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Racconti. Quel giugno 1943
Racconti. Quel giugno 1943
Racconti. Quel giugno 1943
E-book301 pagine4 ore

Racconti. Quel giugno 1943

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Quel giugno del 1943, intorno alla metà del mese, verso le quattro di un imprecisato mattino, il piccolo Angelo, col suo papà e con un fratellino che aveva un paio d’anni più di lui, lasciava le rosse terre del contado di Vittoria – buone per lo più a produrre l’uvaggio per quel tipo di vino che, dal suo particolare colore, viene detto Cerasuolo – e partiva verso l’ignoto.
I tre avevano come unico mezzo di locomozione – utile anche per il trasporto di qualche sacco di iuta e di qualche misero indumento – una bicicletta, che il papà, con Angelo appollaiato sulla canna e l’altro figlioletto a cavalcioni sul portabagagli, spingeva, pedalando con la forza della disperazione, per l’angosciosa tristezza di quei miseri anni di guerra; e con la forza che gli infondeva la speranza di procurare almeno il pane ai suoi figli e alla sua sposa.
Andavano i tre, verso le terre ubertose del centro della Sicilia, verso le terre “nere” di un contado opulento di feracità e trionfante di turgide spighe di grano duro...


 
LinguaItaliano
Data di uscita10 apr 2018
ISBN9788868226817
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    Anteprima del libro

    Racconti. Quel giugno 1943 - Angelo Arangio Febo

    s

    Collana

    Romanzi

    diretta da

    Antonio D’Elia

    Angelo arangio FEBO

    Racconti

    Quel giugno del 1943

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Edizione eBook 2018

    ISBN: 978-88-6822-681-7s

    Via Camposano, 41 (ex via De Rada) - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.it - www.pellegrinieditore.com

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    PREFAZIONE

    Quel giugno del 1943 Angelo Arangio Febo, autore del libro che ha come sottotitolo queste quattro parole, aveva cinque anni, non era ancora andato a scuola e, tuttavia, si preparava a sostenere degli esami molto difficili, gli esami per diventare uomo, per cominciare a vivere le vicende della vita di un uomo, prima ancora di avere concluso quelle della sua vita di bambino.

    Quel giugno del 1943, intorno alla metà del mese, verso le quattro di un imprecisato mattino, il piccolo Angelo, col suo papà e con un fratellino che aveva un paio d’anni più di lui, lasciava le rosse terre del contado di Vittoria – buone per lo più a produrre l’uvaggio[1] per quel tipo di vino che, dal suo particolare colore, viene detto Cerasuolo – e partiva verso l’ignoto.

    I tre avevano come unico mezzo di locomozione – utile anche per il trasporto di qualche sacco di iuta e di qualche misero indumento – una bicicletta, che il papà, con Angelo appollaiato sulla canna e l’altro figlioletto a cavalcioni sul portabagagli, spingeva, pedalando con la forza della disperazione, per l’angosciosa tristezza di quei miseri anni di guerra; e con la forza che gli infondeva la speranza di procurare almeno il pane ai suoi figli e alla sua sposa.

    Andavano i tre, verso le terre ubertose del centro della Sicilia, verso le terre nere di un contado opulento di feracità e trionfante di turgide spighe di grano duro. Andavano a spigolare, a ragghiuppiari, come si dice nel dialetto di Vittoria, a raspollare[2] le spighe sfuggite alla falce dei mietitori e, spesso anche, tralasciate a bella posta, dagli stessi mietitori, a beneficio di chi camminava dietro di loro e poco dopo sarebbe passato su quelle stesse terre, con un sacco che sperava di portare indietro colmo, alla fine della sua giornata di lavoro. Questo atto di lasciare volutamente una piccola parte di ogni frutto che si veniva raccogliendo per coloro che non avevano nulla – "per gli uccellini, perché anch’essi hanno il diritto di mangiare", secondo quanto insegnava, con gentile metafora, il papà di Angelo ai figli – era allora quasi una legge non scritta, un dovere dell’etica contadina, un bel gesto d’amore per il prossimo.

