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Passava in bicicletta sotto la mia finestra
Passava in bicicletta sotto la mia finestra
Passava in bicicletta sotto la mia finestra
E-book593 pagine8 ore

Passava in bicicletta sotto la mia finestra

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Info su questo ebook

Un libro che racchiude più di un genere letterario: il romanzo storico, l’epistolare, il romanzo d’amore. Maria Teresa Casu ha saputo amalgamare con grande maestria le vicende che hanno caratterizzato una precisa e riconoscibile epoca storica, lasciando ai personaggi, a ciò che si scrivono, lo svolgimento della storia. Attraverso le lettere, infatti, fornisce elementi capaci di portare avanti la trama, oltre a elementi utili alla caratterizzazione dei personaggi e alla rappresentazione di ambienti e contesti. In questo libro, l’autrice rievoca epoche, personaggi e ambienti del passato, con ricchezza di particolari e precisione documentaria, senza privarci dell’emozione di una grande storia d’amore, che ha saputo resistere alla guerra, al dolore, e che grazie all’amore di una figlia resisterà al tempo.

L'AUTRICE
Maria Teresa Casu nasce a Cagliari da padre gallurese e madre oristanese, nel 1952. Docente di matematica in pensione è al suo secondo romanzo. La scrittura, antica passione, è diventata la sua occupazione preferita senza tuttavia trascurare gli altri hobby come la lettura, la musica e la pittura "naïf" attraverso la quale immagina una natura incontaminata. in copertina:

empty street in Stockholm Old Town @ steho - depositphotos.com

 
LinguaItaliano
Data di uscita26 nov 2018
ISBN9788834125687
Passava in bicicletta sotto la mia finestra

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    Anteprima del libro

    Passava in bicicletta sotto la mia finestra - Maria Teresa Casu

    MARIA TERESA CASU

    PASSAVA IN BICICLETTA SOTTO LA MIA FINESTRA

    Maria Teresa Casu

    Passava in bicicletta sotto la mia finestra

    Proprietà letteraria riservata

    l’opera è frutto dell’ingegno dell’autore

    © 2019 AmicoLibro

    Vico II S. Barbara, 4

    09012 Capoterra (CA)

    www.amicolibro.eu

    info@amicolibro.eu

    Prima Edizione

    maggio 2019

    PROLOGO

    1940

    1941

    1942

    1943

    1944

    1945

    1946

    EPILOGO

    Ai miei fratelli, Marco, Alessandro e Franco

     Non ero io ad andarmene, io non avevo il potere di lasciare l’Africa, ma era l’Africa che lentamente, gravemente si ritirava da me, come il mare nella bassa marea.

    Karen Blixen - La mia Africa

    INTRODUZIONE

    Ada è stata in Africa negli anni del colonialismo italiano, dal 1938 al maggio del 1940 e lì ha lasciato uno spicchio della sua vita.

    È tornata in compagnia di un male che le è rimasto dentro l’anima per tutta la durata del suo percorso terreno.

    Il mal d’Africa è stato fedele compagno nel silenzio dei ricordi e nella gioia dei racconti regalati alla figlia.

    In quelle serate di profonde confidenze le ha trasmesso l’amore per una Terra lontana e martoriata, dove ha trascorso una meravigliosa esperienza.

    Nonostante le difficoltà incontrate non ha mai rinnegato le scelte fatte, né ha mai voluto dimenticare quella coraggiosa avventura attraverso la quale ha compreso che la Storia segue sentieri del tutto indipendenti dalla volontà dell’uomo qualunque.

    Al ritorno affronterà una nuova battaglia contro le ostilità della vita quotidiana e della guerra che si abbatte sull’Italia e nel mondo.

    Lontana dal marito lasciato in Etiopia in balìa di un destino ingiusto e avverso, lotterà per riappropriarsi di una normalità perduta insieme ai suoi sogni.

    Tra sofferenze, malumori, solitudini e incertezze, Ada vincerà questa battaglia riconciliandosi con se stessa e con ciò che la circonda. Ritroverà la gioia di vivere e condividere la sua lunga e meravigliosa, tormentata vicenda.

    PROLOGO

    Ada vuoi partire con me?

    Questa fu la sua dichiarazione d’amore.

    Era un modo per chiedermi di sposarlo.

    Dopo alcuni mesi di fidanzamento, Giuseppe partì nel febbraio del 1935 in Africa Orientale, dove andò a lavorare nella Ragioneria di Stato come civile, vincitore di concorso.

    Mia madre, prudente per natura, si mostrò tuttavia serena, pensando al mio futuro.

    Le amiche e mia cugina Ezechiela, chiamata col diminutivo Iela, erano contente nonostante lui fosse più piccolo di me.

    Tutti i dubbi erano miei. Mi sono sempre chiesta qual è stato il vero motivo per cui avevo accettato la sua proposta.

    Non l’ho mai saputo, ma l’ho amato tutta la vita.

    In Africa sono stata bene, nonostante il difficile periodo storico.

    È nato il nostro primo figlio e l’amore si è consolidato. Quei due anni sono stati un barlume meraviglioso e ho vissuto una vicenda indimenticabile nel bene e nel male.

    Avevo ventisette anni quando la mia vita è cambiata, e con un coraggio e forse un’incoscienza che non sapevo di possedere, ho affrontato una situazione come salto nel buio.

    Navigando nel Mediterraneo e nel Mar Rosso in quel novembre del 1938, sposi da soli due mesi, dopo giorni e giorni tra il mare e le stelle, siamo approdati a Massaua.

    In Africa Orientale, l’Italia era convinta di conquistare il mondo e di risolvere i suoi problemi sociali, storici e politici. Non fu così. Non lo fu per niente.

    Qualche anno dopo, la sconfitta si abbatté sulle nostre teste.

    Tutti noi eravamo partiti con un grande sogno, trasformato poi in un incubo.

    Allora però non ne avevamo consapevolezza e l’arrivo in Abissinia era colmo di speranze e progetti.

    La casa ad Asba Littoria divenne il porto sicuro, la base di partenza, per i nostri obiettivi.

    La guerra ha cambiato tutto, ma non quelle illusioni, quelle sensazioni e quei luoghi immensi dove lo sguardo e il pensiero dimenticavano la loro originaria appartenenza.

    Sentivo nostalgia della mia Terra ma desideravo essere accolta anche da quella che volevo diventasse, l’altra mia casa.

