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Comandante - Una storia vera
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E-book268 pagine3 ore

Comandante - Una storia vera

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Info su questo ebook

Comandante

racconta la vita di Mattatia Capretti, pescatore come suo padre Natan e

uomo irrequieto come il mare, libero come il vento, incostante come il

moto imprevedibile delle onde, che agli stretti confini della terraferma

ha sempre preferito il largo. Nelle sue traversate ha incrociato

miriadi di sguardi e di esistenze, schiacciate e impoverite dalla

guerra, sferzate dalla miseria e dalle ingiustizie, ma riscattate

dall'amore e dalla solidarietà di chi non smette mai di aiutare e di

pensare al prossimo, costi quel che costi. La

narrazione, personale, fortemente autobiografica, ci ricorda quelle

vittime senza nome, uccise e impoverite da qualsiasi guerra, da

qualsiasi divisione, dai confini e dai conflitti per la conquista del

potere, per insegnarci che ovunque un uomo sia privato della propria

libertà e della propria dignità viene perpetrato il peggiore dei

crimini.
LinguaItaliano
Data di uscita9 apr 2021
ISBN9791220331289
Comandante - Una storia vera

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    Anteprima del libro

    Comandante - Una storia vera - Ruben Gualà

    Cap I

    Origini

    Questa storia sorge nella più umile semplicità delle cose, come in fondo, sboccia ogni vita che germoglia curiosa di scoprire questo mondo così strano, buffo e altamente pericoloso, che noi umani chiamiamo: Terra.

    Questa è una storia fatta di segreti e paure, di gioie e sconfitte, di nascite e di morti. Una storia come tante ma nel suo genere unica, che solca fiera le onde dell’oceano. Un oceano che ben ricorda le vicende delle navi che nelle sue profondità conserva e di quelle che sono sopravvissute alle grinfie delle sue burrascose onde. Storie di uomini che hanno sfidato il mare e storie del mare che ha sfidato gli uomini.

    È bizzarro notare fatti particolari, tanto assurdi da non riuscire a trovare una spiegazione logica, ad esempio vedere come una creatura vivente chiamata terrestre sia tanto sedotta da quella distesa immensa e tumultuosa di acqua salata, colma di vita ma pericolosamente mortale, da divenirne un’estensione come se fosse un braccio, una gamba o un dito. Sì, avete capito bene… un’estensione, un prolungamento. Un prolungamento chiamato: Gente di mare.

    Sì, loro: i marinai, perché i marinai non sono più terrestri ma prolungamenti del mare.

    Fateci caso: i loro denti sono corrosi dalla salsedine, come le bitte dei porti. Le loro pupille sono avvezze a esaminare l’orizzonte, come un vecchio sestante. Le loro ossa percepiscono la tempesta prima che sopraggiunga, come se ci fossero degli igrometri nascosti nel loro corpo. Fateci caso: sanno sempre da che lato spira il vento, come se avessero un nefoscopio serbato nel profondo dell’animo. Ottemperano ai loro pericolosi compiti con operosità, sprezzanti del pericolo e della morte. La loro grinta è come l’onda nella tempesta. Il loro animo è profondo come la fossa delle Marianne. I loro orecchi, sempre tesi, sono tirati come le sartie su di un bigo e, soprattutto, il loro sesto senso è come l’ago di una bussola, non si perdono mai... loro non si perdono mai.

    Quante differenze rispetto a quelli che appartengono alla terra!

    I terrestri soffrono di mal di mare, i marinai soffrono di mal di terra.

    Chiamateli come volete: marinai, navigatori, uomini di mare… sono sempre loro, uomini che hanno lasciato l’amata terra, le amate famiglie, i cari affetti, per divenire fratelli dell’acqua. Il loro animo è come le onde che solcano, i segreti che celano come i segreti che occulta il mare, le loro sofferenze sono ampie e infinite come la distesa d’acqua sulla quale si muovono.

    In qualche modo, è come se le loro vite fossero già state cancellate: nessuno li vede, nessuno si preoccupa per loro se non essi stessi, artefici con il mare del loro destino.