    Arrivati a Gela, i tre svoltarono verso nord e, dopo sei o sette chilometri, scesero dalla bicicletta e, a piedi, si diedero ad affrontare l’interminabile salita di circa trenta chilometri che li avrebbe condotti nel territorio situato tra San Michele di Ganzeria, Mirabella Imbaccari e Piazza Armerina.

    Arrivarono a destinazione nel tardo pomeriggio e subito in Angelo le fantasticherie cominciarono a trasmutarsi in meditazione. «Ricordo ancora con stupore – egli scrive – che ebbi quasi la sensazione che fossimo attesi dal Fattore di quella enorme proprietà. Nostro padre ci aveva spiegato che bastava chiedere il permesso di spigolare dietro ai mietitori e senza difficoltà ti veniva concesso. In quella occasione, il Fattore non solo dette a nostro padre il permesso di spigolare, ma ci concesse anche di usare come dimora, per tutto il tempo in cui saremmo rimasti, una tettoia, sotto la quale c‘erano delle mangiatoie per il bestiame non più utilizzate. Ricordo che il Fattore posò lo sguardo su noi in maniera bonaria e chiese a mio padre se aveva un luogo dove andare a pernottare. La risposta fu ovviamente negativa e allora il Fattore chiamò alcuni dei suoi uomini e con autorità disse loro: Aiutate ‘sti cristiani a sistemarsi in quella tettoia. Ci fu data paglia per riempire i sacchi di iuta che avevamo portato da casa, legna per cucinare e acqua.»

    Il giorno dopo, il padre e il fratello andarono dietro i mietitori e Angelo, rimasto a fare da guardiano alle misere cose che avevano portato da casa, cominciò a guardarsi intorno e scoprì un orizzonte prodigiosamente più vasto di quello che si riusciva a vedere nelle terre pianeggianti della sua città; si accorse che nel paesaggio collinare, popolato di case e d’oliveti, c’era una morbida sinuosità mai riscontrata prima, un’alternanza di colori che annullava la monotonia di un campo visivo senza confini.

    «Ebbi la sensazione – egli scrive – di vivere in un altro pianeta, e dalla mia mente scomparve il chiodo fisso dei miei giochi. Non pensavo neanche a mia madre.»

    * * *

    Terminata la mietitura, il Fattore fece salire padre e figli sopra un camion, sui quale aveva fatto caricare i sacchi di grano raccolto e li rimandò a casa. Al momento della partenza, i tre salutarono con deferenza il Fattore, il quale, guardando Angelo e suo fratello Pippo, disse al loro padre: "Sti criaturi sicuramente in avvenire vivranno molto meglio di noi. Sapete che la nostra Sicilia forse diventerà la quarantottesima stella della bandiera americana?"

    Apriamo una parentesi, per una precisazione e una nota storica.

    1) Le stelle della bandiera degli Stati Uniti erano gia 48 nel 1943 e diventeranno 50 nel 1959, con l’aggregazione delle due exclaves dell’Alaska e delle Hawai.

    2) Nel triangolo Piazza Arrnerina, Aidone, Mirabella Imbaccari, già prima che le truppe alleate sbarcassero in Sicilia, secondo quanto ho saputo negli anni in cui ho insegnato a Piazza Armerina, si era creato un nutrito gruppo di sfegatati separatisti, che predicavano il distacco della Sicilia dall’ltalia e che rimasero attivi per parecchi anni, anche dopo che Andrea Finocchiaro Aprile, fondatore del movimento indipendentista, si era ritirato dall’attivita politica. Perciò non c’è da meravigliarsi che quel Fattore avesse idee separatiste.