    Quella che non ho più rivisto e non ho mai dimenticato.

    Quando sono tornata dall’Africa, nel maggio del ’40, ho raccolto i cocci dell’esperienza trascorsa e ho cercato di ricominciare.

    Non era come lo avevo immaginato, il mio, il nostro ritorno, ma la presenza di Marco di appena otto mesi, mi ha dato la forza di credere in un futuro ancora tutto da inventare.

    Per i successivi sette anni avrei trascorso un’esistenza appesa a un filo. Quel filo che mi legava a Giuseppe, lontano migliaia di chilometri dalle sue radici e dalla vita familiare.

    Almeno io avrei sempre avuto il conforto dei miei cari, lui, in solitudine, sarebbe andato incontro a un destino ineluttabile.

    1940

    1

    La guerra in Italia si fece sentire con forza e crudeltà nei mesi e negli anni successivi a quel 1940.

    Quando tutto finisce, rimane impressa nel profondo l’immagine perenne di scenari e suoni che tanto dolore hanno provocato, senza riuscire ad accettarne la motivazione.

    Porto tuttora dentro il terrore dei tuoni, associandolo al boato delle bombe che sembrava ci piovessero addosso, perfino dentro il rifugio antiaereo. Ciò che mi dispiace maggiormente è averlo manifestato ai miei figli, molti anni dopo, quando, incurante della loro presenza, mi tappavo le orecchie dopo il fulmine, aspettando col batticuore il rombo successivo, nascosta sotto il tavolo della cucina.

    L’ululato delle sirene d’allarme, il rumore cupo degli aeroplani sulle nostre teste, il fischio acuto degli ordigni di morte che venivano giù, costringevano tutti a scappare nei sotterranei interrompendo in modo repentino qualsiasi attività.

    Come a Cagliari in quel terribile bombardamento del febbraio 1943, non il primo e, purtroppo, neanche l’ultimo.

    Nella cattiva sorte eravamo uniti in un solo destino che accomunava gente diversa per ceto sociale, età, cultura e carattere.

    Tante persone, spesso sconosciute, partecipavano, loro malgrado, a quel drammatico momento storico condividendo paure, ansie e l’incertezza del domani.

    Difficile dimenticare l’angoscia che si leggeva nelle facce di ciascuno.

    L’Europa era in ostaggio della cattiveria e cupidigia di pochi che assoggettavano intere genti al loro volere.

    A un mese dal mio rientro dall’Abissinia, scoppiò la guerra.

    Mussolini dopo la dichiarazione di non belligeranza del settembre 1939, decise che era giunto il momento di intervenire nel conflitto.

    Il 10 giugno dell’anno successivo, dal balcone di Palazzo Venezia, lo annunciò a tutta la Nazione.

    Anche in Eritrea arrivò l’eco del discorso del Duce infiammando di ardore nazionalistico gli animi dei lontani patrioti.

    Quando vidi le immagini nel cinegiornale, mi spaventò la sicumera di quelle parole e la gestualità boriosa che le accompagnava.

    Erano state riprese le piazze di tutta Italia piene di folle esaltate e collaborative. Milano, Torino, Bologna, Firenze, Bari, Napoli, da Nord a Sud era un fiume in piena che straripava e non riusciva a contenere la follia che sembrava si fosse impossessata delle menti umane. Rimbombavano nei microfoni i suoni di morte:

    La parola d’ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti… Essa già trasvola e accende i cuori dalle Alpi all’Oceano Indiano, VINCEREMO.

    Non solo non avremmo vinto ma saremmo caduti malamente.

    Anche il quotidiano L’UNIONE SARDA, l’undici giugno 1940 riportava il seguente titolo:

    L’ITALIA IN GUERRA

    IL COMANDAMENTO DEL DUCE AI COMBATTENTI ED AL POPOLO

    Vincere per dare all’Italia, all’Europa e al Mondo

    un lungo periodo di pace con giustizia

    Le folle ammassate nelle piazze acclamano il Re Imperatore e il Führer

    Mio padre posò il giornale sul tavolo al rientro dalla caserma, dove sicuramente si era già creato trambusto e forse sconcerto.

    Si preparavano dunque gli eventi bellici e notai subito il nervosismo che lo accompagnava.

    Ci sarà molto da fare di questi tempi. Speriamo bene.

    Mia madre si fece il segno della croce invocando la Madonna.

    La Sardegna ebbe da quel momento un ruolo strategico per la sua posizione al centro del Mediterraneo. Il governo esercitava il controllo militare dei convogli inglesi che andavano tra lo stretto di Gibilterra, l’isola di Malta e Alessandria D’Egitto e, nello stesso tempo, proteggeva quelli italiani e tedeschi che rifornivano i combattenti in Africa.

    Il compito era assegnato alle forze aeronavali dislocate nell’isola, nei vari aeroporti, compresi gli idroscali di Santa Giusta a sud e Porto Conte sulla costiera algherese. Anni difficili per la Sardegna che subì diversi bombardamenti dagli Alleati con lo scopo di indebolire le forze italo-tedesche distribuite sull’intero territorio isolano e provocare nella popolazione sentimenti di terrore. I manifesti lanciati prima e dopo le incursioni aeree avevano uno scopo propagandistico insieme alle informazioni di radio Londra che sembravano spesso incomplete e parziali.

    I commenti dell’emittente EIAR entravano in conflitto con quelli della radio rivale, diffondendo un altro tipo di informazione con l’incoraggiamento a resistere al nemico.

    Le prime bombe caddero su Cagliari il 16 giugno 1940, lanciate dai francesi partiti dall’Algeria.

    Il 18 fu colpita Alghero e il 24 dello stesso mese ancora il capoluogo.

    Da allora cominciarono i suoni minacciosi delle sirene e si intensificarono le incursioni aeree nel 1941 e 1942 fino ad arrivare a quel 1943, che portò rovina e distruzione.

    Per tutti noi iniziava il dramma. Non sapevo cosa accadeva a Giuseppe laggiù in Africa e purtroppo rimasi a lungo nell’incertezza.

    Al mio rientro gli avevo scritto una lettera accorata cercando di non caricarlo delle mie sofferenze perché aveva già le sue.

