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Joe Petrosino. Il mistero del cadavere nel barile
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E-book275 pagine3 ore

Joe Petrosino. Il mistero del cadavere nel barile

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Info su questo ebook

Il romanzo sull’ascesa di cosa nostra per chi ha amato il Padrino

«Il romanzo dell’ascesa di cosa nostra a New York.»

New York, 1903. Un cadavere orribilmente mutilato viene ritrovato all’interno di un barile abbandonato su un marciapiede. I sospetti portano verso la criminalità italiana. È un lavoro per il “Dago”, il sergente Giuseppe “Joe” Petrosino, il più famoso detective della città. L’unico dell’intero dipartimento di polizia di New York che, grazie alle sue origini italiane, è capace di passare inosservato tra i vicoli di Little Italy, capire i dialetti del sud della penisola, interpretare i simboli e le modalità delle prime organizzazioni criminali mafiose, come la temutissima Mano Nera. Un’indagine difficile in cui Petrosino si troverà a fronteggiare non solo gli spietati padrini ma anche i violenti pregiudizi di cui sono vittime gli immigrati italiani. Un romanzo tratto dalla storia vera della nascita della Mafia italo-americana e il coraggio degli uomini che la sfidarono.

La vera storia del terrore della mano nera, il mitico poliziotto italiano che ha sfidato la mafia a New York

Hanno scritto dei suoi libri:
«Una Palermo disincantata ritratta con ironia anche nei suoi lati più sinistri.»
La Lettura

«Toscano coniuga la capacità di delineare i personaggi di quel palcoscenico a cielo aperto che è la vita di paese con un umorismo elegante, capace di comicità anche quando la tragedia incombe.»
Il Foglio

«Una storia ottimamente manovrata e credibile, dove alla mafia si oppone un antieroe nordico dotato di quel fascino pervicace che fa sperare il lettore in un seguito.»
Panorama
Salvo Toscano
È giornalista e autore dei romanzi Ultimo appello, L’enigma Barabba e Sangue del mio sangue. È stato semifinalista al Premio Scerbanenco e finalista al Premio Zocca Giovani. Con la Newton Compton ha pubblicato Insoliti sospetti, Falsa testimonianza, Una famiglia diabolica e L'uomo sbagliato. È stato tradotto nei Paesi di lingua inglese.
LinguaItaliano
Data di uscita14 dic 2018
ISBN9788822728616
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    Anteprima del libro

    Joe Petrosino. Il mistero del cadavere nel barile - Salvo Toscano

    PERSONAGGI PRINCIPALI

    Giuseppe Joe Petrosino, sergente investigativo della Polizia di New York

    Max Schmitberger, ispettore

    George McClusky, capo dell’Investigativa

    Maurice Bonnoil, agente di polizia

    Arthur Carey, sergente investigativo

    Antonio Vachris, sergente investigativo

    Giuseppe Corrao, agente di polizia

    William Flynn, capo dei servizi segreti di New York

    Larry Ritchie, agente dei servizi segreti

    James Corrigan detto Smart Jimmy, senatore

    William McAdoo, assessore capo della Polizia di New York

    Giuseppe don Piddu Morello detto l’Artiglio, capo della Mano Nera di New York

    Don Vito Cascio Ferro, mafioso

    Ignazio Lupo detto the Wolf, socio e cognato di Morello

    Tommaso Petto detto il Bove, scagnozzo dell’Artiglio

    Pietro Inzerillo, pasticciere

    Vito Laduca, macellaio

    Joseph Ferrante, scagnozzo dell’Artiglio

    Giuseppe Di Primo, spacciatore di banconote false

    Salvatore Marchese, ex falsario e informatore dei servizi

    Benedetto Madonia, cognato di Di Primo

    Salvatore Saglimbeni, figliastro di Madonia

    Peter Barlow, giudice

    Francis Garvan, viceprocuratore distrettuale

    Charles Le Barbier, avvocato

    Gustav Scholer, coroner

    Angelo Carbone, immigrato siciliano

    Prologo

    La Signora

    Sul ponte un freddo crudele tormenta una massa di disperati esausti. Si accalcano riparandosi come possono, divisi per nazioni e lingue, che il vento aspro mescola in una babele di preghiere, bestemmie, canti e lacrime.

