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La storia di mano di gomma: Ascesa e declino del boss che da Cutro aveva sfidato la ’ndrangheta del Reggino
La storia di mano di gomma: Ascesa e declino del boss che da Cutro aveva sfidato la ’ndrangheta del Reggino
La storia di mano di gomma: Ascesa e declino del boss che da Cutro aveva sfidato la ’ndrangheta del Reggino
E-book182 pagine2 ore

La storia di mano di gomma: Ascesa e declino del boss che da Cutro aveva sfidato la ’ndrangheta del Reggino

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Il libro di Antonio Anastasi è la prima biografia di Nicolino Grande Aracri, uno dei boss più potenti e spietati della ’ndrangheta. Vertice indiscusso di una cosca che da Cutro si è proiettata nel Nord Italia, soprattutto in Emilia, Grande Aracri ha sfidato equilibri centenari della ’ndrangheta con il suo progetto di una nuova “provincia” mafiosa, autonoma e paritetica rispetto al crimine di Polsi, l’organismo di raccordo che da sempre governa la mafia calabrese. Il libro ricostruisce le relazioni del boss con imprenditori, massoni, uomini politici, fino al tentativo di collaborazione con la giustizia con cui Grande Aracri puntava a salvare i suoi familiari dalle nuove indagini alterando dati processuali. «È una finestra sul mondo oscuro e pericoloso della mafia calabrese, in cui le alleanze e le rivalità, le tradizioni e le leggi non scritte si intrecciano in un labirinto inestricabile di violenza e potere», scrive Antonio Nicaso nella prefazione.
LinguaItaliano
Data di uscita6 set 2023
ISBN9791220502306
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    Anteprima del libro

    La storia di mano di gomma - Antonio Anastasi

    Ringraziamenti

    Al termine di questo lavoro, un ringraziamento particolare va al professor Antonio Nicaso per essere stato presente con i suoi consigli e il suo aiuto e per aver seguito con interesse il progredire di un itinerario lungo il quale mi ha accompagnato addossandosi, senza riserve, anche il peso della lettura. Le attestazioni di gratitudine, a volte, rientrano in un rituale sospettabile di artificiosità o retorica, ma in questo caso sono inadeguate a esprimere la straordinarietà di un’occasione di confronto che rimane per me un privilegio assoluto.

    Prefazione

    Prima della riforma agraria, il Marchesato era controllato da sei-sette grandi proprietari terrieri, tra cui i Baracco e i Berlingieri, il barone Gallucci, il marchese Mottola, il barone Zurlo, il conte Gaetani e il principe di Cerenzia. Questi possedevano ampie terre, mentre la maggior parte della popolazione era costretta a vivere di stenti, come mette in evidenza anche Pier Paolo Pasolini nel suo controverso reportage sul paese dei banditi, pubblicato nel 1959. Di Cutro Pasolini così scrive:

    «a un distendersi delle dune gialle, in una specie di altopiano, […] è il luogo che più m’impressiona di tutto il lungo viaggio. È, veramente, il paese dei banditi, come si vede in certi western. Ecco le donne dei banditi, ecco i figli dei banditi. Si sente, non so da cosa, che siamo fuori dalla legge, o, se non dalla legge, dalla cultura del nostro mondo, a un altro livello».

    Poi, senza tirare pietosi veli sulla realtà, precisa che per banditi intendeva dire emarginati. Avevano la stessa faccia tirata e sofferente dei lavoratori che nell’ottobre del 1949 erano andati a manifestare a Melissa, dove persero la vita Francesco Nigro, Giovanni Zito e Angelina Mauro.

    In quegli anni, la fame e la mancanza di lavoro spingono molti cutresi a emigrare, soprattutto nella zona di Reggio Emilia, dove agli inizi degli anni ottanta arriva anche Antonio Dragone, l’ex carceriere di Paul Getty III e amico dei boss Saro Mammoliti e Luigi Mancuso. Quella di Dragone, ex bidello della scuola elementare di via Rosito a Cutro, non è una scelta dettata dalla necessità. Viene infatti inviato al soggiorno obbligato a Quattro Castella, un comune del Reggiano, perché ritenuto un soggetto pericoloso per la sicurezza e l’ordine pubblico. All’epoca si riteneva ancora che inviando al Nord i mafiosi si potesse colpire il loro prestigio, recidendone il rapporto di sovranità con il territorio di appartenenza. Quello del soggiorno obbligato si è rivelata una misura disastrosa, favorendo in alcuni casi l’espansione delle mafie anche in territori che fino ad allora ne erano privi.