    Oristano, 10 maggio 1940

    Giuseppe caro, eccomi finalmente a casa. Sono stata accolta dai miei familiari con grande amorevolezza. Meno male che c’è lo spazio, altrimenti dove sarei potuta andare? Preferisco non pensarci. Il viaggio di ritorno è stato molto travagliato, non solo per l’affollamento della cabina ma soprattutto perché portavamo con noi il pesante bagaglio della sofferenza interiore e della lontananza dai nostri mariti. Ci aspettano, è inutile negarlo, tempi brutti in cui dovremo tirar fuori tutte le nostre forze e chissà, forse, inventarcene delle altre.

    Tutti i bimbi piangevano e hanno avuto disturbi intestinali con le conseguenze che puoi ben immaginare. Sporcizia, brutti odori e scarsa igiene ci hanno accompagnato in quei nove giorni di navigazione. Io e Adele abbiamo avuto febbre alta col costante timore di non poter accudire i figli.

    Ti prometto che cercherò di reagire e spero di avere presto tue notizie. Appena mi sarò ristabilita conto di andare a trovare i tuoi. Ho saputo da Pasqualina che vostro padre non sta bene. Qui ti salutano tutti e io con il nostro piccolo, ti mando abbracci affettuosi e cari baci. Tua Ada.

    Mi giunse la sua breve risposta diversi giorni dopo

    Asba Littoria, 20 maggio 1940

    Ada cara, non posso negarti che mi mancate. La casa è vuota e sembra anch’essa rattristarsi per la vostra assenza. I servizi del nostro piccolo aiutante Abu sono sporadici. Viene per lo più quando mi trovo in ufficio e dà una riordinata all’interno e al piccolo cortile, evitando che le erbacce lo riempiano.

    Certo non è come quando c’eri tu.

    Non ci sono novità per la mia eventuale licenza: sembra che stiano aspettando la conferma dai carabinieri di Cagliari. Sto perdendo le speranze e temo l’arrivo di brutte notizie da casa. Sono molto preoccupato per la salute del babbo. Pasqualina mi ha informato del suo peggioramento. E tu, aggiungi nella tua, di non avere buone nuove. Se penso a ciò che ha patito mi rattristo profondamente e lo sono ancora di più per la distanza che ci separa. Vorrei tanto rivederlo prima che possa capitare qualcosa di irrimediabile. Tu che sei lì non abbandonarli. Sono anch’essi la tua famiglia.

    Al lavoro sentiamo nell’aria una strana agitazione che non ci lascia tranquilli e sulla quale non abbiamo notizie certe. Solo voci di corridoio che non sto a dirti. Ti terrò informata nelle mie prossime lettere.

    Abbracci a te e al piccolo Marco.

    Andai a Cagliari qualche giorno dopo la lettera di mio marito.

    Mio suocero ci aveva lasciato a causa della terribile malattia che lo aveva costretto a letto per sette mesi. Speravo di poterlo salutare ed ero sicura che anche lui lo desiderasse. Era molto affezionato a me e io a lui. Avrebbe voluto sentire notizie fresche dall’Africa e magari conoscere il nipotino. Potevo ormai solo immaginare i suoi ultimi pensieri, rivolti a quel figlio lontano, fiducioso che si sarebbe preso cura della mamma e dei fratelli più piccoli.

    I tempi, duri per tutti, non ci impedivano di mettere in pratica gli insegnamenti ricevuti, dando prova di affetto e generosità, verso i nostri cari per tenere unita la famiglia di fronte a qualsiasi circostanza.

    Il quindici maggio si celebrò in Cattedrale il suo funerale e alla partenza mi impegnai a ritornare presto per presentare alla nonna e agli zii, il piccolo Marco.

    Col cuore stretto informai mio marito. Non potevo risparmiargli quel dolore ma provai a sforzarmi di mentire un poco.

    Di certo non ci avrebbe creduto. Anche sulla madre tentai di edulcorare la verità:

    Sembra che non si sia accorto, che non abbia sofferto. Mi hanno detto che dormiva quasi tutto il giorno.

    Povera donna è angosciata, come tu puoi ben immaginare, ma sta reagendo soprattutto per i figli. Stai tranquillo non le farò mancare il mio affetto e, per quanto possibile, la mia vicinanza e un sostegno economico come tu desideri. I tuoi fratelli sono sempre con lei e sono sereni.

    La sua risposta mi tranquillizzò e avrei senz’altro fatto ciò che mio marito chiedeva.

    Asba Littoria, 30 maggio 1940

    Cara Ada, temevo questa notizia e mi rincresce non aver potuto ottenere la licenza. Sto molto male e sono addolorato ma ci sono cose che non possiamo evitare. Spero che il mio povero babbo stia meglio lassù di come è stato sulla Terra.

    Ho tanta nostalgia della mia famiglia e in questo frangente la lontananza amplifica i dispiaceri e i problemi che si presenteranno.

    Ora avrò delle responsabilità maggiori nei confronti di chi è rimasto e da quaggiù sarà molto più difficile. Prego te, cara Ada di sostituirmi per quello che ti sarà possibile. Stai vicino ai miei cari, portagli sempre un po’ di me e tutto il conforto di cui hanno bisogno. Dì pure loro che non mancherà da parte mia e nostra, neppure il sostegno materiale. Un caro saluto anche ai tuoi genitori. A te e Marco mille baci.

    Giuseppe

    Mi domandavo quale fosse stata la reazione laggiù all’annuncio della guerra. Ormai sicuramente sapevano.

    Un’altra lettera mi dava nuove informazioni.

    Asba Littoria, 12 giugno 1940

    Ada mia, in questi giorni ho dovuto lavorare ininterrottamente. Avrai sentito le notizie degli eventi che si succederanno.

    Dal tre giugno sono impegnato giorno e notte senza un’ora di tranquillità.

    Abbiamo avuto la visita improvvisa del Governatore del distretto di Harar e non sto a dirti quale concitazione. Domenica quattro sono partito per Dire Daua a ritirare armi e munizioni. Sono stato lì fino al martedì e mi sono rimesso in viaggio il mercoledì.

    Durante il ritorno per un guasto al camion, ho stazionato per tre giorni nella boscaglia senza mangiare, con pochissima acqua nella borraccia e quasi non dormire.

    Ho riparato il danno alla bell’e meglio con i pochi attrezzi che avevo e col timore costante di essere visto e, chissà, forse catturato dagli abitanti del luogo, che ci vedono ormai come nemici.

    Ti parrà strano che in questa terribile situazione, nonostante l’incertezza in cui mi trovavo, abbia da raccontarti qualcosa di straordinario che mai potrò dimenticare.

