà dica di sì.’

    E invece, suo padre non la pensava proprio allo stesso modo.

    «Grazie tante, ma dobbiamo andare. Poi, a mio figlio il latte non piace» continuò assumendo un’aria piuttosto imbarazzata. Karl lo guardò contrariato, consapevole del fatto che suo padre, per nascondere le loro origini e per evitare problemi, avrebbe rifiutato anche un sano e genuino bicchiere di latte.

    ‘Quale sarebbe stato il problema?’ si domandò. ‘Avremmo dovuto solo rimanere altri dieci minuti!’ Non che suo padre se ne vergognasse, questo poteva giurarlo, ma soltanto voleva evitare a volte inutili imbarazzi che, al contrario, riusciva a non avere nel suo lavoro. Un bravo medico onorato e cercato da tutti. Karl, di questo, andava fiero, ma non riusciva a capire quegli attimi d’incertezza che ogni tanto lo ingabbiavano.

    Perché ti comporti così? avrebbe voluto chiedergli mentre raggiungevano l’auto. Non sarebbe successo nulla, invece tacque e continuò a osservarlo. Si diresse con quel suo passo veloce verso la macchina, cercando di non affondare più di tanto le scarpe nella neve e, dopo aver aperto la portiera, con un cenno indicò al figlio di far presto. La ragazza rispose al saluto dei due, trovando conforto nell’atteggiamento timido e remissivo di quel ragazzo e nella fretta che in effetti mostrò suo padre. Capì che non era stata una messa in scena per poter accedere con altre scuse successive in casa sua, ma che forse l’unico obiettivo era proprio sapere se la direzione del loro viaggio fosse quella giusta.

    Quella masseria era tutto per Greta Rosenberg e la sua famiglia. Da quando era morto suo padre, la ragazza aveva fatto enormi sacrifici per poter assicurare disponibilità di uova, latte e formaggi a lei, a sua madre Sara e a sua sorella Marlis, sperando sempre che qualcuno avesse potuto comprarli. Ma la sua situazione così diversa e precaria, non le permetteva di vivere in maniera tranquilla, dubitando di chiunque e pregando quel suo unico Dio, che nella terra d’Israele aveva eletto il suo popolo. Greta portava un fermaglio rosso porpora tra i suoi capelli dorati che, in quel giorno abbastanza freddo di fine novembre, sembrava fossero accarezzati dal vento. Karl l’aveva guardata con composto desiderio mentre parlava con suo padre. L’aveva scrutata in ogni suo movimento, osservando le sue mani così piccole che indicavano la via. Non poteva non essere attratto da lei, così graziosa e candida e allo stesso tempo sicura di sé e di quel che faceva. Il suo viso era bello come la purezza. Specchiandosi al sole, metteva in mostra anche i lineamenti più nascosti. I capelli erano d’un biondo chiaro, le scendevano fino alle spalle e rendevano ancor più armonioso il dipinto delicato del suo volto. Le labbra, ogni volta che abbozzavano un timido sorriso, erano avvicinate da due dolci fossette. I suoi occhi erano verdi come la speranza, che non moriva e che mai si sarebbe arresa all’oppressione nazista, cercando di continuare a lottare per liberarsi da quella soffocante angustia che li tribolava.

    Dal punto di vista fisico, Greta era una ragazza dalla bellezza tipicamente austriaca che per nulla lasciava intendere le sue origini. Chi non le conosceva, poteva tranquillamente scambiarla per una vera ariana, proprio come inizialmente fece Karl. Il colore degli occhi e quello dei capelli erano segni inconfondibili. Gli ebrei, tutti o quasi, avevano entrambi di colore scuro. Tuttavia, le eccezioni erano sempre possibili. Chi tra i propri antenati aveva avuto un ariano poteva di conseguenza presentare tratti somatici non proprio tipici della razza ebraica. A Karl piaceva e basta e in quei pochi istanti non se l’era certamente chiesto. Come se in quel momento avesse guardato un angelo, rimanendone attratto. Non avrebbe capito se si fosse trattato di un sogno o della realtà. L’avrebbe colpito la bellezza, non il motivo per cui gli erano spuntate le ali.