    A Dragone o meglio al suo omicidio, avvenuto nel 2004, comunque, si deve l’ascesa di Nicola Grande Aracri, detto Nicolino, un giovane ambizioso destinato a diventare il boss più potente del crotonese, capace di sfidare gli equilibri centenari della ’ndrangheta con la costituzione di un organismo simile a quello che, nel Reggino, da sempre governa la mafia calabrese.

    Amante di auto di grossa cilindrata, si vantava di comandare su tutta la Calabria. Era il suo sogno, sin da quando aveva partecipato al summit di Polsi, raggiungendo il santuario della Madonna della Montagna a bordo di un’Alfa 164. Alleato dei Nicoscia a Isola Capo Rizzuto, Grande Aracri è riuscito a farsi strada con la violenza, senza disdegnare una certa vocazione imprenditoriale. Aveva creato un sistema che grazie alla fatturazione di servizi per operazioni inesistenti ha coinvolto decine e decine di imprese impossibilitate a denunciarlo, avendo accettato di diventarne complici.

    Dopo aver trasformato il suo clan in un fatturificio, ha riciclato i proventi delle sue tante attività illecite nelle regioni più ricche d’Italia e anche all’estero. Alcune inchieste hanno portato alla luce i suoi investimenti in Africa e i suoi rapporti con imprenditori russi, interessati al cippato, il combustibile a biomassa che si ottiene riducendo il legno in minuscole scaglie. Dalla sua tavernetta in contrada Scarazze, comandava senza dare ordini con il ghigno beffardo di chi sa di avere tanti contatti e molte risorse.

    Il libro di Antonio Anastasi, giornalista attento e scrupoloso, è un resoconto dettagliato della vita e delle attività di Grande Aracri, uno dei boss più potenti e spietati della ’ndrangheta. È una finestra sul mondo oscuro e pericoloso della mafia calabrese, in cui le alleanze e le rivalità, le tradizioni e le leggi non scritte si intrecciano in un labirinto inestricabile di violenza e potere.

    Questa biografia di Grande Aracri non è solo una narrazione di eventi storici, ma racconta anche la vita di un uomo, le sue scelte, le sue motivazioni e le conseguenze delle sue azioni. Il libro mette in evidenza i rapporti che Grande Aracri ha intrattenuto con uomini delle istituzioni, massoni, imprenditori, politici e professionisti. Molti ricordano i commenti di Roberta Tattini, la consulente finanziaria che a Bologna lo aveva più volte incontrato. «Abita a Reggio Emilia, ha la villa a Reggio. È il numero due della ’ndrangheta», diceva la professionista bolognese, riferendosi a Grande Aracri. «[…] Proprio uno ’ndranghetista eh. È un imprenditore [che] però comanda tutta Reggio. Loro mi fan fare un lavoro poi con le aziende, perché rappresentano 140 aziende».

    Nella regione che si credeva immune dal contagio delle mafie, Grande Aracri comandava, come se fosse a Cutro. E con lui tanti altri ’ndranghetisti che si sono inflitrati nel tessuto imprenditoriale e commerciale di Reggio Emilia e dintorni.

    Anastasi racconta anche le fasi del processo Aemilia, ricostruendo quell’intricato reticolo di relazioni che da sempre costituisce l’ossatura del potere mafioso.

    L’ultimo capitolo della storia riguarda la tentata collaborazione con la giustizia, sventata da un altro Nicola che però di cognome fa Gratteri. È stato proprio il procuratore della Repubblica di Catanzaro a smascherare quel disperato tentativo del boss cutrese di salvare i proprio familiari, coinvolti in una serie di inchieste avviate dalla stessa Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro. È l’epilogo di una storia che va conosciuta per capire quanto la legittimazione delle classi dirigenti sia stata determinante per l’affermazione di una genìa di violenti che da soli mai e poi mai avrebbero acquisito così tanto potere da condizionare la vita e le speranze di centinaia di migliaia di persone.