    I marinai…

    I marinai sono persone insolite, strappate dalla terra da chissà chi, chissà quale intenzione, chissà perché o per cosa… Per sottostare al mare, alle sue leggi, alle sue strette prigioni e alle sue immense e infinite libertà, e questa che sto per narrare è la storia di uno di questi individui, sbattuto al largo per gran parte della sua vita, con distanti e bramati ritorni sulla terra ferma, per dei piccoli e colorati attimi di umanità, lunghi poco più di un sospiro.

    Si tratta della storia di un uomo che conosco molto bene; un marinaio. Un piccolo pezzo di mare, in mezzo a tanti altri piccoli pezzi di mare, ma un pezzo di mare che conosco meglio di tutti gli altri…

    Me.

    La nostra storia comincia su di un minuto stivale di circa 302.000 chilometri quadrati, buttato tra l’Adriatico e il Tirreno, nell’Europa meridionale, conosciuto più precisamente con il nome di Italia.

    Nacqui a Vieste.

    Un piccolo paesino attorniato dal verde delle foreste e dall’azzurro del mare, arroccato sulla punta più estrema del Gargano, nella provincia di Foggia.

    Venivo da padre pescatore e madre sarta.

    Venni alla luce in una umile casetta situata di fronte al faro di Santa Eufemia, all’epoca faro marittimo di prima categoria, che si erigeva imponente e maestoso con la sua torre di ventisette metri d’altezza. Si trovava e si trova tutt’oggi sul pregevole isolotto ubicato in posizione strategica tra le punte naturali di San Francesco e Santa Croce.

    Erano i tempi in cui l’Italia veniva devastata dalla brutalità della seconda guerra mondiale e si stava rivoltando tra le baionette e i colpi di fucile. Era il diciotto giugno del 1942 quando il mio pianto di neonato si fece sentire al mondo.

    Ancora non sapevo, o meglio non potevo sapere, tutto quello che la vita aveva intenzione di farmi passare.

    L’anno dopo successero molte cose, anche se io non ero in grado di capire. Mussolini fu deposto, arrestato per ordine del re e condotto sul Gran Sasso D’Italia. Gli angloamericani risalivano il nostro Stato dalla punta dello stivale fino alle alpi. Ogni tanto s’udiva qualche colpo di fucile sparato a tradimento da qualche partigiano nascosto fra le foglie, i tedeschi battevano in ritirata. I giorni si susseguivano ai giorni, venne il 28 aprile 1945, nessuno ancora lo sapeva ma alle 16:10 del pomeriggio di quel giorno, Mussolini e l’amante, furono fucilati davanti a un cancello.

    Il 30 aprile dello stesso anno, qualche giorno dopo la fucilazione di Benito Mussolini dunque, in Germania perse la vita anche Adolf Hitler. Chi diceva si fosse ucciso, chi diceva gli avessero sparato, chi diceva che non era lui ma che fosse scappato e quello ritrovato era il corpo di uno dei suoi fedelissimi.

    Insomma, girava un gran mistero.

    Anche se nelle nostre zone già sembrava che la guerra fosse finita, per l’Italia del nord i combattimenti continuarono ancora per un po’ ma erano tutte notizie lette sui giornali.

    Chi in realtà visse tutte queste cose furono i miei genitori, io ero ancora troppo piccolo per capire e i ricordi, sebbene ne conservi ancora qualcuno, sono lontani e sfocati.

    Gli anni passarono e io crescevo.

    Nel 1946 ci fu una conferenza di pace a Parigi tra le forze vincitrici del conflitto a cui partecipò anche l’Italia, ma non si arrivò a nulla di concreto. Nel mese di giugno di quello stesso ’46, il Corriere della Sera recava sulla prima pagina un grosso titolo nero che dichiarava È nata la Repubblica Italiana; poco sotto indicava i voti a favore della repubblica come 12.182.855 e a favore della monarchia come 10.362.709

    Ci furono grossi dissensi specialmente nella bassa Italia per la vittoria della repubblica. La maggior parte dei cittadini del sud votò il Re. Alcide De Gasperi si mise momentaneamente a capo del governo e il re fece le valigie abbandonando la nazione.