    La prima mattina alle luci dell’aurora meravigliosa che tu ben conosci, una testuggine gigante in mezzo alla strada sterrata mi guardava strano. Col suo carico perenne sul dorso, sembrava fissarmi per capire cosa fosse quell’arnese collocato lungo il suo tragitto. Dopo alcuni secondi con atteggiamento arrendevole, si è allontanata con la calma e la rassegnazione che contraddistingue queste antiche creature, simbolo di pazienza e saggezza. Nelle ore notturne gli ululati di iene e sciacalli mi mettevano i brividi come quando andavamo insieme a passeggiare con i nostri amici lungo il fiume. Allora però le belve stavano al di là delle acque mentre adesso potevano essere vicinissime e dunque stavo bene attento a non uscire dalla macchina. Una sera mentre cercavo invano di dormire, ho visto con la sola luce della luna piena, un barbagianni posarsi sul cofano. Aveva qualcosa nel becco che pareva un piccolo roditore. Accortosi di essere visto ha spiccato il volo per tornare alla sua tana, un grande buco nel tronco di un albero, dove probabilmente avrebbe nutrito i suoi piccoli.

    Che stupore! La natura ci riserva sempre grandi sorprese che bisogna apprezzare anche nelle circostanze più inaspettate. Sono rientrato alla base venerdì sera in condizioni disperate: stanco, affamato e assetato, sporco d’olio da capo a piedi. Siamo stati avvisati della visita del Governatore Generale Nasi per il giorno dopo e subito ci hanno rimesso a lavorare senza sosta.

    Abbiamo compreso il motivo di tanta fretta solo dopo il discorso del Duce alla radio. È un momento difficile per tutti e tutti desideriamo dare il nostro contributo con l’intimo desiderio di raggiungere la pace senza gli immani sacrifici che queste situazioni spesso comportano. Non so portarti conforto in questo momento ma spero di poterti scrivere presto.

    Ora non so come sarà. Mille baci a te e al pupo.

    Tuo Giuseppe

    Tutto iniziò con la partenza delle truppe italiane nella zona delle Alpi francesi.

    Cominciò la mobilitazione dei giovani e dei meno giovani dai diciannove ai quarantadue anni e oltre. Le città e i paesi vennero privati dei capi famiglia.

    Mariti, padri, figli e fratelli: tutti andarono in guerra. Chi per dovere militare, chi per scelta patriottica.

    Anche volontari al di sotto dell’età consentita, convinti di salvare la Patria dal nemico, scapparono di casa falsificando i dati anagrafici.

    Si sentivano già degli eroi.

    Venimmo a conoscenza di alcune situazioni in cui tre, o addirittura quattro membri della stessa famiglia, erano stati arruolati.

    Mio padre, piuttosto riservato sulle questioni militari, quella volta ci raccontò di una madre che era stata molto male per aver scoperto che il più piccolo dei figli, aveva dichiarato un’età maggiore di quella reale, per poter partire. Si vociferava pure che il Duce in persona si fosse congratulato con lui, ma non poteva accontentarlo.

    Le donne diventarono il pilastro della famiglia e della nazione.

    Mutilate negli affetti più cari e nel sostentamento materiale, si rimboccarono le maniche e tolsero fuori tutta la loro rabbia. Compresero il peso e la responsabilità di vedere oltre il momento drammatico.

    2

    Avevo il vuoto dentro eppure sentivo il dovere di sostenere chi mi stava vicino, setacciando il meglio di me stessa senza trascinarlo nel vortice degli affanni.

    Il bambino e gli anziani genitori assorbivano tutte le energie.

    Anche gli obblighi verso la madre e i fratelli di Giuseppe impegnavano la mente. Mi raccomandava spesso di non abbandonarli.

    Rammenta sempre a Pasqualina, Umberto, Annino e Benita che devono studiare in maniera che siano tutti promossi.

    Questo scriveva in una delle prime missive dopo la morte del padre. Stava in pena soprattutto per le femmine di casa: le vedeva inermi e sole e comprendeva la pesante situazione che Annino e Umberto, poco più che adolescenti, avrebbero dovuto sostenere.

    La più grande, Cristina, era già via. Si trovava in Liguria con la sua nuova famiglia.

    Per Benita, di soli otto anni, nutrivo un affetto materno.

    Con Pasqualina ci siamo tenute compagnia come due sorelle con gli stessi problemi e le stesse angosce.

    Il dolore rafforza i sentimenti e con lei ho portato il peso della lontananza di Giuseppe e negli anni a venire abbiamo diviso e condiviso preoccupazioni, gioie e confidenze.

    La nostra parentela è rimasta salda, con la soddisfazione di vedere crescere insieme i figli che sono arrivati e, quando è stato necessario, abbiamo voluto superare le difficoltà che si sono presentate, mettendo da parte orgoglio e alterigia.

    E abbiamo avuto un buon raccolto da una buona semina.

    La notte, lunga e interminabile, restituivo libertà ai miei ricordi.

    Marco, nella culla, io nel grande letto, sola e triste, molto triste.

    Ritornavo agli anni giovanili, quando regnavano leggerezza e spensieratezza.

    A casa delle cugine Cossa era consuetudine riunirsi per una partita a carte o una festa danzante.

    Erano sempre presenti anche i genitori che, col pretesto di passare un paio d’ore in compagnia, controllavano i movimenti e le amicizie delle figlie.

    Non vedevo quelli dei ragazzi e col tempo ne ho afferrato le motivazioni.

    Giuseppe era conteso da un paio di giovani donne ma sembrava non farci caso. Lo guardavo di sottecchi e lui, quasi sfidandomi, osava sorridere e mi invitava al ballo avendo ben notato la maestria dei miei passi. Anche lui se la cavava bene e questo favorì, da subito, una sorta di maliziosa complicità.

    Negli anni trenta si affacciavano nuovi ritmi che arrivavano da oltreoceano conquistando il favore del pubblico che per la prima volta poteva scegliere fra diversi stili musicali. In Italia si diffusero ben presto canzoni che imitavano il jazz e lo swing e i gusti cominciarono a cambiare.