    Capitolo 2

    In fondo, speravo tornasse da me. Altrimenti sarebbe stato come lasciare sospeso un discorso appena iniziato.

    Quell’impegno a Wels. Poi il ritorno da lei.

    Karl avrebbe voluto fotografarla, fermare quell’immagine per sempre e magari riguardarla, per rivivere le stesse sensazioni e le stesse emozioni. Desiderava dirle qualcosa, ma sapeva già che, una volta avvicinatosi a lei, nulla gli sarebbe uscito da quella timida bocca. Si sentiva quasi costretto a restar lì, ad ammirarla e a contemplarla con ordinata attenzione. Anche Greta aveva notato Karl, nascosto dietro suo padre per timidezza. Quel dolce ragazzo indossava un cappotto di lana scuro che scendeva fino alle ginocchia, un maglione bianco e, sotto a questo, una camicia di cui si notava solo il colletto. Capelli e occhi neri, alto quasi quindici centimetri in più rispetto a lei, Karl non avrebbe avuto problemi a trovare pretendenti. Forse il suo carattere e la sua riservatezza non gli erano mai stati d’aiuto, o forse semplicemente fino a quel punto della sua vita aveva voluto aspettare il momento giusto per trovare la sua anima gemella. Tra loro si creò istantaneamente un filo immaginario che li tenne legati alcuni attimi, durante i quali ebbero la sensazione forte di conoscersi già. Una sensazione che però non riuscirono pienamente a toccare con mano.

    Si scambiarono degli sguardi, molto intensi ma troppo brevi. Karl non riuscì a guardarla negli occhi, era decisamente imbarazzato e a tratti stregato dal suo sorriso, dalle sue espressioni così semplici ma piene di vita. Una volta risalito in macchina, stette lì a ripensare a quei momenti e durante tutto il viaggio non poté impedire che la sua mente si riaffacciasse a quelle immagini. Fu letteralmente divorato dal rammarico di non aver scambiato con lei neanche una piccola frase. Se solo avesse potuto rimediare, l’avrebbe fatto subito. La timidezza si era impadronita di lui, facendo svanire ogni speranza di conoscerla e di stringere una piccola amicizia.

    A Wels il tempo passò in fretta. Suo padre non ebbe particolari problemi a trovare la casa del suo caro amico Alfred Levinski, ebreo come lui, che abitava nella periferia est, proprio sulla strada che veniva da Linz. I due non si vedevano da parecchi mesi. Da ragazzi avevano combattuto insieme nelle forze armate austro-ungariche durante la prima guerra mondiale a difesa dell’impero, diventando grandi amici anche in seguito al conflitto. Quella mattina il loro appuntamento fu più dovuto alla voglia di rincontrarsi che alla reale esigenza medica. Il padre di Karl non appena lo vide lo abbracciò presentandogli suo figlio. Ancora una volta, non perse occasione per manifestare il suo grande desiderio:

    «Ho portato con me mio figlio, è giusto che inizi a seguire le orme di suo padre imparando poco a poco il mestiere.» Karl non annuì. Guardò sorridendo dall’altra parte, verso il vialetto fiorito oltre al quale si stavano trattenendo. Levinski capì che Karl non era proprio avvezzo a sbandierare le sue intenzioni, così cercò di stuzzicarlo a dovere.

    «Qualcosa mi dice che tuo figlio non vuole diventare medico, non è vero? Sai Karl, è un gran bel lavoro. Ti dà tante soddisfazioni, forse è l’unico che può ancora dartele. E poi ti vogliono bene, come io ne voglio a tuo padre. Sai ormai cosa c’è là fuori per tutti noi? Il nulla.»

    «Grazie per il consiglio, ma farò da me. Sono abbastanza grande per decidere da solo. Per ora sono solo in fase di osservazione, poi vedrò.»