    * * *

    Il ritorno a Vittoria significò per Angelo e la sua famiglia l’inizio di nuove difficoltà. C’era, infatti, nell’aria il timore e, per alcuni, la speranza, che da un giorno all’altro i soldati Americani – come tutti comunemente dicevano, essendo pochissimi coloro che correttamente parlavano di eserciti alleati – sarebbero sbarcati in Sicilia, avamposto meridionale dell’Europa. E, come era facilissimo prevedere che i marines anglo-franco-americani sarebbero partiti da Malta (dato che quell’isola dista dalla Sicilia solo una cinquantina di miglia marine, tanto che da essa, già da tre anni, quotidianamente, notte e giorno, con un brevissimo volo di un ventina di minuti, i caccia-bombardieri Hurricanes venivano a sganciare le loro micidiali bombe da 400 libbre soprattutto sull’aeroporto di Comiso), così era altrettanto facile preconizzare che le truppe alleate sarebbero sbarcate sul tratto di costa che si estende tra Capo Passero e Licata.

    La mattina del 10 luglio il nostro Angelo era particolarmente allegro. Da qualche giorno infatti si era trasferito con altri parenti, fra cui il suo carissimo nonno Angelo, nelle grotte alte del costone vallivo del fiume Ippari, ritenute più sicure e più protettive delle abitazioni cittadine, in caso di probabili bombardamenti prima dello sbarco delle truppe. Angelo era anche contento perché, il giorno prima, lo zio Saro, proprietario delle grotte e della maggior parte delle macellerie di Vittoria, aveva fatto preparare un lauto pranzo, durato fino al tardo pomeriggio, in cui era stata servita a tutti tanta buona carne, quella carne che, "se andava bene – dice il nostro autore – si mangiava solo la domenica e non certo in porzioni così abbondanti".

    La mattina del 10 luglio, guardando il mare lontano, si videro molte macchie scure di oggetti che si muovevano sulle acque.

    «Zia Annetta – scrive il nostro autore – fu la prima a percepire ciò che stava accadendo e si mise a urlare: "Gli Americani… gli Americani stanno arrivando." Si rivolse in primo luogo a zio Saro, suo padre, e rimase male, quando lui, anticipandola quasi, le disse che sapeva già ciò che stava accadendo; quindi, rivolgendosi a tutti i presenti, prese a dire che per quanto riguardava il nostro territorio, non c’era nulla di allarmante, nonostante il precipitare degli eventi. Da informazioni affidabili, si sapeva che quasi tutto il ragusano sarebbe stato risparmiato dai bombardamenti.»

    Apriamo un’altra parentesi. È certamente vero che lo sbarco dei marines in Sicilia sia stato preceduto dall’arrivo, segretissimo, nell’isola, di un gruppo, non si sa quanto numeroso, ma indubbiamente assai folto, di figli e nipoti di Siciliani emigrati fin dal tardo Ottocento negli Stati Uniti. Questi uomini, che si erano sparsi in quasi tutti i comuni dell’isola, ove erano stati accolti a braccia aperte da parenti e amici, erano tornati in Sicilia solo per preparare gli animi dei loro conterranei alle vicende belliche in cui ben presto sarebbero stati coinvolti e, soprattutto, per assicurare che nulla sarebbe accaduto ai Siciliani se non avessero opposto resistenza. E molto probabile che Zio Saro avesse rapporti – diretti o indiretti – con qualcuno di quei siculo-americani arrivati con gran riserbo nella terra dei loro padri, e perciò fosse preparato agli eventi che stavano accadendo; di ciò, infatti, ci dà testimonianza Angelo, che ci racconta quegli avvenimenti con la stessa ingenua meraviglia di quando era bambino: «in pochi minuti il cielo comincio a popolarsi di una specie di palloni giganti e colorati ai quali erano appesi degli uomini che a prima vista sembravano dei pupazzetti. In mezzo a quel fuggi fuggi generate, l’unico che ostentava sicurezza era zio Saro, il quale rideva e poco dopo, come un prestigiatore, tirò fuori un centinaio di bandierine a stelle e strisce e le distribuì a tutti e gridando: Siamo liberiliberi.»