    Per tutti i giovani fu facile la scelta: ci scatenammo nei movimenti sulle melodie orecchiabili di Bombolo e Quel motivetto che mi piace tanto, che consentirono alle sorelle del trio Lescano, soprannominate reginette dello swing, di rimanere in auge fino agli anni quaranta. Alla radio ascoltavamo l’orchestra di Pippo Barzizza che suonava arrangiamenti più moderni e tutti cantavamo sulle note di Pinguino innamorato e Ba ba baciami piccina a un volume non troppo alto per non innervosire i genitori.

    Il regime fascista assecondava malvolentieri queste novità considerandole troppo americane. Tuttavia chiudeva un occhio imponendone la traduzione italiana nei titoli e nei testi originali.

    Le canzoni d’amore classiche non scomparvero del tutto.

    Parlami d’amore Mariù di Vittorio De Sica, colonna sonora del film Gli uomini che mascalzoni e Non ti scordar di me di Beniamino Gigli, accompagnavano i nostri balli con i dischi 78 giri nel grammofono ed erano complici piacevoli dei nostri sentimenti e innamoramenti.

    La presenza di mio padre non intimidiva Giuseppe, che, anzi se l’era fatto amico con chiacchiere e partite a carte. L’anziano forse aveva compreso e volle mangiare la foglia perché, lo seppi solo più tardi, quel giovanotto gli piaceva.

    Naturalmente prima di concedergli la mia mano, lo fece penare e aspettare quanto lui, e solo lui, ritenne necessario.

    Correva l’anno 1933: Giuseppe aveva 19 anni, io 22.

    La luce del mattino mi riportava alla cruda realtà.

    Le faccende domestiche, il bambino e qualche lavoretto di sartoria, impegnavano la mente, allontanandomi dalla cupezza e concedendomi di andare avanti. Mi rincuorava la presenza di mia madre sempre attenta alle esigenze di tutti, in primo luogo del piccolo Marco.

    Le mie sorelle avevano riguardo per quel profondo patimento che in alcuni momenti mi annichiliva. Evitavano domande inutili ma non potevo piangere né mostrarmi turbata perché rompevo gli equilibri in apparenza raggiunti.

    D’altronde come non capirle. Bisognava pur sopravvivere e le continue lagnanze non portavano certo serenità.

    Mia madre ripeteva sempre che i ricordi sono una gran compagnia, fin quando non diventano lamenti.

    Era il suo modo di sostenermi.

    Quando arrivavano lettere di Giuseppe mi trattenevo qualche minuto prima di aprirle. Le rigiravo fra le dita e tremavo.

    Non so bene perché ma, ogni volta, paventavo oscuri presagi. Ripensavo alla prima, che aveva impiegato tredici giorni ad arrivare, in risposta alla mia comunicazione del rientro a casa.

    Non potevo sapere che mi sarei dovuta abituare a ben altri ritardi postali e ad altri tipi di comunicazione.

    Quella prima volta ebbi la gioia di constatare che era vivo. Tutto il resto passò in secondo piano. Lui era lì, a distanze lontanissime, ma vivo.

    E avremmo potuto riprendere a raccontarci e a riunirci almeno idealmente.

    La corrispondenza aerea impiegava intere settimane prima di giungere a destinazione a causa dei tragitti molto lunghi, passando per città come Istanbul, Sofia o Gerusalemme.

    Dopo l’inizio della guerra scriveva:

    Asba Littoria, 21 giugno 1940

    […] Asba Littoria è ancora calma. Solo a Dire Daua, come saputo dai comunicati, hanno di tanto in tanto qualche allarme… Ci hanno fornito altri alloggi. Per una maggiore sicurezza siamo stati sistemati in una zona adiacente ai presidi militari. L’addio alla nostra casetta è stato straziante. Ho fatto proprio come te, quando sei partita il mese scorso: il giro di tutto il piccolo perimetro dentro e fuori nel giardinetto. Ho posato lo sguardo sulle cose che non potevo portarmi via, lasciando invece tutto il mio dolore dove abbiamo visto tanto amore.

    Ho preparato una valigia con gli indumenti indispensabili chiudendo poi velocemente l’uscio senza girarmi quando mi sono allontanato.

    Ora non passo più lì vicino. Non sopporto quel magone e quella struggente nostalgia.

    Un mese dopo

    Asba Littoria, 20 luglio1940

    Ada mia, è troppo che non ho notizie e sono abbattuto per questo interminabile silenzio. Lascio pensare a te quanto mi passa per la testa, sapendo dai bollettini radio, quel che capita in Sardegna! Sono ancora ad Asba Littoria e se dovessi spostarmi ti informerò telegraficamente. Per adesso siamo tutti ancora al nostro posto di lavoro. Non so altro.

    Baci teneri a te e a Marco

    Si manifestava chiaramente in quel breve scritto la sua ansia.

    Forse era venuto a conoscenza dei primi bombardamenti su Cagliari del 16 giugno quando nel pomeriggio, una squadriglia di velivoli francesi seminò il terrore. Eppure, era solo l’inizio.

    Giuseppe non capiva che non potevo scrivere tutti i giorni come avrebbe voluto. Non ne avevo la possibilità e qualche volta, neanche la voglia. Il cattivo umore condizionava fortemente le mie giornate e sarebbe stato inevitabile trasferirlo negli scritti.

    Si creavano quindi incomprensioni causate dalla distanza e dalla notevole difficoltà di comunicazione. Aveva bisogno di continue rassicurazioni. Un desiderio del tutto legittimo, ma non facilmente realizzabile. Più di una volta mi ripeté che, in qualità di capofamiglia, aveva mantenuto il diritto alla informazione su tutti gli avvenimenti che ci riguardavano, nel bene e nel male. Temeva che nascondessimo le brutte notizie per non farlo preoccupare, estraniandolo dalla gestione di episodi importanti.

    Credeva di poter risolvere anche da laggiù i problemi che qui si presentavano.

    Poteva accadere dunque che i tempi di attesa si allungassero, mortificando ancor più quegli interminabili intervalli.

    Era davvero difficile simulare forza davanti a tutti.

    Chiedeva ripetutamente di rientrare in Italia ma gli veniva risposto che era più utile la permanenza lì, al suo posto.

    Nutriva il duplice desiderio di riabbracciare la famiglia e di servire lo Stato da buon cittadino.

    Due ambizioni fra loro inconciliabili.

    3

    Arrivò il compleanno di Marco: il primo di tanti senza il suo babbo.

    E per Giuseppe, il primo di tanti, senza il suo adorato figliolo.

    Non ci furono festeggiamenti.