    «Sicilia’, ci credi nell’America tu?», domanda Pasquale rosicchiando un tozzo di pane duro.

    Nino lo osserva perplesso mentre una folata gelida fa danzare i suoi capelli lunghi e impastati di salsedine e sporcizia. Nel lungo viaggio avrà scambiato non più di quattro parole con quel napoletano con gli occhi verdi felini che adesso si ritrova davanti.

    «Peggio dell’Italia non può essere», risponde spostando altrove lo sguardo.

    «Bell’affare l’Italia», commenta Pasquale, mentre osserva quella selva di pezzenti come lui, sfiniti dalla traversata.

    In sei sono morti dal giorno della partenza dal porto di Le Havre. E poteva pure andar peggio. Il viaggio sulle navi di Lazzaro, come sono chiamati i transatlantici italiani che ogni giorno sbarcano cafoni a centinaia a New York, sembra che sia anche più atroce di questo sul piroscafo francese, La Champagne. Anche qui gli italiani sono tanti. Fanno gruppo sul ponte, dove si staziona il più a lungo possibile per non sentirsi come sorci in trappola nella pancia maleodorante della nave, dove puoi prenderti pure il tifo, ammalarti e crepare sull’oceano, come i sei disgraziati che giacciono freddi nella stiva e che non vedranno mai l’America. E così, i seicento della terza classe stanno sul ponte, indossando a strati tutti i poveri abiti portati da casa, per non farseli rubare da qualche carogna senza scrupoli che si mescola tra i disperati in fuga dalla miseria.

    «E tu ci credi all’America, napoletano?», rompe il silenzio Nino, degnando Pasquale d’uno sguardo beffardo. Ora che lo osserva meglio, nota le rughe della fronte e ai lati della bocca. Deve avere quasi quarant’anni, pensa Nino, che di anni ne ha solo ventidue, tutti vissuti a Carini, vicino a Palermo, senza mettere mai il naso fuori dal paese.

    «Io credo nelle mani mie, guaglio’. Mio padre era operaio, lavorava a Pietrarsa. Lo sai che è Pietrarsa? La più grande fabbrica del Regno. Una cosa enorme, che non poteva finire mai… E quelli, maledetti, l’hanno fatta a pezzi».

    «Quelli chi?»

    «I piemontesi. Per fare arricchire le fabbriche loro, al Nord. Mio padre è finito miez’a na via. La fame, la fame nera. Io ai guaglioni miei questa condanna non gliela voglio dare, sicilia’. Io ci devo credere per forza nell’America. E nella fortuna».

    Nino annuisce solenne. La miseria l’ha conosciuta anche lui. Come quella massa di compagni di avventura che affolla il ponte.

    I tedeschi, alti, chiari e robusti stanno a dritta, parlottano stanchi nella loro lingua spigolosa. Gli slavi, arrivati chissà dopo quali tribolazioni in Francia, fanno gruppo in una parte più interna del ponte, vestiti da contadini, i volti scavati da rughe dolorose e le mani grosse provate dal lavoro. Lì vicino ci sono i francesi, con la loro cantilena che gli emigranti hanno imparato a conoscere già prima di imbarcarsi.

    E poi, i più numerosi, i più rumorosi, i più poveri forse. Sono loro, gli italiani. Saranno più di trecento su questa nave. Una parte viene dal Nord, sono gli ultimi scampoli di un’emigrazione cominciata nei decenni scorsi. Vanno a raggiungere i familiari e gli amici che da un po’ si sono trasferiti negli Stati Uniti. I più, invece, arrivano dal Sud. Fuggono dalla fame e da una povertà che dopo l’Unità è diventata insopportabile. Come Nino, come Pasquale, come tutti gli altri. Hanno in tasca cinque o sei dollari, dieci i più fortunati, e addosso portano tutto ciò che possiedono. Hanno raggiunto il Nord della Francia come hanno potuto, perché da qui il viaggio per l’America costa meno rispetto alla nave che parte da Genova o da Napoli.