    Come zio Saro c’erano, forse, in ogni paese di Sicilia, degli uomini che avevano notizie di ciò che sarebbe accaduto; ed era logico che questi uomini andassero cercati fra gli antifascisti.

    Uno di essi, a Vittoria, era l’ingegnere Arcangelo Mazza, padre di quel Libero Mazza che, una ventina di anni dopo, sarebbe diventato un famoso prefetto di Milano.

    L’ingegnere Mazza era amico di mio padre e vicino di casa. Perciò, il giorno in cui accaddero i fatti di cui stiamo parlando, mia sorella che, dopo la morte di mio padre, viveva con una zia e 1’anziana nonna, terrorizzata dalla notizia che gli Americani erano gia sbarcati nella vicina frazione di Scoglitti, andò a cercare conforto presso l’ingegnere Mazza, che era stato suo professore e le voleva bene. E quell’uomo, pian piano, riuscì a calmarla, dicendole: Stai tranquilla, figliola cara, non aver paura. Non c’e alcun pericolo. Qui non succedera certamente nulla di grave.

    Queste parole mi furono riferite da mia sorella quando tornai a casa, dopo la guerra, e, come è facile constatare, sono pressappoco le stesse parole di zio Saro.

    * * *

    Torniamo ad Angelo Arangio Febo. Nel 1944, cioè un anno dopo lo sbarco degli eserciti alleati, sembrava in Sicilia che la guerra fosse finita, anche se i disagi per la popolazione non mancavano, soprattutto per la difficoltà di reperire il pane quotidiano; ma nonno Angelo, con la sua saggezza, dice il nostro autore, ripeteva continuamante a tutti «Ricordiamoci che noi qui soffriamo, pero vi è tanta gente che nel resto d’Italia, fuori dalta Sicilia, non solo soffre per motivi economici, ma anche perché sta vivendo ancora in zona di guerra, con tutto cio che la Guerra comporta: fame, spaventi, devastazioni e spesso mancanza di libertà.»

    Le cose stavano proprio come il vecchio nonno Angelo non si stancava di ripetere ai nipoti. Difatti, dopo avere superato la resistenza della Linea Gustav, che l’esercito tedesco aveva approntato presso Cassino, gli Alleati, in pochi giomi, riuscirono ad avanzare verso nord per oltre 200 chilometri, ma poi furono costretti a fermarsi, perché, lungo il 44° parallelo, cioè lungo il parallelo che va da Viareggio a Rimini, dal Tirreno all’Adriatico, trovarono altre truppe tedesche, trincerate sulla famosa Linea Gotica, che era molto più munita della Gustav, tanto che il loro esercito restò bloccato su tale linea per circa quattro mesi, prima di poter dilagare nella pianura padana.

    * * *

    Nonostante ogni traversia, quell’anno per il nostro Angelo fu di felicità, come egli stesso ci dice: «Con l’arrivo di settembre, arrivò l’inizio della scuola anche per me. Mi accompagnarono, il mio prima giorno, la mamma e la zia Teresa, e quando il suono della campanella ci annunciò il momento di entrare, nel lasciarmi e salutarmi, la zia Teresa mi lavò il viso con le sue lacrime; la mamma invece era radiosa per la gioia; "Speriamo, diceva, che almena tu possa continuare la scuola, non come tuo fratello, che un po’ per necessità (necessità, qui vuol dire: andare a lavorare per aiutare la famiglia) un po’ perché svogliato, in tre anni non è riuscito a terminare la prima elementare".»