    Era un piacere vederlo crescere giorno per giorno: i dentini che spuntavano, i capelli che si allungavano, le prime pappe dopo l’allattamento, l’inizio di un linguaggio disarticolato e poi, la parola mamma.

    Ho provato tante emozioni nella mia esistenza: dispiacere e gioia, tristezza e allegria, solitudine e compagnia, ma il sentimento che rimane impresso nel cuore per sempre è l’amore per un figlio.

    Un legame indissolubile qualsiasi cosa succeda.

    Una relazione profonda che si stabilisce nel momento esatto in cui senti di averlo nel ventre e che si rafforza ogni giorno con continue conferme, soprattutto quando lui ha la percezione di te e ne riconosce l’appartenenza.

    Nelle lettere raccontavo a Giuseppe la quotidianità del bambino, enfatizzando talvolta le sue piccole conquiste e i primi capricci, facendo attenzione a non dimenticare i particolari.

    Lui provava contentezza e non si saziava mai di notizie ma sapeva di non esserci.

    Un mese prima del compleanno del piccolo così scriveva:

    Asba Littoria, 14 agosto 1940

    Ada mia, ferragosto 1940. Quanta malinconia! Oggi è stata una delle giornate più bigie. Mi porto dentro la nostalgia dello scorso ferragosto quando tu eri qui e attendevamo il nostro pupo. Sono solo e col morale tanto scosso.

    Marco ha quasi un anno. Io l’ho lasciato piccino ma chissà quanto è cresciuto. Non avevo mai meditato a fondo quale e quanta fosse la gioia di essere padre.

    Comincio a credere che pure deve esistere un destino che mi ha voluto negare anche questo.

    La lettera successiva:

    Asba Littoria, 3 settembre 1940

    […] Sono felice di quanto dici del nostro pupo. Fra cinque giorni avrà un anno e io non ho la gioia di essere con voi. Vi sarò ugualmente vicino col cuore e ripenserò con tanta mestizia all’otto settembre 1939, alla nostra felicità dopo la sua nascita e ai pochi intensi attimi di profondo appagamento per essere diventato padre.

    Ricordami a tutti per quel giorno e soprattutto a lui. Raccontagli del padre lontano che tanto gli vuole bene e che gli è sempre vicino col cuore. Parla con lui di questa lontananza anche se è piccino. Quando sarà grandetto gli sarà più facile comprendere. Tienilo stretto per me con un abbraccio. Se puoi, inviami qualche sua foto. Io te ne manderei di mie ma qui mancano fotografi e pellicole…

    Leggendo quelle righe la mente ritornava all’Africa, ai bellissimi giorni passati laggiù, seppure con l’ansia e il timore di partorire lontana da casa dove, invece, avrei avuto vicini tutti i miei affetti.

    Quando Giuseppe andò a chiamare medico e ostetrica, un po’ nervoso e concitato, mi lasciò con i miei pensieri.

    Si voltò sull’uscio e, prima di accostarlo, mi rivolse un sorriso celando il timore, e sussurrò:

    Torno subito, stai calma, affidandomi alle inevitabili paure.

    Tuttavia mi volevo convincere che avrei rifatto esattamente le stesse scelte.

    Ora, in quella nuova condizione di lontananza da lui, con la guerra in corso, si affacciavano i dubbi.

    Tornando indietro avrei mantenuto davvero le stesse certezze? Difficile la risposta.

    Conservai per sempre il dilemma.

    Il tempo procedeva inesorabile e Marco cresceva, partecipando alla vita di tutti noi. Colmava le nostre giornate di sorrisi, sguardi, piccoli capricci e compagnia. Le zie, tutte, lo coccolavano. A me piaceva leggergli fiabe e racconti mischiando spesso realtà e fantasia.

    Si trattava di uno stratagemma con cui narravo di eroi e guerrieri lontani, paragonandoli al babbo, andati a combattere per la pace nel mondo, offeso e ferito da lotte e ingiustizie.

    Era veramente piccolo per afferrare il significato delle parole ma quando arrivò alla giusta età della comprensione, si inorgoglì per avere un padre così valoroso.

    Solo molto più tardi comprese che i valori erano altri.

    L’anno terminò senza intoppi particolari.

    Le vicende nazionali e internazionali ci turbavano, facendoci vivere perennemente in attesa di eventi nefasti.

    In ottobre ci fu l’invasione della Grecia da parte italiana.

    Le forze militari erano male equipaggiate e solo nel successivo aprile del 1941, quando la Germania intervenne in aiuto, si ebbe una stabilizzazione al fronte. Nel mese di giugno, al termine del conflitto, il territorio greco venne suddiviso tra le forze vincitrici e all’Italia vennero annesse le isole dello Jonio, le Cicladi e le Sporadi meridionali del Mar Egeo. Dunque la supremazia italiana continuava a estendersi.

    Tutta l’Europa era un campo di battaglia e non solo.

    In nord Africa tra giugno e dicembre, una serie di battaglie si svolse con esiti altalenanti fra i combattenti.

    Dopo alcuni bombardamenti su Alessandria d’Egitto, le forze italiane ebbero la meglio su quelle britanniche occupando la località di Sidi el Barrani che tuttavia cadde in mano nemica verso la fine dell’anno.

    Seguivo gli avvenimenti alla radio quanto più possibile ma non sempre le notizie erano esaustive.

    La mia trepidazione cresceva perché capivo che Giuseppe non poteva essere esplicito nei suoi scritti. Sospettavo che nascondesse la verità per evitarmi inutili preoccupazioni.

    In famiglia aleggiava un’aria di simulata serenità per la nostra sopravvivenza interiore. Credevamo così di esorcizzare la brutta situazione che stavamo vivendo.

    A ripensarci oggi, mi chiedo come potevamo essere così ingenui!

    La notte ritornava e mi lasciavo trasportare dolcemente nei bei tempi andati…

    Gli incontri ravvicinati avvenivano sempre in casa di mia cugina Ezechiela sotto lo sguardo attento e vigile dei miei genitori. Soprattutto di mio padre, maresciallo dell’esercito, che imponeva in famiglia le stesse regole impartite ai suoi sottoposti.

    Gli appuntamenti alla finestra, invece, avevano il sapore del proibito e forse per questo erano più romantici.

    Terminato il lavoro, Giuseppe passava e ripassava in bicicletta sotto la mia finestra gettando, ogni volta, una occhiata furtiva verso le persiane semichiuse dietro le quali spiavo il suo percorso.