    Passò altro tempo e arrivammo, nella monotonia della vita famigliare, all’anno del Signore 1947.

    Il 10 febbraio di quell’anno, fu firmato il trattato di pace abbozzato tra il 29 luglio e il 15 ottobre dell’anno precedente. Il 1947 rappresentò, dunque, una data importante per l’Europa.

    L’Italia continuava a covare odi e rancori, mentre cercava di rialzarsi dai postumi di una guerra che l’aveva gettata nella povertà e nella fame più nera e le aveva strappato via tanti figli, distrutto case, separato famiglie.

    Il 1947 fu la fine di tante cose ma l’inizio di tante altre.

    Lo fu anche per me.

    Il 1947 segnò l’inizio dei miei primi cambiamenti e di una vita di avventure ed io, all’età di cinque anni, pronto o no, dovevo affrontarle.

    Cap II

    1947

    Un giorno, che ben non ricordo, di quel lontano 1947, mio padre, insieme a altri sei pescatori, fu avvicinato da un prete. Si faceva chiamare padre Enzo Chiroccia. Disse che aveva formato il villaggio del fanciullo, che non era altro che una struttura per accogliere gli orfani della guerra, altra grande ferita lasciata dalla ferocità dei confitti bellici all’Italia e a tutte le nazioni coinvolte.

    Questa struttura sorgeva nelle Marche, esattamente sulla strada che porta a Campofilone, nei pressi di Pedaso, in provincia di Ascoli Piceno. Era un baraccone rivestito di blocchi d’isotex e masonite, situato su una collinetta a circa 150 metri sul livello del mare. Era largo una quindicina di metri per circa settanta metri di lunghezza. Le finestre, sulla parte più lunga del capannone erano rivolte verso il mare, mentre le entrate verso la montagna. C’erano tanti stanzoni dove dormivano i ragazzi e sul lato sud c’era l’ambiente più grande che fungeva da chiesa.

    Il prete era andato a fino a Vieste perché cercava aiuto.

    Aveva un grosso problema.

    Un problema molto comune di quei tempi …

    La fame.

    La fame attanagliava l’Italia come uno scorpione che con le chele immobilizza la preda prima di colpirla col mortifero pungiglione.

    Don Enzo, aveva dei soldi da parte ma, senza entrate, presto starebbero finiti e lui non sarebbe più riuscito a sfamare quei poveri bambini, quindi ebbe un’idea molto astuta. Aveva intenzione di armare una lampara per mandarla in mare e di sfamare con il ricavato gli orfani del villaggio del fanciullo. Aveva fatto tutta quella strada perché aveva bisogno di pescatori esperti e l’unico posto dove poteva trovarli era a Vieste o all’isola di Procida a Napoli. Sapeva che solo calandosi nei vecchi moli delle antiche città, che dagli albori dell’umanità vivevano di mare, dove c’era quell’aria carica di salsedine e di odor di pesce, dove i gabbiani schiamazzano al vento i loro richiami e i suoni dei martelli dei pescatori che schiacciavano i granchi riecheggiavano assieme agli strilli delle gomene, solo lì poteva trovare le persone che cercava: I lupi di mare.

    Quando mio padre, uomo saggio e astuto marinaio, sentì tutta la storia, non si poté affatto tirare indietro e non lo fecero neanche gli altri sei pescatori; di quei tempi ci si aiutava l’un l’altro. Fu così che, fatti i preparativi, partirono tutti e sette, mio padre e gli altri sei. Io, mia mamma, mia sorella e mio fratello, rimanemmo improvvisamente a casa, senza papà. Disse che ci avrebbe mandato i soldi per riuscire a tirare avanti.

    Mio padre e gli altri riuscivano a prendere circa cento – duecento cassette di alici, quando uscivano in mare, quindi si poteva dire che la pesca andava molto bene, ma ovviamente i problemi non erano finiti, anzi, paradossalmente erano aumentati. Anche se il pesce veniva pescato, una volta giunto al mercato ittico non si riusciva a vendere. Le persone non avevano molti soldi. La fame era la conseguenza della povertà e Don Enzo a questo dettaglio di rilevante importanza non aveva fatto caso. Il piano del prete, per quanto arguto fosse parso, alla fine si rivelò null’altro che un misero fallimento. Ora, non solo aveva problemi a sfamare i bambini che nonostante gli sforzi rimanevano nella fame, ma doveva anche pagare la barca!

