Changador
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Info su questo ebook
Il libro, oltre che un omaggio al fondatore di una grande famiglia con discendenti in più continenti, è l’occasione per ripercorrere un lungo periodo storico che va dall’emigrazione italiana in Argentina di fine Ottocento alle due guerre mondiali.
Le spoglie del “changador” si trovano oggi nella cappella di famiglia nel paese natale e accanto a lui riposano molti dei personaggi del libro, compresi lo zio “Ilarione”, il figlio “Lariuzzu”, padre dell’autore, e l’amata “Cicigliuzza”.
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Anteprima del libro
Changador - Francesco Asprea
Capitolo 1
Il viaggio
«Changador… changador…» gridava la grassa signora scesa dalla nave con valigie, borse e pacchi che formavano un piccolo cumulo di fronte al molo di Puerto Madero dove la nave era appena sbarcata.
Il piccolo Francesco non capiva le parole della signora ma la situazione faceva facilmente comprendere che aveva bisogno di aiuto per portare i pacchi e aveva adocchiato il ragazzo che gironzolava per il porto. Francesco non se lo fece ripetere due volte, si caricò sulle spalle i pesanti fardelli e accompagnò diligentemente la signora attraverso i magazzini del porto fino all’albergo.
La donna, soddisfatta dell’aiuto, pronunciò una serie di parole a Francesco incomprensibili, in uno stranissimo cocoliche – quel linguaggio ibrido tipico dell’area di Buenos Aires, in cui il lessico dello spagnolo si fonde con la sintassi italiana creando un accento senza uguali – e gli allungò una moneta che egli strinse avidamente nella mano come un agognato trofeo. Era quello il primo danaro guadagnato col proprio lavoro e nella testa di un ragazzino di sette anni proveniente da Roccella Ionica, un povero paese marinaro della costa ionica calabrese, costituiva un punto di arrivo; non poteva prevedere che sarebbe stato invece un punto di partenza.
Occhi neri, capelli neri, fisico asciutto, Francesco aveva sette anni e aveva appena imparato il minimo necessario per leggere e scrivere; la famiglia sopravviveva con i proventi della pesca, quando il mare decideva di essere generoso e regalare un po’ di tranquillità per qualche giorno, altrimenti viveva alla giornata con quello che passava il convento.
Correva l’ano 1884.
La famiglia decise, su proposta dello zio Ilarione, emigrato in Argentina, di fare partire il ragazzo assieme allo zio. Il Sud Italia stava ancora adattandosi alla nuova situazione politica successiva all’impresa dei Mille di Garibaldi e alla costituzione del Regno d’Italia sotto Vittorio Emanuele di Savoia. Nel 1876 la Destra Storica sotto il governo Minghetti aveva raggiunto il tanto agognato pareggio di bilancio
che era però costato lacrime e sangue a tutta la nazione, in particolar modo al Sud che nel frattempo aveva visto depauperato buona parte del proprio patrimonio a favore delle casse sabaude. Non che fosse cambiato granché per gli abitanti del povero paesino: poveri erano e poveri erano rimasti, anche cambiando monarca. Le famiglie vivevano alla giornata e l’emigrazione verso i paesi esteri iniziava a farsi consistente; l’Argentina era fra le mete più frequenti, vigendovi una politica del governo locale che favoriva l’arrivo di lavoratori stranieri; d’altro canto il Paese, una volta che il generale Rocas ebbe sterminati pressoché tutti gli indios nelle sue campagne militari denominate la conquista del deserto
, non era per forza di cose popolato da nativi ma quasi esclusivamente da emigranti.
Come ebbe a dire Octavio Paz «los argentinos son italianos que hablan espanol y se creen franceses». In questa situazione l’emigrazione italiana raggiunse numeri molto alti: dapprima genovesi, poi piemontesi e veneti, poi anche meridionali.
Lo zio Ilarione era un omaccione robusto e bonaccione che si era sposato al paese con Elisabetta e poi era emigrato anni prima dove aveva fatto una discreta fortuna arrivando a dirigere una filanda; ogni tanto rientrava in Italia, raggiungeva la famiglia, rimaneva il tempo di mettere incinta la moglie e ripartiva. Stavolta aveva proposto di portare con sé il piccolo Francesco, che non era mai uscito dal paese natale e che si era trovato, dopo avere salutato madre, padre e fratelli, a intraprendere un lungo viaggio che prima a piedi, poi in treno, lo aveva portato a Napoli. Lì, insieme allo zio, si era imbarcato in uno di quei grandi piroscafi della Navigazione Generale Italiana che partivano da Genova col loro carico di migranti dalle regioni del Nord e facevano tappa a Napoli dove caricavano altrettante persone provenienti dal Meridione d’Italia e ripartivano per il lungo viaggio di quasi un mese che li avrebbe condotti a Buenos Aires.
Era piccolo, Francesco, e le sue esperienze di imbarcazioni si fermavano alla barca da pesca del padre sulla quale era salito parecchie volte a dare una mano; una nave così grande non immaginava che potesse esistere e mentre saliva dalla passerella, tenuto per mano dallo zio Ilarione quasi a proteggerlo da quella moltitudine umana che aspettava di imbarcarsi, la sua sensazione fu di perdersi in quella inattesa immensità, così diversa dal mondo nel quale fino ad allora aveva vissuto.
Così, il lungo viaggio per il nuovo mondo iniziò, fra grandi timori e inconfessate speranze.
I piroscafi che solcavano l’oceano Atlantico per raggiungere le Americhe avevano una capienza di oltre millecinquecento passeggeri più l’equipaggio. Solo pochi potevano permettersi i posti di prima classe, una ventina in tutto, o di seconda, non più di quaranta in tutto, che consentivano di avere cabine private con la possibilità di un bagno dove lavarsi e dove fare i propri bisogni, nonché di mangiare un vitto degno di tale nome seduti a tavola, mentre la moltitudine dei viaggiatori migranti si doveva accontentare della terza classe e anche in quel caso molti dovevano vendere i propri miseri averi per pagarsi il biglietto di quel viaggio che speravano avrebbe cambiato la loro vita.
Il piccolo Francesco era tra i fortunati che si potevano imbarcare, avendo avuto il biglietto (seppure di terza classe) pagato dal "ricco