    Finalmente mi affacciavo e gli sguardi audaci si intrecciavano.

    Solo mia madre sapeva, ma l’ora d’aria mi veniva concessa in presenza di almeno due delle sorelle minori, che si nascondevano agli occhi del corteggiatore, accovacciate ai miei piedi.

    Mercedes, Settimia e Umbertina erano a turno le vittime prescelte, che con fraterna pazienza e comprensione, mi accompagnavano in quel dolce momento.

    Divennero poi maliziose complici quando lui trovò il coraggio e si avvicinò…

    Prendendo con molta serietà l’impegno affidato loro dalla mamma, ricordo con quanto sacrificio si obbligavano a non ridere e soprattutto a rimanere in religioso silenzio.

    Convinto della nostra intimità, Giuseppe si lanciava in teneri sorrisi, andando su e giù per la strada col nuovo veicolo a due ruote che ostentava con orgoglio mostrando così anche le sue risorse economiche.

    La retribuzione di dattilografo all’Ufficio Esattoriale era di circa 300 lire e aveva dovuto risparmiare parecchio per l’acquisto della bicicletta Bianchi, modello lusso, che costava l’equivalente di due stipendi e mezzo.

    Tutto il quartiere sapeva di quella nostra abitudine ma si guardava bene dal dirlo al severo genitore.

    Le signorine che uscivano sole o davano confidenza ai giovanotti, venivano severamente punite dalle critiche della gente e recluse in casa per intere settimane.

    Le amiche conoscevano la mia esitazione nei confronti di questo ragazzo più giovane di me, ma a loro Giuseppe piaceva e mi incoraggiavano ad accettarne la corte. Inoltre era considerato un buon partito e l’età non poteva ritenersi un ostacolo.

    I risvegli del bambino talvolta spezzavano quel breve incantesimo notturno. Non era facile ritrovarlo poi, neanche quando Marco riconquistava il suo tenero sonno. Era proprio allora che sentivo lo sconforto e potevo piangere senza essere vista né udita.

    Sembrava che mi fosse interdetto qualsiasi sfogo durante la giornata.

    I miei cari non volevano vedermi soffrire.

    Come se le lacrime fossero l’unica manifestazione di profondo dolore.

    Pian piano la notte scivolava e per qualche ora riuscivo a dormire.

    L’ultima lettera del 1940, datata 21-12, riportava, oltre le lamentele sullo stato di salute, scarne notizie sulla precaria condizione laggiù. Erano evidenti le cancellature a inchiostro di china operate forse dalla censura italiana di cui mio padre aveva accennato.

    È probabile che di questi tempi non si possano usare riferimenti politici e lamentele in tal senso. Siate perciò prudenti.

    Cosa intendeva? Forse sapeva più di ciò che mi aveva rivelato ma in quel caso, la mia insistenza non avrebbe portato altri chiarimenti.

    A pensarci bene non era la prima volta che comparivano interventi estranei nelle lettere, ma mai in modo così marcato e pesante da eliminare addirittura intere frasi.

    Di quella missiva non si capiva granché e per prudenza, nella mia risposta non ne feci menzione. Adesso però la novità mi metteva in allerta e il mio intuito suggeriva che non era niente di buono.

    Le attese si sarebbero allungate e con esse, le preoccupazioni.

    Avevo però una certezza: si trovava ancora ad Asba Littoria nel suo posto di lavoro.

    Di lì a qualche giorno arrivò il Santo Natale, uno dei peggiori della mia vita. Non tralasciammo le celebrazioni religiose che confortavano almeno lo spirito, ma non ci fu spazio per altri festeggiamenti.

    L’unico diversivo furono le visite dei parenti stretti e delle comari con cui scambiammo le ultime notizie dei cari lontani.

    Nessuno aveva voglia degli auguri convenzionali.

    Era così per tutti.

    1941

    1

    La guerra cambiò le consuetudini quotidiane costringendoci a una maggior cautela.

    La paura, diventata un’ombra fedele, dormiva con noi.

    La respiravamo ovunque, la incontravamo negli occhi di tutti e vani erano i tentativi di allontanarne la presenza.

    Le brutte notizie arrivavano e se accompagnate dalla morte, nei cuori di ciascuno si celava la segreta speranza di non esserne direttamente coinvolti.

    Magra consolazione perché sapevamo che quella maledetta ruota girava e che prima o poi avrebbe colpito ancora.

    Tante volte sentivamo lo scoraggiamento che procurava piaghe profonde ma non volevamo rinunciare al desiderio di tempi migliori.

    La tragedia prima o poi sarebbe finita. Avremmo ricominciato a vivere e a ricomporre la nostra esistenza. Ci sembrava semplice pensarlo.

    Certo non potevamo presagire il terrore che ci avrebbe fatto compagnia per molto ancora.

    L’anno iniziò con l’invasione dell’Eritrea da parte delle truppe britanniche. Tra febbraio e aprile gli inglesi occuparono Mogadiscio a sud e Asmara a nord dell’Africa Orientale Italiana.

    Nel mese di maggio l’imperatore Hailé Selassié rientrò ad Addis Abeba ormai liberata dallo straniero e il 18 dello stesso mese anche l’Amba Alagi fu teatro di scontro, per la seconda volta dal 1895, fra italiani e britannici con la vittoria di questi ultimi.

    Non conoscevamo la puntualità delle notizie e tantomeno eravamo al corrente degli eventi militari e politici che si sviluppavano nei vari territori di combattimento.

    Solo tanti anni dopo venni a conoscenza delle vicende che Giuseppe attraversava nei mesi di quel primo anno che ci vedeva lontani.

    Seppi delle umiliazioni subìte, dei pericoli, delle preoccupazioni per sé e per la famiglia e del girovagare in diversi luoghi prima di essere fatto prigioniero.

    Quando si fermò in un campo di concentramento inglese, gli venne data l’opportunità di scrivere e lui nel suo diario, iniziò a raccontare.

    Al rientro a casa, nei pochi bagagli era custodito tutto il suo trascorso e il dolore profondo che lo accompagnava.

    Aveva avuto bisogno di tempo prima di aprire le valigie e il lucchetto delle ferite.

    L’esistenza delle persone comuni trascorreva in maniera quasi normale. C’era la guerra e ne sentivamo parlare ma si cercava di vivere alla giornata per far fronte un po’ alla volta, a tutto quel disastro.