    Nino e Pasquale ora tacciono. Si guardano attorno respirando la brezza.

    Un vecchio marchigiano dall’aria dignitosa guarda l’orizzonte e ogni tanto si ferma a ripetere una delle frasi che, scarabocchiata su un pezzo di carta, ha imparato a memoria durante gli otto giorni di traversata.

    «Ianmen, uer chenai bai sam fud, plis?».

    Lo dice tre, quattro volte ancora. Poi torna a tacere e a osservare il mare. Accanto a lui una donna più giovane, avvolta in scialli di lana che le nascondono parte del volto, bisbiglia a bassa voce una litania, le mani giunte, il capo chino. Al suo fianco, altre due donne dai volti scavati dalla fame si fanno il segno della croce a intervalli regolari, seguendo il movimento delle sue labbra. Più in là, un siciliano sui tredici anni, un’ombra di baffi a sporcargli il viso ancora bambino e la coppola storta sul capo, sta seduto per terra, le gambe strette al petto, accanto a lui il povero fagotto con dentro il piccolo mondo di miseria che s’è portato dietro. Suona un marranzano, lo scacciapensieri che lo ha accompagnato per tutto il viaggio. Un napoletano pingue dagli occhi tondi e sporgenti come il suo ventre osserva il ragazzo compiaciuto e trova la forza per cominciare a battere le mani a tempo. Il vecchio impettito non li degna di uno sguardo, sbircia il foglio stropicciato e ripete un’altra delle sue frasi.

    «Ai nide bai santin ciu it, iu uil sciommi bechersciop».

    Gli occhi verde smeraldo di una giovane francese dai capelli corvini in seconda classe rapiscono l’attenzione di un gruppo di siciliani accalcati all’estremità del ponte, dove sferza un’aria gelida. Anche Nino e il napoletano la notano e si scambiano un’occhiata complice d’approvazione.

    La ragazza si sfiora la chioma con la punta delle dita, un gesto minuscolo a cui i giovani partiti da Palermo e dintorni attribuiscono un intenso carico di sensualità, sottolineato da versi espliciti di consenso. E mentre tutti i maschi con la coppola concentrano il loro sguardo sulla francese, uno di loro, uno soltanto, aguzza la vista nella foschia e scorge un punto scuro nel mare.

    Il suo grido scuote tutto il ponte e riscalda i cuori gelidi dei viaggiatori di terza.

    «La Merica! La Merica!».

    È un attimo. Il sogno cullato a lungo prima di imbarcarsi sta prendendo forma in questo giorno d’autunno del Novecentouno. La terra promessa è lì, dapprima solo un puntino. Poi sempre più chiara e nitida assume i contorni di un’isola. E della sua Signora che solleva la fiaccola della libertà e accoglie i pellegrini a Nuova York.

    I friulani si scambiano parole d’entusiasmo nel loro strano dialetto che i meridionali non hanno mai sentito prima. Un paio di napoletani intonano un canto, tutti presi dall’eccitazione. La massa densa dei siciliani è attraversata da un senso di sollievo e di curiosità. Gli uomini si accalcano, le donne si abbandonano a un pianto liberatorio.

    Finché una sagoma si erge tra loro. E la sua apparizione sembra fermare il tempo. I siciliani si scostano per fargli largo, i più tenendo gli occhi bassi, qualcuno piegandosi in una sorta di pudico inchino.

    Nino lo osserva ammutolito. Per tutto il tempo del viaggio ha cercato il coraggio di parlargli, anche solo di incrociare il suo sguardo, senza riuscirci.