    Perché ho affermato che nonostante tutto, quell’anno fu per Angelo di felicità? Perché io sono un vecchio professore, che settant’anni fa scelse di iscriversi alla facoltà di Lettere dell’Università di Padova, perché il suo sogno era quello di fare l’insegnante; e non certo per denaro, in quanto anche allora si sapeva che nella scuola gli stipendi erano modesti; perché la mia concezione dell’insegnamento collima in tutto e per tutto con quella che Angelo, pur essendo un bambino, riuscì a recepire dall’azione del suo maestro, un uomo ben conosciuto da me, perché papà di un mio compagno di scuola, un uomo che non entrava in classe, come io ho sempre cercato di fare, solo per distribuire il proprio sapere, comunque e sempre limitato, ma perché conscio che il rapporto fra maestro e allievi raggiunge le mete più alte quando il primo è pienamente cosciente che il suo compito è quello di guidare i propri alunni affinché imparino a navigare da soli fra i marosi della vita, che il suo dovere di uomo è quello di insegnare in umiltà, cercando anzitutto di capire i propri alunni uno per uno, guardando ognuno di essi, come se fosse un figlio suo.

    * * *

    Fondando il mio giudizio sulle premesse di cui ho detto, ritengo che nella proposizione: arrivò 1’inizio della scuola anche per me, la felicità del bambino traspaia dalla congiunzione anche, nella quale si legge chiaramente che andare a scuola significava, per Angelo, un privilegio, che egli credeva riservato ai bambini di famiglie benestanti, e che, invece, era toccato anche a lui.

    E difatti egli frequentò la scuola sempre con gioia; e capì tutto della scuola; capì principalmente la nobiltà dell’animo del suo Maestro, come chiaramente dicono le sue parole:

    «Dolce Maestro, piccolo borghese, come tu stesso amavi definirti, quante cose buone ci hai insegnato. Non soltanto nozioni, ma lezioni di vita. Quante volte, nell’ora della ricreazione, il tuo sguardo si posò su quei ragazzini che, nulla avendo da mangiare, con dignità certamente inconscia, fingevamo finta di giocare, o forse giocavamo sui serio, per non restare con lo sguardo fisso sui compagni che mangiavano. E tu, quante volte, facendo finta di niente, uscivi per pochissimi minuti, sì, giusto il tempo di andare e tornare da quel pizzicagnolo appena fuori la scuola, e con quella signorilità che ti distingueva, ci compravi un panino per ciascuno, ripetendo sempre quella dolce bugia: Li avevo comprati per me, ma non mi sento…, perciò, fatemi il piacere, mangiateli voi… Io, con la mano tremolante per l’emozione, prendevo quel panino e allontanandomi di qualche metro, andavo a dividerlo con un ragazzino molto più sfortunato di me.

    Quanta timidezza, quel primo giorno, quei primi mesi, quel primo anno si scuola. Capitava spesso di sentirci a disagio al cospetto di alcuni nostri compagni, per il fatto che fossero più ben vestiti di tanti di noi. Tu, Maestro, sei stato MAESTRO (con tutte le lettere maiuscole) anche in quei piccoli particolari, dicendoci sempre: Per me, siete ben vestiti anche così».

    Col maestro Filippo Consolino, il nostro Angelo trascorse tre anni felici, dalla prima alla terza elementare; ma dopo i primi sei mesi della quarta classe arrivò, per lui, il tempo della presa di coscienza di una situazione di estremo disagio economico per la sua famiglia. Il padre, che, per varie vicende, aveva dovuto lasciare la gabella che aveva in contrada Alcerito, non riusciva a portare avanti la famiglia, nonostante l’aiuto del figlio maggiore; la madre, che doveva curare cinque figli aveva sempre un’aria di tristezza nel volto, soprattutto perché era costretta a vivere in una dimora piccolissima e scomodissima. Furono questi i dolorosi motivi per cui egli prese una decisione che io definirei eroica, in particolare perché a prenderla fu un bambino che aveva soltanto nove anni o poco più.

    «Ai primi di Marzo – egli scrive – decisi, in maniera irrevocabile, di lasciare la scuola e di andare a lavorare. La domenica successiva, mi recai nella piazza principale, in cerca di lavoro.»

    Con un’altra diecina di ragazzi fui assunto per la raccolta dei piselli. Pattuita la paga giornaliera di 50 lire, mezzo litro di vino, il companatico e la minestra di fave per la sera, ci fu detto a quale ora saremmo dovuti partire e ci fu dato un piccolo anticipo sul salario. Mi precipitai a casa e consegnai i primi soldi da me guadagnati a mia madre. Ma lei non ne fu contenta.