    Le massaie continuavano i loro lavori domestici e l’educazione dei figli; i bambini andavano a scuola e nel pomeriggio eseguivano i compiti; i negozi vendevano le loro poche merci; molte donne si recavano al lavoro; gli uffici erano aperti.

    La vita, insomma, continuava seppure con la morte nel cuore.

    A giugno ebbi le prime notizie di Giuseppe. Un breve messaggio della Croce Rossa, alla radio, mi informava che stava bene e che si trovava ancora nel distretto di Harar. Poi nient’altro.

    Qualcuno commentò che dovevo ritenermi fortunata perché diverse donne nella mia stessa condizione, non sapevano neppure se il loro congiunto fosse vivo.

    Chissà se aveva ragione ma quel dolore, quella distanza e quelle scarne informazioni, mi ferivano profondamente e non riuscivo a sentirmi egoista.

    Non facevo vita sociale. Le uscite erano limitate alle poche passeggiate con Marco nella sua carrozzina e all’ascolto quasi quotidiano della Messa dai frati di San Martino.

    Il bambino, a poco più di un anno, aveva bisogno di una mamma che lo accudisse con amore e un po’ di sorrisi. L’amore c’era ma per il sorriso facevo davvero fatica.

    Un grosso fermaglio nel cuore bloccava tutte le mie energie positive.

    Mi convincevo che lui, così piccino, non ci badasse. Oggi però so che i bimbi sono come spugne: assorbono sensazioni e le depositano nel ripostiglio della memoria. I fatti poi riaffiorano e la mente li rielabora secondo meccanismi che ancora non conosciamo e forse mai l’uomo riuscirà pienamente a decifrare.

    Marco comunque era circondato da tante zie, un po’ mamme, un po’ compagne di giochi. Se cucivo o andavo in chiesa, le mie sorelle lo distraevano fino al mio ritorno quando i suoi occhioni e le manine, mi cercavano con ansia, come per avere conferma delle sue certezze.

    Chissà, pensavo, se teme di essere abbandonato anche da me.

    Nell’abitazione dei miei genitori avevo riservato un piccolo spazio dove sistemare la macchina da cucire SINGER a pedale, un vecchio tavolo per tagliare i modelli e un manichino per le prove, acquistato per poche lire da una vecchia sarta che aveva smesso l’attività.

    Il lavoro era necessario per motivi economici, ma dava anche l’opportunità di scambiare piacevolmente quattro chiacchiere con amiche e clienti.

    Con alcune di loro avevo condiviso l’esperienza appena terminata in Africa dove, come sognatrici, cullavamo la speranza in un futuro più promettente, sorseggiando thè e karkadè in attesa del ritorno dei mariti dal lavoro.

    Ci sentivamo orgogliose quando davanti agli specchi misuravamo la nostra vanità, provando e riprovando i vestiti, per gustare poi i complimenti dei nostri uomini.

    La vita non ci aveva mostrato ancora il suo lato peggiore.

    Adesso nelle nostre case, le prove dei tessuti che cucivo, creavano l’opportunità di condividere notizie sui coniugi lontani e sull’andamento di una guerra che appariva quasi sfocata.

    Poco si riusciva a sapere, perché la censura si metteva d’impegno decidendo per noi quali informazioni erano considerate degne di attenzione.

    Negli incontri un po’ si sorrideva, menzionando i tempi andati e incoraggiandoci a vicenda ad affrontare quelli presenti con la caparbietà di chi non vuole lasciarsi piegare dagli eventi sfavorevoli. Facevamo ancora gruppo.

    Come in Africa, quando subivamo i rimbrotti per le escursioni proibite al mercato locale, preferendolo al nostro emporio. Gli acquisti di meraviglioso artigianato alimentavano la perenne convinzione che tutto potesse, prima o poi, esserci utile.

    La verità si nascondeva nel desiderio e nella curiosità di stabilire un contatto più intimo con i nativi che sembravano molto distanti da noi per usi e costumi.

    Ci piaceva lo sguardo delle donne abissine, belle e fiere della loro condizione. Incrociando i loro occhi si leggeva la rassegnazione verso antiche sofferenze, portate con grande dignità e senza rancore verso chi il destino l’aveva conosciuto più clemente. Il dialogo silenzioso e l’istintiva affinità, ci legava tutte, a dispetto di quelle barriere invisibili che avrebbero voluto dividerci.

    Ora, rientrate quasi tutte nella vecchia dimora genitoriale, noi, con la nostalgia di quei luoghi magici e inafferrabili, ci eravamo portate dentro un po’ di quella umanità, apparentemente selvaggia ma ricca di un’atavica semplicità da sembrare quasi un monito alle nostre certezze.

    Chi aveva preso la piacevole abitudine di frequentare queste riunioni, approfittando delle mie conoscenze con ago e filo, era Settimia, una delle mie sorelle. Con pazienza e passione si fece insegnare le basi del mestiere specializzandosi con notevole bravura, nella preparazione dei cappelli, che lei considerava quasi un’arte, andando spesso a completare e arricchire, i capi da me confezionati.

    Desideravo rendermi utile e trascorrere con lei delle ore preziose rafforzando legami e confidenze.

    Era difficile per tutti ma le giovani ragazze non avevano opportunità di una vita spensierata come avrebbero voluto.

    Il mio contributo, fra le altre cose, calmava le ansie di nostro padre che, con tante figlie femmine da maritare, non sapeva come contrastare i corteggiamenti dei pochi giovani maschi rimasti.

    Il fatto che Settimia avesse trovato occupazione era per lui motivo di orgoglio e di ritrovata serenità. Lei non era molto d’accordo ma si doveva adattare.

    Se volevano uscire, le mie sorelle dovevano rassegnarsi alla sua compagnia brontolona, dato che i fratelli non si rendevano disponibili. Enrico frequentava i suoi amici ed era poco incline a quel tipo di favore e Mariano era troppo piccolo.

    Durante le passeggiate non si poteva volgere lo sguardo attorno, né tantomeno considerare i giovanotti che passavano per strada. Mio padre avrebbe voluto mettere i paraocchi alle figlie come si faceva con i cavalli.

    Anche le donne sposate dovevano tenere una condotta irreprensibile.

    Io per prima, dovevo dare il buon esempio e buoni consigli.

    Decisero perciò di rinunciare alla sua disponibilità, preferendo la clausura domestica, dopo aver subìto una

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