    «Però!» riprese Levinski «è deciso il ragazzo! Comunque sia ti auguro il meglio, sempre che questo sia possibile con il clima che respiriamo. Ma ora non parliamo di questo, venite dentro!» Ne seguì una lunga chiacchierata sul divano in pelle che Levinski teneva al centro del salotto, dove tutti si accomodarono. Per quanto non ne avrebbero voluto parlare, l’argomento guerra era quello che teneva banco. La Germania, dopo l’invasione polacca del primo settembre 1939, aveva ricevuto dichiarazione di guerra da Francia e Gran Bretagna, che con la Polonia avevano stretto un patto di integrità territoriale. Unione sovietica e Germania, precedentemente e a loro volta, avevano firmato un accordo di non aggressione. I sovietici decisero di invadere anch’essi la Polonia, che non resse. Il territorio polacco fu diviso quindi tra tedeschi e sovietici. Fu l’inizio di una lunga catena che, ovviamente, travolse anche l’Austria, che era stata annessa alla Germania già da un anno.

    Sorseggiando un tiepido caffè, in quella stanza si parlò della situazione generale. Laddove le parole non riuscivano a esprimere bene il senso dei loro discorsi, ci pensarono i loro volti, cupi e preoccupati.

    «Chissà per quanto ancora ne avremo! Peter, ricordi quando vent’anni fa uscimmo dalla guerra convinti di aver fatto qualcosa di giusto per il nostro popolo? E ora? Chi combatte ora cosa pensa? Noi per primi non possiamo ormai neanche dire quale sia la nostra opinione. Non valiamo più niente!»

    «Quando capita di parlare di quel che sta accadendo a noi ebrei, dico sempre che secondo me tutto è passeggero. Presto sono sicuro che il nostro Dio ci aiuterà e ne verremo fuori, altrimenti niente di ciò che abbiamo fatto può avere un senso.»

    «Quanto vorrei fosse vero, Peter. Io dico invece che dobbiamo essere realisti e pensare al peggio. Molti di noi stanno subendo persecuzioni inimmaginabili fino a poco tempo fa e presto toccherà a tutti. Sono d’accordo sul fatto che non dobbiamo assolutamente perderci d’animo e sperare, ma purtroppo la realtà è un’altra e la stiamo vedendo.»

    Karl ascoltò attentamente quelle parole; d’altronde conosceva benissimo la situazione perché anche a casa se ne parlava e tanto. Ma proprio non riusciva a pensare che la guerra potesse essere l’unico argomento di interesse in quel momento. Un po’ condivideva il pensiero del padre. Dio, il padre di tutti, il creatore di tutto quello che di bello ci fosse sul pianeta davvero poteva abbandonare il destino degli ebrei? Davvero credere a ciò che gli altri dicevano sulla maledizione che avrebbe inflitto al loro popolo? Proprio no.

    In quella cascata di parole che cadeva giù velocemente in quel salotto, Karl cercò più di una volta di pensare a lei, a quella ragazza che in pochi minuti lo aveva rapito. Rivide più volte la scena nella sua testa. ‘Karl, perché sei rimasto immobile? Accidenti a te e alla tua timidezza!’ pensò. ‘Avrei dovuto intromettermi e dire che accettavamo la colazione, non c’era altro modo.’

    Le parole, le ansie e le paure, per motivi diversi, in quella stanza raggiunsero presto limiti inaccettabili. Fino a quando Alfred Levinski parlò del suo problema al padre di Karl, quello per cui l’aveva chiamato.

    «Allora Peter, veniamo al dunque. Ti ho chiamato perché credo di soffrire di pressione bassa. Da un po’ di giorni mi sento molto debole e spesso mi gira la testa.»

    «Ora ti faccio un bel controllo, così ti tranquillizzi. Non credo sia niente di serio comunque.»

    Infatti, dopo aver preso sfigmomanometro e stetoscopio e dopo che lo ebbe auscultato, lo rassicurò:

    «Pressione e battito regolari, puoi stare tranquillo. Secondo me sei solo un po’ nervoso e c’è qualcosa che ti preoccupa.»