    Nel frattempo che nelle Marche accadeva tutto questo, anche noi avevamo i nostri problemi, i soldi di papà non si facevano vedere e senza quelli non riuscivamo a mangiare, così mamma mi disse: ‹‹Andiamo anche noi da tuo padre, se mangia lui mangiamo anche noi, se lui non mangia… Beh, almeno la famiglia resterà unita››.

    Così prendemmo con gli ultimi spiccioli rimasti una corriera che ci portò alla stazione di Calenella, da lì prendemmo un treno a vapore che ci portò a Foggia, quel pezzo di ferrovia era un tronco morto, non aveva altre destinazioni. Da Foggia, prendemmo un altro vapore che ci portò fino a Pedaso. La ferrovia all’epoca aveva un solo binario e le carrozze non erano proprio comodissime. Il viaggio fu lungo ed estenuante. Quando scendemmo dal treno, trovammo mio padre Natan, che ci stava aspettando. Mia madre ovviamente, com’era giusto che facesse, l’aveva avvisato con una lettera qualche giorno prima di partire. Mio padre era il capofamiglia e, giustamente, mia madre ne teneva conto.

    Mentre mio padre e gli altri continuavano a pescare cercando di fare tutto il possibile per vendere il pesce, io passavo il mio tempo al baraccone, insieme agli orfani, con mia madre che cuciva, riparava e rammendava i vestiari di questi piccoli sfortunati che, tanto s’erano affezionati a quella figura che s’impegnava per tenerli caldi e con i vestiti in ordine, che avevan imparato a chiamarla: mamma Antonia.

    Passarono circa due anni e venne il 1949. L’Italia dunque decise di dichiarare il 25 aprile festa nazionale per la liberazione d’Italia in relazione all’anno 1946. Era una data convenzionale presentata da Alcide De Gasperi nel settembre del 1948. Nonostante i combattimenti proseguirono anche dopo il 1946, il senato decise comunque di approvare la festività e di renderla giorno rosso al pari del Natale e del primo maggio.

    Fu sempre in quel 1949 che don Enzo dovette prendere una drastica decisione.

    Nonostante i suoi immensi sforzi, perse la sua crociata per gli orfani della guerra e fu costretto a congiungersi con un’associazione simile: La città del ragazzo, che si trovava a Castelletto sopra Ticino, di fronte a Sesto Calende, la città famosa per la fabbricazione di cannoni. Io, avendo ormai preso confidenza con il prete e con i ragazzi del villaggio del fanciullo, accettai di buon grado l’invito che mi fece don Enzo ad andare con loro e fu così che, mentre mia madre e mio padre rimasero a Pedaso, partii con la loro benedizione verso l’alta pianura novarese insieme agli orfani.

    Il panorama che si estese ai miei occhi all’arrivo della nostra meta era verdeggiante e l’aria profumava di fresco. Passammo su di un vecchio ponte che attraversava il fiume Ticino, fiume che esce dal Lago Maggiore andando a congiungersi col Po. Questo ponte era diviso a metà dal confine che segna la fine e l’inizio tra il Piemonte e la Lombardia. Non ricordo esattamente quanta strada facemmo dopo il ponte, ma non fu molta.

    Castelletto sopra Ticino era sicuramente un bel posto, ma in quella nuova struttura così differente dal nostro baraccone vista mare, così lontano da casa, così chiuso, non appariva così bello come me lo ero immaginato o da come lo avevo visto in lontananza. Alla città del ragazzo mi sentivo oppresso. Volevo andare via, volevo tornare a casa.

    Passò soltanto qualche giorno, poi, tutto d’un tratto, presi la mia decisione: scappare via e tornare a casa, a Pedaso, da papà Natan e mamma Antonia. Pensai che, non vedendomi, mi avrebbero cercato tutti e, ingenuamente, dedussi che se mi avessero trovato, mi avrebbero rinchiuso in quella che ormai definivo la prigione.

