Romanzo mafioso. L'ascesa dei corleonesi
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Romanzo mafioso. L'ascesa dei corleonesi - Vito Bruschini
34
Prima edizione ebook: novembre 2013
© 2013 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-6174-0
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Librofficina
Progetto grafico: Sebastiano Barcaroli
Foto: © Shutterstock.com
Vito Bruschini
Romanzo mafioso
1. L’ascesa dei corleonesi
1
Corleone animosa civitas
Corleone, Sicilia, maggio 1943
Giovanni spingeva il suo vecchio carretto, risalendo la polverosa Strada provinciale che, subito dopo la Villa comunale, s’immetteva tra le prime casupole di mattoni e fango alla periferia del paese. A quel tempo Corleone era un abitato desolato, popolato da anziani, donne e pochi uomini. La fame atavica, il lavoro mal pagato nei campi, le ingiustizie dei gabellotti e dei padroni, il peso del potere mafioso, avevano spinto i più giovani e ardimentosi a emigrare a nord, in Liguria e Piemonte, dove c’era bisogno di braccia per lavorare la terra e muscoli per spalare la sabbia dei fiumi.
Eppure Corleone era pur sempre una capitale. Adagiata in una conca naturale dominata dalle Rocche Soprana e Sottana e dalle balze della Montagna Vecchia, sorgeva nel cuore delle pianure della Sicilia occidentale e sin dai tempi più antichi, in quel territorio abbandonato dagli uomini e da Dio, era assurta a capitale della mafia del feudo del Principe Licata.
Risalendo la Provinciale, senza stancarsi mai di spingere il carretto carico di paglia e ortaggi, Giovanni passò davanti alla chiesa Matrice, caratterizzata dalle due lunghe scalinate che confluivano, come una
V
rovesciata, al grande portale, e arrivò a Piazza Garibaldi, l’ombelico del paese. Qui, all’ombra della chiesa Madre si apriva uno slargo dove era riconoscibile il palazzo del Comune con la scritta di vernice nera. Di lato, a chiudere la piazza, c’era la tenenza dei carabinieri e di fianco i locali del Banco di Sicilia. Accanto c’era il bar Centrale. Qui gli uomini si ritrovavano la sera per bere un bicchiere di vino e giocare a carte, prima di ritirarsi a casa per andare a cena.
Nella piazzetta, poco più di uno slargo rettangolare, erano dunque riuniti i poteri che dominavano la vita di quei poveri cristiani: il potere della Chiesa, quello dello Stato e quello economico.
L’antico palazzo a due piani dove si trovava la tenenza dei carabinieri, era abitato dal dottor Nazzaro, il mammasantissima che imperava su Corleone. Cosicché nella piazzetta era rappresentato anche il potere mafioso che, per una incredibile beffa del destino, in paese sovrastava fisicamente, e anche psicologicamente, quello dello Stato.
Giovanni era un contadino e neppure il più povero tra i suoi compaesani. In Sicilia le classi sociali erano costituite dai nobili latifondisti, dai professionisti, dai gabellotti, dai campieri e ai gradini più bassi, dai mezzadri, che operavano sui terreni dei latifondisti e infine dai braccianti che lavoravano, quand’erano fortunati, a giornata. La maggioranza della popolazione apparteneva alle due ultime categorie. Non la famiglia di Giovanni però perché il padre gli aveva lasciato in eredità quattro tumuli di terra distribuiti in diverse contrade intorno a Corleone. Così Giovanni trascinava la sua vita correndo dall’uno all’altro terreno, spezzandosi la schiena per coltivare un po’ di frumento, fave, patate e verdure che, oltre a sfamare la famiglia, utilizzava per barattare un sacco di lana di pecora per i maglioni invernali o con qualche attrezzo per il lavoro dei campi.
Aveva cinque figli Giovanni, tre maschi e due femmine e un sesto era in arrivo. Il più grande, che tutti chiamavano Saro, era un ragazzo robusto, mani forti e un carattere estroverso… ma era piccolo di statura. Aiutava il padre nei campi fin dall’età di sette anni. E non era un’eccezione perché a quel tempo a Corleone i figli maschi dei contadini e dei pastori, dopo la seconda o terza elementare, il periodo necessario per imparare a vergare la propria firma, erano costretti ad abbandonare la scuola per aiutare la famiglia.
A chi faceva notare alla mamma quanto il figlio maggiore fosse corto
, lei ribatteva piccata che il ragazzo aveva soltanto tredici anni e che doveva ancora sviluppare. Il tempo le avrebbe dato torto perché Saro tale restò anche dopo l’adolescenza.
Il ragazzo non lo dava a vedere, ma soffriva per la condizione di estrema indigenza in cui versava la sua famiglia. La madre, malgrado l’ultima gravidanza avanzata, continuava a recarsi alle fontane per lavare i loro poveri panni, raccoglieva cicoria, erbe e carrube per la minestra e la sera faceva consumare l’olio della lucerna filando la lana per i maglioni invernali.
La guerra volgeva al suo terzo anno e l’insipienza e la codardia dei pubblici amministratori, avevano esasperato la popolazione che ormai si lamentava apertamente e inveiva contro Mussolini e i suoi gerarchi, senza più preoccuparsi delle rappresaglie delle Camicie nere del paese. L’illuminazione, l’acqua, i trasporti, il rifornimento alimentare, niente più funzionava da quando le incursioni dei bombardieri americani sulle città siciliane avevano seminato lutti e rovine.