    «Qualcosa? Qui mi preoccupa tutto, Peter! Sarà davvero l’ansia che sto accumulando da due mesi a questa parte?»

    «Certo che può essere, non puoi assolutamente escluderlo! Cerca in ogni caso di riposarti, ne hai sempre bisogno.»

    «Grazie mille per essere venuto nonostante la neve, forse potevo evitarti la levataccia di stamane.»

    «Non scherzare Alfred, per gli amici sono sempre disponibile.»

    Dopo altri minuti di saluti e convenevoli finali in cui i due si diedero appuntamento per un’altra visita di controllo da effettuarsi dopo un mese circa, Karl e suo padre tornarono alla macchina pronti per rimettersi in viaggio. In quel momento, prima di ripartire alla volta di Vienna, Karl pensò che sarebbe stato più giusto, per sé e per la sua coscienza, riprovarci e ripassare quindi dalla stessa masseria. ‘Che bello poter rivedere quella ragazza’ pensò. Una ragazza di cui non sapeva nulla, neanche il nome, ma di cui era convinto di conoscerne la tenerezza, la dolcezza e la semplicità, elementi che trasparivano dai suoi gesti, dai suoi occhi e dal suo sguardo.

    «Faremo la stessa strada, vero papà?» domandò Karl, sperando di ricevere come risposta un , oppure un vedremo…

    «Beh, penso di sì,» rispose il padre «è l’unica che ci porterà a Vienna prima del tramonto. Le altre sono decisamente più tortuose e rischieremmo di perder tempo. E noi non possiamo arrivare in serata, lo sai bene, vero? Ma, di’ un po’, perché me lo chiedi? Non sarai mica interessato a ripassare da quella fattoria, eh? Ho visto come guardavi quella fanciulla» continuò, accorgendosi che Karl cambiava espressione al suono delle sue parole.

    «No, che dici? Vorrei soltanto ringraziarla. Dopotutto ci ha dato una dritta stamattina, non trovi?» rispose lui, con l’aria di chi voleva porre rimedio a una situazione un po’ imbarazzante. Suo padre, mettendosi alla guida dell’auto, pensò di accontentarlo e di ripassare dallo stesso luogo in cui quella mattina si erano fermati. Era in fondo curioso di vedere ciò che il figlio avrebbe fatto, di sapere come si sarebbe comportato una volta arrivati là, lui che di solito era così timido, specie con le ragazze.

    L’auto riprese il suo cammino. La solita, lunga strada bianca per Vienna, che questa volta avrebbe dovuto riportarli a casa.

    Con il passare dei chilometri, il cuore di Karl batteva sempre più forte e i suoi pensieri si concentravano solo sulle parole che avrebbe dovuto dire: ma quali? Era questo l’interrogativo principale che si poneva alla sua mente, e per questo gli mancò quasi il coraggio di scendere dall’auto quando questa, lentamente, si accostò all’ingresso della stradina d’accesso alla piccola fattoria in cui i Rosenberg vivevano. Stavolta Karl aveva intenzione di farsi notare, di salutarla e di riprendere per mano ciò che quella stessa mattina gli era sfuggito. Mille dubbi veloci lo preoccuparono e lo bloccarono stupidamente. Un’occhiata a suo padre, che con la sua espressione serena sembrava volergli dire: adesso vediamo che fai e poi giù dalla macchina, il ritmo del suo respiro aumentò gradualmente.

    Lentamente posò la mano sullo sportello per chiuderlo e con altrettanta calma affondò le sue scarpe nella neve ormai ridottasi. Poi si fermò. Non riusciva a vederla. Forse si era allontanata, o più semplicemente era all’interno della sua casa. Qualcosa lo spinse ad aspettare, non voleva forse perdere per sempre l’occasione di rincontrarla, rimandando così a chissà quando quell’incontro.