    L’uomo è alto e snello, ha una barbetta biondiccia che incornicia un volto severo dove si stagliano due occhi profondi e scuri da demonio. La gente attorno lo guarda con timoroso rispetto e gli fa largo, aprendo un varco tra la calca.

    «Fate passare a don Vito», intima senza alzare troppo la voce un trentenne grosso come un toro a un pugno di contadini che ostacola il cammino dell’uomo con la barba a punta. Il colosso viene da Bisacquino, proprio come l’uomo al cui passaggio gli emigranti si fanno da parte.

    Tutti sanno bene chi è. Anche chi non lo aveva mai sentito nominare prima di imbarcarsi a Le Havre. Come Nino. Hanno imparato a conoscerlo, a rispettarlo, ad abbassare lo sguardo al suo passaggio e, a quanti ne hanno avuto concesso il privilegio, a chiamarlo don nel rivolgersi a lui.

    «Chi è?», domanda Pasquale sottovoce. Una domanda che a Nino pare quasi blasfema. Tutti i siciliani sulla nave hanno sentito narrare le sue gesta in questa settimana, hanno appreso della baronessina rapita, dei prepotenti messi a tacere per sempre, della rivoluzione dei fasci e di quel giorno in cui quel giovane uomo alto e snello era entrato al circolo dei nobili del suo paese in groppa a un asino come il Messia a Gerusalemme, zittendo i notabili che non volevano accoglierlo.

    «Quello è domineddio in persona. O il diavolo, forse», sussurra Nino. E sente le gambe che gli tremano nel dirlo.

    Don Vito Cascio Ferro, con passo lento e solenne, raggiunge la prua de La Champagne. Inspira l’odore della salsedine e scorge i rimorchiatori vicini alla riva. Resta immobile a lungo, osservando compiaciuto New York che si fa sempre più vicina.

    Poi guarda lei, la Signora. Le sette punte della sua corona, la sua fiaccola, la sua veste. È una vista imponente, che toglie il fiato alla folla degli emigranti sul ponte.

    Quando l’isolotto tra Manhattan e Staten Island è ormai così prossimo che sembra che sporgendosi si possa toccare, si scorge un’iscrizione ai piedi della Signora. È troppo lontana per essere letta. E don Vito ad ogni modo non potrebbe comprenderla, perché scritta nella lingua che ancora gli è ignota.

    Se potesse capire quelle parole, don Vito scoprirebbe che la Signora promette ristoro e libertà agli stanchi, ai poveri, alle masse infreddolite. Chiedete riparo e lo riceverete dalla luce della fiaccola, che è la libertà che illumina il mondo, promette la Signora.

    Ma don Vito, sul cui viso adesso è apparso un ghigno diabolico, non è venuto a chiedere nulla.

    Don Vito è venuto per prendersela l’America. Senza chiedere il permesso.

    parte prima. L’uomo nel barile

    1. Il barile

    La caligine avvolgeva ogni cosa. Il fumo e la polvere diventavano tutt’uno con la pioggia e l’acqua fangosa sporcava le strade già lorde e maleodoranti di Manhattan. L’odore marcio dei rifiuti abbandonati sui marciapiedi accompagnava come sempre i passi pesanti di Frances Connors. Armata d’ombrello, camminava spedita verso il forno per comprare del pane. Erano ancora le cinque e mezza del mattino, ma la vita in quel pezzo dell’East Side irlandese confinante con Little Italy era già ripartita. Dai casamenti in cui gli italiani vivevano stipati, a volte condividendo in più persone lo stesso povero letto, si diffondeva l’odore dei peperoni cucinati dalle donne per i mariti, che si preparavano a scendere in strada per andare a guadagnarsi il loro dollaro quotidiano.