I corleonesi erano da sempre gente agguerrita e ostinata. Questo loro carattere derivava da una lunga serie di violenze e ingiustizie che avevano dovuto subire del corso dei secoli. Più volte riuscirono a riscattare l’indipendenza feudale, tanto che il comune fu insignito dal titolo di Animosa Civitas
, attribuitogli dall’imperatore Carlo
V
.
Dopo che a maggio le basi nazifasciste nordafricane erano state conquistate dagli eserciti alleati ed erano cadute anche Pantelleria e Lampedusa, la Sicilia stava per diventare il nuovo teatro di guerra, in previsione dell’imminente invasione.
A difendere l’isola erano rimasti pochi aerei da caccia e una contraerea del tutto inefficiente. Senza più nessuno in grado di contrastarle, le squadriglie dei bombardieri anglo-americani scorrazzavano nei cieli siciliani anche di giorno.
Saro aveva imparato a riconoscere il ronzio dei motori quand’erano ancora sulla linea dell’orizzonte e indicava al padre le formazioni alte nel cielo. Un reduce della campagna d’Africa gli aveva insegnato a riconoscerli. I B-24 Liberator erano quelli con i doppi piani di coda, mentre i P-38 Lightning avevano la doppia fusoliera. I Wellington erano inglesi e avevano due motori. Nel cielo sembravano tante croci nere, ma nel momento che passavano sopra le teste erano ben riconoscibili nei loro colori di guerra.
A volte si dirigevano verso Agrigento, altre volte tornavano dai bombardamenti di Palermo dove alcuni compaesani aveva raccontato storie tremende di morte e disperazione.
La madre di Saro ringraziava il Signore che li aveva fatti nascere a Corleone, dove non c’era niente da bombardare e pregava di preservarli ancora da quegli orrori.
Ma le preghiere non sempre vengono ascoltate.
***
Soluq, Libia, maggio 1943
Il capitano pilota Ralph Jackson, un giovane californiano di Riverside, sentiva la responsabilità del comando in modo esasperato. Aveva fama di essere molto prudente e qualcuno mormorava «forse nemmeno troppo coraggioso», ma non si trattava di avere più o meno ardimento, a lui stava a cuore sopra ogni cosa la vita dei suoi uomini. Più volte aveva dichiarato di preferire tornare da una missione a mani vuote, piuttosto che lanciarsi in imprese disperate, confidando soltanto nella fortuna. Ralph Jackson aveva raggiunto i trent’anni, e non dimenticava che gli altri nove membri del suo equipaggio erano tutti ragazzi dai ventidue ai ventisei anni, in pratica poco più che adolescenti.
Apparteneva al 512° Squadrone del glorioso 376° Gruppo di bombardamento pesante, il primo ad aver sganciato una bomba in Europa e in Italia.
Alla testa del suo equipaggio si stava recando nell’hangar dove era stato convocato il briefing per la missione del giorno. Erano le prime ore dell’alba e il freddo notturno del deserto li costringeva a coprirsi con i pesanti giubbotti di pelle foderata.
Il comandante del 376°, colonnello Keith K. Compton, come al solito era stato tra i primi ad arrivare all’appuntamento. Sorseggiava una tazza di caffè in compagnia dei suoi luogotenenti. Sulla parete alle loro spalle era stata affissa la grande cartina del Mediterraneo meridionale dove al centro era ben visibile la Sicilia.
La sala era gremita dai capi squadriglia, piloti, bombardieri e navigatori. C’era un’atmosfera rilassata, sembrava più una riunione tra amici che un meeting per organizzare un bombardamento a tappeto.
Il brusio fu interrotto dall’entrata del comandante della base.
Il colonnello Theodor Brandon si recò a passo spedito verso la cartina geografica. Rispose al saluto del comandante del Gruppo e, rivolgendosi agli equipaggi disse: «Il nostro obiettivo è Palermo», si voltò verso la carta e segnò con l’indice la città a nord ovest dell’isola. «Oggi sono stato autorizzato a comunicarvi che lo sbarco delle nostre truppe in Sicilia è imminente», un mormorio di soddisfazione si alzò nell’hangar. Il colonnello riprese a parlare: «Prima di ora lo Stato maggiore aveva mantenuto segreta l’Operazione Husky per il timore che italiani e tedeschi rafforzassero questo quadrante di guerra. Abbiamo fatto di tutto per ingannare il nemico. I nostri uomini dell’
OSS
hanno persino abbandonato in mare il cadavere di un uomo con un biglietto crittografato nascosto nei risvolti della giacca, dove si annunciava che lo sbarco sarebbe avvenuto in Grecia o in Sardegna. Il riserbo sembra aver avuto successo. Hanno lasciato a difendere la Sicilia quattro divisione italiane dotate di pochi pezzi di medio calibro, e due tedesche composta da veterani dell’Africa senza nessuna voglia di combattere ancora. Le loro aeronautiche sono a pezzi. Poche decine di caccia funzionano ancora. In queste settimane i vostri raid hanno distrutto sulle piste oltre duecento velivoli. Ottimo lavoro! I bombardamenti sulle