    ‘Eppure deve essere qui, da qualche parte’ pensò. Sentiva che da lì a poco l’avrebbe rivista e le avrebbe teso le mani. Ma al di là della sua immaginazione, sapeva che questo non poteva succedere. Sapeva che, giunto dinanzi a lei, avrebbe voluto dirle mille parole ma probabilmente non sarebbe riuscito che a salutarla.

    Il sole iniziava a tramontare: il suo colore rosso amaranto esprimeva l’importanza di quella giornata per Karl, il cui cuore si era aperto inaspettatamente e attendeva di vivere un’emozione ancor più grande prima che l’ultima luce di quel pomeriggio smettesse di riscaldarlo. Quando ormai Karl stava per andar via, Greta comparve in fondo tra gli alberi. Si apprestava a rientrare in casa e ad aiutare quindi sua madre a preparare la cena. Karl non si era sbagliato. Era davvero bella, l’impressione che aveva avuto qualche ora prima corrispondeva alla realtà. Le appariva ora davanti, a pochi metri di distanza. Sarebbe bastato davvero un attimo per raggiungerla.

    Greta abbozzò un sorriso, alzò timidamente il braccio per salutare. Per lui era tutto così incredibile. Era stata lei a compiere il primo passo e questo bastò a incoraggiarlo.

    «Hai voglia di star fermo per tutto il tempo?» gli sussurrò il padre. «Coraggio, va’ e parlale almeno!»

    ‘Ma che le dico?’ si ripeteva. ‘Chissà cosa penserà di me? Cosa mai vorrò da lei?’ continuava.

    Le sue stupide incertezze erano sempre lì con lui, non lo avevano ancora abbandonato, ma Karl cercava di lottare contro se stesso per allontanarle e convincersi finalmente che avrebbe dovuto trovare la calma e la spontaneità necessaria.

    Sapeva molto bene che ciò che stava facendo poteva sembrare strano o addirittura inutile: in fondo, avrebbe potuto tornarsene tranquillamente a casa con suo padre e magari non pensare più a lei. Già, ma-come poteva riuscirci?

    Nei suoi occhi c’era sempre lei, così come nella sua mente. Il suo desiderio era quello di osservarla più da vicino, di iniziare a parlarle, a conoscerla. Non pretendeva di sapere quanto tempo ci sarebbe voluto e se dopo quella volta ci sarebbero state altre occasioni per incontrarla di nuovo ma ciò che a lui interessava di più era provarci, in qualunque modo sarebbe andata.

    C’era un altro ostacolo però che, specie in quel periodo, rappresentava un’impossibilità, una difficoltà in più. Karl era ebreo. Non sapeva chi andava a conoscere, non immaginava quali pensieri ci fossero nella mente della giovane Greta. Poteva anche lei essere ebrea? Oh, questo Karl lo sperava fortemente. Ma la ragazza, chissà!, avrebbe potuto invece essere una simpatizzante di Hitler ed essersi fatta delle opinioni completamente errate e concettualmente sbagliate sulla gloria, sulla potenza e sulla superiorità della herrenvolk, la razza ariana. Questi ultimi pensieri si erano annidati ancor più di prima in lui, ma bastò poco affinché potesse sbloccarsi e convincersi del contrario:

    «Mi è sembrato di averti salutato…» intervenne Greta con semplicità, come solo lei sapeva fare, mostrando il suo sorriso radioso che accompagnava splendidamente quei suoi occhi verde chiaro, nei quali si poteva leggere tutta la letizia che portava dentro il suo animo. Karl si sentì pronto per poter parlare, via tutti quegli impedimenti e tutte quelle preoccupazioni. No, cosa importavano? Ciò che doveva fare era accorgersi che la vita era là davanti a lui e questa volta non si sarebbe certo bloccato.

    «Sì, scusa, ero venuto qui proprio per salutarti, poi non ti ho vista.»

    Greta l’aveva preso un po’ alla sprovvista: dopotutto Karl si era accorto del saluto di qualche istante prima e si era avvicinato a lei per ricambiare il gesto, poi la ragazza aveva rotto il silenzio. Bastava ora qualche altra parola ed il dialogo avrebbe avuto inizio.