    Frances trovò le strade ancora più lerce e abbandonate del solito in quella mattina del 14 aprile 1903. Era un donnone irlandese dai capelli raccolti e i lineamenti duri, spigolosi, quasi maschili. Lavorava come donna delle pulizie e viveva nell’East Side, da prima che il reticolo di strade attorno a Mulberry Street diventasse in pochi anni una colonia di dagoes, come gli americani chiamavano italiani e ispanici. Non piacevano troppo a Frances, come non piacevano a tanti altri irlandesi, tranne che a quelli che con gli italiani non disdegnavano di fare loschi affari. Sbarcavano a frotte a Ellis Island, tutti uguali, piccoli e scuri, e si andavano a stipare come sorci in quei palazzi malconci, affollando le strade con le loro brutte facce da criminali, i loro coltelli e la loro lingua incomprensibile. Gentaglia, pensò Frances sprezzante, osservando con la coda dell’occhio i primi italiani dai baffi a manubrio che intabarrati venivano fuori dagli edifici sbrecciati dell’Undicesima, mischiandosi agli irlandesi che da tempo abitavano quel lato di New York.

    Un barbone cencioso, accovacciato per terra sotto una coperta sbrindellata e abbracciato a una bottiglia di vino quasi vuota, le gridò dietro qualcosa di sconcio. Frances scosse il capo disgustata e accelerò il passo, mentre le sirene dei rimorchiatori ululavano dai docks sull’East River. Nitido arrivava anche l’olezzo delle acque maleodoranti che lambivano le malconce banchine. Da lì a poco si sarebbero affollate di disperati pronti a spaccarsi la schiena per pochi centesimi.

    Un dago minuto e scuro come la pece la incrociò tenendo gli occhi bassi mentre sollevava con le mani callose il bavero per ripararsi alla meglio dal freddo e dalla pioggia. Guinea, li chiamavano certuni, perché sembravano africani. Negri, in sostanza.

    «Buongiorno, signora», disse l’ometto incrociandola, portandosi una mano sulla coppola. Ma Frances era già passata avanti guardandosi bene dal dare confidenza a un tipo del genere.

    Distratta dall’incontro, non notò subito l’ingombrante oggetto abbandonato sul marciapiede di fronte all’edificio al numero 743 tra l’Undicesima Strada Est e la Avenue D. La vista del barile la colse di sorpresa. Era grosso e panciuto, abbastanza nuovo e con le doghe solo un po’ arrugginite. Non era fradicio d’acqua, notò subito Frances. Qualcuno doveva averlo lasciato lì da poco.

    Frances si fermò incuriosita. Girò tutto attorno al barile scrutandolo, le sembrò fuori posto in quell’angolo, appoggiato ai mattoni rossi del New York Mallet Works, che sembravano divorati dai vermi o bucherellati da una mitragliata. Nell’odore acre della povertà e nella foschia della prima mattina, i colori sfumavano in macchie indistinte. Come il rosso della mantellina di Frances, che si avvicinò al barile nella speranza che dentro vi fosse ancora del cibo o qualcosa di utile.

    Poggiò l’ombrello ancora aperto per terra. Si guardò attorno con circospezione. Non le andava che qualche pezzente la osservasse mentre frugava tra i rifiuti.

    Nessuno nei paraggi.

    Frances afferrò il cappotto inzuppato dalla pioggia che copriva la sommità del barile, lo gettò sul marciapiede e si sporse a guardare dentro.

    Il suo grido squarciò il silenzio di quell’alba nell’Undicesima Est. Attraversò la foschia quell’urlo straziante che tutto il vicinato udì. E appena i primi curiosi s’affacciarono alle finestre per capire cosa stesse accadendo in quell’angolo dimenticato di Nuova York, videro Frances svenuta per terra accanto a un barile, dalla cui estremità venivano fuori due mani bianche immobili e due piedi.