    «"Riporta subito indietro quei soldi, mi disse, e torna a scuola; dai retta al tuo maestro, che è venuto stamattina a pregarci di farti continuare a studiare." No, risposi, e mi allontanai correndo. Andai a sfogarmi, a piangere, dove nessuno poteva vedermi, col pensiero rivolto a lui, al mio Maestro».

    * * *

    Siamo arrivati al 1948. Angelo ha dieci anni e comincia la sua nuova vita, adattandosi a qualsiasi tipo di lavoro, pur di aiutare la mamma e il papà. Per qualche tempo, infatti, lavora con don Niluzzo Violino, un simpatico vecchietto dal quale apprende tutti i segreti della pastorizia, dalla mungitura delle pecore alla transumanza, cioè al lungo e lento trasferimento a piedi, seguendo il gregge, fino a Terrana, tra Niscemi e Caltagirone, ove i pascoli erano abbondanti.

    Lavorò anche con don Nanè, come amava farsi chiamare il cavaliere Barrano, un proprietario terriero i cui possedimenti si trovavano a due passi dal paese, in contrada Ucciarda, sicché non era necessario alzarsi in piena notte, per arrivare prima dell’alba sul posto di lavoro. Con don Nanè Barrano, però, c’era anche un suo nipote, altezzoso e prepotente, che innervosì Angelo, fino a farlo andar via.

    Trascorse altro tempo; il nostro Angelo, che ormai aveva già 18 anni, conduceva una vita piuttosto monotona, lavorando qua e là, finché un giorno la sua mamma seppe che da qualche anno, viveva a Santo Stefano al Mare, in provincia di Imperia, un concittadino che era riuscito, lavorando assiduamente, a crearsi una piccola fortuna. Con questo unico punto di riferimento, Angelo e il suo papà, una mattina del 1956, salirono sul treno e partirono per la Liguria.

    Cominciò quel giorno l’avventura di un self made man; di un uomo che si è fatto da sé; di un uomo che ha scritto un libro, intitolato: Racconti, che ha, come sottotitolo: Quel giugno del 1943.

    * * *

    Francamente debbo dire che, quando l’Assessore alla cultura di Vittoria mi portò il libro di Angelo Arangio Febo e mi chiese di leggerlo per presentarlo ai nostri concittadini, io non ne fui particolarmente lusingato. Temevo di dover leggere il solito pastrocchio, irto di volgarità e infarcito di sicilianismi messi lì ad ogni costo, tanto per seguire una moda che a me non piace per nulla. L’Assessore, però, è un mio amico e io non seppi opporgli un rifiuto; sicché una sera presi in mano il libro in questione, cominciai a leggerlo e andò a finire che io – che già dormo poco, data la vecchiaia – quella sera, anzi, quella notte, rimasi a leggere fino alle tre del mattino, quando mi alzai, andai in cucina, mi preparai un tazzina di caffè, che bevvi con gusto, e… ripresi la lettura.

    * * *

    Perché? Perché Angelo Arangio Febo, anche se il suo iter narrativo ogni tanto ha qualche piccolo intoppo con la sintassi, ha scritto un buon libro e ha saputo esporre il suo pensiero senza alcun infingimento, con la semplicità e l’onestà che hanno contraddistinto ogni azione della sua vita; perché Angelo Arangio Febo, anche se a scuola non è andato oltre la quarta classe elementare, ha certamente letto moltissimo ed è diventato un autodidatta – e ciò non poteva sfuggire a un lettore come il sottoscritto, che in materia, non è certamente privo di esperienza – perché un uomo che scrive così:

    (pp. 15-16) "… piangendo, raccolsi e accarezzai il corpicino ormai inerte del mio chicco di grano, dell’uccellino che non avrebbe più cinguettato al sorgere del sole. lI sole per lui era tramontato per sempre".