    «Siete di ritorno?» riprese Greta. Al contrario di Karl, lei era sicura e socievole, dolce ma brava a nascondere le sue emozioni. Non credeva potesse esser vero. Quelle sue paure e quei suoi tentennamenti iniziali quando l’aveva visto la stessa mattina assieme al padre, il suo timore che si fosse trattato di qualcosa di più di una semplice richiesta di informazioni e poi il suo sguardo timido. Ogni cosa di lui l’aveva conquistata fin dall’inizio ed era desiderosa di conoscerlo, con la consapevolezza che anche quel ragazzo, fino a quel momento, non aveva fatto altro che guardarla.

    «Beh, sì,» rispose Karl «facevamo la stessa strada di stamattina e quindi siamo tornati qui, anzi… forse potevamo evitare…»

    «No, non preoccuparti,» intervenne lei «qui non viene mai nessuno e ogni tanto fa piacere vedere qualcuno.» Greta non voleva che Karl se ne andasse e per questo avrebbe cercato di mostrarsi il più possibile simpatica per trattenerlo e farselo amico.

    Le tornarono alla mente le parole che il ragazzo aveva detto poco prima ero venuto qui proprio per salutarti: iniziò a tremare dall’emozione. Sperava che anche Karl, come lei, provasse qualcosa e che dietro a quell’aria apparentemente fredda nascondesse le sue stesse sensazioni.

    «Dimmi un po’,» riprese «c’è un motivo in particolare che vi ha spinti a tornare qui?»

    Karl diventò rosso, non sapeva cosa dire e per quanto fosse una domanda quasi scontata, non se l’aspettava. Mi piaci, le avrebbe detto se solo ci fosse stato il coraggio per farlo oppure sei così bella che… ma in realtà sapeva benissimo che avrebbe dovuto formulare la sua risposta in un’altra maniera.

    «Oh, beh… non c’è un motivo preciso. Abbiamo deciso di ripassare, tutto qui. Sei stata così gentile stamattina!» Karl parlava a tratti, interrotto dalla sua incertezza, e alle sue timide frasi univa degli altrettanti impacciati gesti con le mani.

    «Ho solo detto a tuo padre che eravate sulla strada giusta, non mi sembra abbia fatto chissà cosa» rispose Greta.

    «Sì, ecco, ti ringrazio per la colazione che volevi offrirci, è soprattutto a questo che mi riferivo» continuò Karl. Non aveva una buona scusa per giustificare il no che suo padre aveva dato come risposta quella mattina, ma in ogni caso era sempre un argomento da trattare e un pretesto per poter continuare a parlare.

    Greta ricordò il motivo che l’aveva spinta a fare loro quella proposta qualche ora prima. Non aveva più dubbi, la sincerità che traspariva dagli occhi del ragazzo era troppo evidente.

    «Non fa niente, stamane andavate di fretta. Non mi sono mica offesa, sai? Comunque, se il latte non ti piace, ti consiglio di provarlo» continuò sorridendo.

    «No, non è vero. Non devi prendere per serio tutto quello che dice mio padre! L’hai detto tu, eravamo in ritardo, è stato solo un modo per accelerare i tempi. Oltretutto sbagliato» disse Karl.

    Si sentiva ora più sciolto e più sicuro. Vedeva che Greta era semplice, bastava poco per farla sorridere e la sua simpatia era contagiosa, lo metteva a proprio agio. Avevano parlato di una sciocchezza, un bicchiere di latte che non era stato accettato, ma tanto era servito per metterli in sintonia. Abbozzando ancora un sorriso, la ragazza riprese:

    «Da dove venite? Non da queste parti, vero?»

    «Direi di no, siamo di Vienna» rispose lui freddamente. Ciò che accadeva in quel periodo nella sua città non era certo bello, odore di guerra e di fame, persecuzioni naziste, preferiva non parlarne.

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