    2. Il morto

    A John Winters il lavoro di poliziotto di pattuglia non dispiaceva. Certo, quei vecchi edifici di Elizabeth Street, Mulberry Street e Mott Street che vomitavano italiani e puzzavano d’aglio e sporcizia non erano lo scenario migliore in cui trascorrere buona parte della giornata. Ma la paga era buona e in fondo i dagoes non erano poi così brutti clienti per uno sbirro. Non denunciavano mai o quasi le porcherie che combinavano i loro connazionali, al massimo si facevano giustizia da soli col coltello e lo stiletto e quando qualcuno per un caso raro finiva dentro ripeteva sempre la filastrocca "no understand" fin quando non lo ributtavano per strada, magari dopo una bella ripassata di buone vecchie legnate irlandesi.

    Winters trotterellava sereno, facendo roteare lo sfollagente con due dita, osservando svogliato i primi wops che uscivano di casa per andare al porto a farsi ingaggiare a giornata, pagando la tangente ai mammasantissima che li facevano lavorare.

    Quel giorno gli toccava una zona al di fuori di Little Italy, un quadrilatero a est della cittadella dei dagoes, sulle sponde dell’East River. Winters camminava rasente i muri, riparandosi sotto i tendoni delle botteghe dalla pioggerellina incessante. Da lì a poco la strada si sarebbe riempita di carretti di ambulanti, di cenciaioli immersi a frugare tra i rifiuti, di sterco di cavallo e di fiumane rumorose di irlandesi e italiani.

    Si era lasciato la Bowery alle spalle scendendo giù per la Nona verso il fiume e già il tanfo che arrivava dai moli gli pizzicava le narici.

    Udì il grido mentre passava sotto l’insegna arrugginita di una bettola irlandese che cigolava agitata dal vento. Winters si fermò, cercò di individuare da quale direzione arrivasse quell’urlo disperato, poi afferrò lo sfollagente con una presa più decisa e corse verso l’Undicesima.

    La donna era a terra, in stato confusionale. Blaterava qualcosa senza senso. Alcuni passanti si stavano avvicinando per prestarle soccorso.

    «Largo, fate largo», intimò severo Winters sollevando lo sfollagente e toccando con l’altra mano il distintivo con il numero sul suo petto.

    «Nel barile… Nel barile», ripeteva il donnone che rimaneva sul marciapiede.

    Il poliziotto le chiese di ripetere.

    «Nel barile», disse ancora una volta Frances, singhiozzando.

    John Winters osservò il barile. Poi si guardò attorno mentre un’ansia crescente gli strizzava la gola. Sbirciò dentro e subito si ritrasse.

    «Cristo, è morto», esclamò il poliziotto.

    Inspirò profondamente per farsi coraggio. Poi tornò a guardare dentro. Le mani e i piedi uscivano fuori dall’estremità. Il cadavere era stato piegato a portafogli, accartocciato in modo innaturale per farlo entrare dentro l’insolita bara verticale. Winters si sporse per osservare meglio. C’era sangue raggrumato dappertutto, e uno squarcio nella gola che aveva quasi staccato la testa dal corpo. Non riuscì a vedere altro perché un conato gli spezzò in due lo stomaco.

    Vomitò lì, a due passi da Frances che restava seduta a terra, soccorsa dal vicinato.

    Winters si passò la manica dell’uniforme scura sulla bocca per pulirsi. Poi tirò fuori un piccolo arnese dalla tasca dei pantaloni, lo accostò alle labbra e fischiò con tutto il fiato che aveva.

    L’ispettore Max Schmitberger continuava a osservare quell’oggetto che gli pareva creato per qualche rituale oscuro. Era un piccolo crocifisso con la scritta inri e un teschio in bassorilievo ai piedi della croce. Era uno dei pochi effetti personali che il sergente Arthur Carey aveva trovato addosso al cadavere. L’angolo tra l’Undicesima e Avenue D era diventato un porto di mare di lì a pochi minuti. I primi agenti in divisa erano arrivati richiamati dal suono acuto del fischietto di Winters. Il poliziotto Joseph McCall era stato il più lesto a telefonare all’Investigativa. La carrozza dell’ambulanza era arrivata trainata da cavalli al galoppo. L’uomo nel barile era morto almeno un paio d’ore prima del ritrovamento, aveva detto il

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