    (p. 57) mi mancherà il fruscio del vento, quando soffia sui cannicci selvatici, messi a riparo e protezione dei vigneti. Mi mancherà il rumore del silenzio, quando tutto è calma, quando il vento non soffia e il mare è piatto e immobile.

    (p. 126) le genti che lavorano la terra si notano da lontano: sono più scure, bruciate in viso dal sole.

    (p. 184) bevevo nell’incavo che, attraverso il tempo, lo scorrere dell’acqua stessa aveva creato… II riflesso di quell’acqua limpida mi faceva da specchio… provavo quasi un sensa di magia nel vedere riflessa la fronda di quella pianta, con i raggi del sole che si insinuavano tra i rami …

    Perché un uomo che scrive così racchiude in sé un’infinita ricchezza che si identifica nell’alto spirito poetico che pervade quasi ogni pagina del suo libro.

    Per tale motivo, io concluderò queste mie brevi note riportando una poesia che Angelo Arangio Febo ha scritto scavando profondamente nel suo animo gentile.

    Lorenzo Zaccone

    [1]Mescolanza di vari tipi di uva, sapientemente dosate, per la produzione di varie qualità divino. In particolare, nel contado di Vittoria, si uniscono tre tipi di uva: Nerello d’Avola (circa 55%), Frappato (circa 35%) e Grosso nero di Vittoria (circa 10%), per produrre il vino denominato: Censuolo dl Vittoria.

    [2]In verità, il termine dialettale ragghiuppiari e il suo corrispondente italiano raspollare, sono soprattutto riferibili alla raccolta dei grappolini racemosi di uva, rimasti attaccati alla vite dopo la vendemmia, ma il termine dialettale è usato anche per spigolare.

    Racconti

    Quel giugno del 1943

    Quel giugno del 1943, ai primi del mese, di lì a poco sarebbe cominciata la mietitura del grano, per chi ce l’aveva, ma mio padre non aveva in quel periodo nessun campo seminato a grano, anzi, a dire il vero, non aveva alcuna campagna né a mezzadria né in affitto: possedeva soltanto, in contrada Macconi, avuta come dote di nozze quando si era sposato con mia madre, mezza sarma (tredicimila metri quadrati circa), che allora rendeva quasi nulla.

    Papà era molto preoccupato, in modo particolare quell’anno, per come risolvere il problema di non far patire la fame a tutta la sua famiglia. Perciò decise di partire verso zone molto lontane da Vittoria, mia città natale nel profondo Sud della Sicilia, portando con sé i due figlioletti più grandi; zone che erano ritenute essere il granaio dell’intera isola, dove quel prezioso frutto veniva coltivato su centinaia di ettari.

    Ricordo che la partenza avvenne verso le quattro di quel lontano mattino, in bicicletta, sulla quale nostro padre – oltre a me e a mio fratello Pippo di due anni e mezzo più grande di me, che di anni ne avevo compiuti cinque a marzo – doveva sopportare il peso della provvista di pane per parecchi giorni, nonché i sacchi di juta, qualche coperta e pentole per cucinare. I sacchi di juta avevano una doppia funzione: come pagliericci, riempiti di paglia, per tutto il tempo necessario una volta giunti a destinazione; e poi, si sperava, come contenitori per il grano da portare a casa, in modo da avere farina, quindi pane e pasta, a sufficienza per tutta la famiglia fino al giugno dell’anno successivo.

    Una volta intrapreso il viaggio, col passare delle ore, il caldo diventava via via sempre più intenso, mentre in perfetta sintonia le cicale aumentavano il loro ronzio che diventava assordante e, mescolato al caldo torrido, faceva sì che la mia irrequietezza aumentasse sempre di più; ciò era anche dovuto al fatto che viaggiare seduto di sbieco sulla canna della bicicletta non era certo una comoda posizione. Mio fratello Pippo viaggiava a cavalcioni del portabagagli, comunque in posizione poco comoda anche per lui. Chi

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