    Nella mia mente di bambino feci un ragionamento che definii perfetto: pensai di fare il percorso più lungo, così non mi avrebbero trovato, quindi, invece di andare a Bologna, sarei passato per Novara fino a Firenze per scendere poi a Pedaso.

    Quando fui sicuro di non essere visto, passai di corsa il cortile, afferrai con tutta la mia forza le aste di ferro del cancello e lo scavalcai. Andai via il più velocemente possibile per allontanarmi e portarmi fuori dalla vista di occhi indiscreti. In un primo momento la mia fuga aveva funzionato, ero scappato e nessuno mi aveva più visto, ma questo comportò un altro problema. Probabilmente, don Enzo, non avendomi più visto, era corso preoccupato alla polizia per segnalare la mia scomparsa. Così, quando giunsi a Novara, la polizia stradale mi vide passeggiare tutto da solo e mi fermò.

    Capendo chi ero, mi portarono in caserma.

    Stetti tutta la notte con loro.

    Stetti bene.

    Il giorno dopo mi riportarono alla città del ragazzo, dalla quale ero fuggito.

    Padre Enzo sapeva che sarei scappato di nuovo e quando io gli confermai che volevo tornare dai miei, fece le valigie e mi accompagnò personalmente.

    Don Enzo, quando vide mio padre, gli si avvicinò dicendogli: «Natan Capretti, vecchio mio. Prima di andare via, lascia che ti dica una cosa…» parlava con le lacrime agli occhi, «i tuoi servigi sono stati molti, e molto faticosi, mai remunerati» gli pose le mani sulle spalle, «non sono mai riuscito pagarti per tutto quello che hai fatto, anche se avrei voluto darti molto. Ora, ascoltami bene, il villaggio del fanciullo non esiste più, ma ne rimane il terreno. Qualche ettaro. Ho una carta di Lolita Tasi dove c’è scritto che è una donazione, ma questa donazione non è mai stata registrata. Se vuoi, come risarcimento, posso lasciarti il terreno per te e tutta la tua famiglia. Lo registreremo a nome tuo o faremo un passaggio. Agli occhi di Dio, forse, sarà giusto così. Avrei voluto pagarti bene, ora non mi rimane che questo, non ho altro. Ti prego di accettare».

    Mio padre accettò l’offerta, così, qualche giorno dopo, andarono a Fermo, dal notaio, per fare il passaggio. Purtroppo le cose non andarono come previsto perché il terreno, in realtà, non era intestato a Don Enzo, al villaggio del fanciullo, ma apparteneva ancora a Lolita Tasi, che non era più in vita. Purtroppo, per una circostanza o l’altra, non aveva mai fatto l’effettivo passaggio a Don Enzo, che ne stava usufruendo sulla parola, e su quel pezzo di carta di poco valore, quindi, chiamarono l’amministratore del terreno che doveva avere tutte le carte in regola per fare il passaggio.

    L’amministratore di quel terreno, però, che aveva la fama di essere una persona infame e scaltra, egoista, prepotente e materialista, che faceva l’amministratore anche per i possedimenti del conte e altri proprietari terrieri, rivendicò il lotto, dicendo che il terreno era suo e non di Don Enzo e sottolineò sgarbatamente che non avrebbe mai fatto nessun passaggio.

    Mio padre non poté far nulla a riguardo, proprio come il prete, e il terreno rimase all’amministratore Lorenzo Fiamma.

    Cap III

    Il nevone

    Non passò molto tempo da quando don Enzo mi riportò a casa, che trovai lavoro. Avevo appena sette anni quando cominciai a lavorare in nero come gommista ed elettrauto in un’officina gestita da due fratelli nella piccola cittadina di Pedaso. Nell’officina c’erano delle vasche per la nichelatura, all’epoca andavano molto di moda le cose cromate, ad esempio le motociclette o i cerchioni, e quello fu il mio primo impiego, ma col tempo cominciai anche a riparare le gomme, applicando delle pezze, come le chiamavamo

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