    Antonio Nicaso

    Premessa

    Questa è la storia di Mano di gomma. Una storia che non ha nulla a che fare con quel processo percettivo e illusorio in cui una mano finta viene percepita come vera. Mano di gomma è il soprannome assegnato a un boss sanguinario e violento in seguito a una ferita procuratasi alla mano sinistra durante alcuni lavori agricoli, nel tentativo di frangere le zolle indurite in un terreno argilloso. Il suo vero nome è Nicola Grande Aracri, meglio conosciuto come Nicolino, nato a Cutro, il paese dei banditi – nel senso di emarginati dalla società – come lo aveva definito nel 1959 Pier Paolo Pasolini in un suo noto reportage[1]. Il 1959 è anche l’anno di nascita di Nicolino Grande Aracri, diventato nel tempo uno dei boss più potenti della ’ndrangheta, in grado di creare un «crimine», ovvero un organismo di raccordo, simile e parallelo a quello storico di San Luca e della provincia di Reggio Calabria.

    La storia criminale della sua famiglia inizia con lui. Ma, pur non potendo vantare un lignaggio mafioso, si afferma scalzando le famiglie un tempo dominanti a Cutro e nella vicina Isola Capo Rizzuto, mettendo le mani su parte dell’Emilia, della Lombardia e del Veneto e senza disdegnare proiezioni anche all’estero. Per la prima volta nella storia della ’ndrangheta, quella compiuta da Nicolino Grande Aracri è una vera e propria rivoluzione negli assetti della mafia calabrese, come hanno messo in evidenza alcuni collaboratori di giustizia, a partire dall’ex boss lametino Giuseppe Giampà che ai magistrati ha descritto per filo e per segno il progetto del boss cutrese che era appunto quello di creare una super associazione mafiosa capace di raggruppare i locali di ’ndrangheta dal Vibonese alla Sibaritide. Un progetto che, secondo lo stesso collaboratore di giustizia, si sarebbe interrotto con l’arresto di Nicolino Grande Aracri. Tra le tante conversazioni intercettate in una tavernetta a ridosso dell’abitazione del boss utilizzate dalle Procure distrettuali antimafia di Catanzaro, Brescia e Bologna, ce n’è una molto significativa, in cui il boss cutrese rivendica la propria autonomia. Nel respingere le sollecitazioni provenienti dagli Alvaro di Sinopoli che lo invitavano a mettere fine alla mattanza che stava insanguinando la provincia crotonese, Nicolino Grande Aracri non usa mezze parole:

    «Alvaro... gli ho mandato a dire senza offesa dei riggitani (i boss del Reggino, nda)… che qua ci sono persone non meglio di loro… ma come a loro più o meno... gli ho detto io … Che noi qua sappiamo quello che facciamo … non c’è bisogno che viene il reggitano e ci dice cosa dobbiamo fare e cosa non dobbiamo fare»[2].

    Il tratto caratterizzante della cosca da lui capeggiata è comunque quello dell’imprenditorialità, che si esprime soprattutto in Emilia, meta dell’esodo di migliaia di cutresi. Qui Grande Aracri sovverte il modus operandi – rodato dal clan capeggiato dal suo predecessore, Antonio Dragone – di una ’ndrangheta che si limita a vessare l’im-prenditore conterraneo che non denuncia le estorsioni subite per paura di ritorsioni nei confronti dei suoi familiari rimasti a Cutro. Dalle inchieste che hanno reciso le mille ramificazioni dell’organizzazione criminale il cui quartier generale era situato nella contrada Scarazze di Cutro, emerge una spiccata vocazione alla formazione di una zona grigia anche nelle aree del Centro Nord, costruita attraverso giochi di collusione tra le sfere dell’economia e della politica. La ’ndrangheta cutrese, colonizzatrice della ricca Emilia, ma sbarcata anche in Veneto, nella Bassa lombarda, in Liguria, in Toscana, perfino in Valle d’Aosta, aveva le competenze per realizzare accordi nell’ombra grazie all’apporto di insospettabili professionisti. La consacrazione da un punto di vista giudiziario avviene con la sentenza Aemilia.

    Basti qui ricordare le condanne per 1200 anni di reclusione del primo grado del rito ordinario, poi scesi a sette secoli in Appello, confermati in Cassazione per 73 imputati, con l’aggiunta di una quarantina di condanne passate in giudicato nel rito abbreviato. È emerso che perfino i più grossi industriali emiliani, nonostante solide relazioni con coop rosse e istituzioni locali, andavano a braccetto con gli imprenditori di riferimento di un’organizzazione criminale che continua a disporre di enormi capitali che fanno gola anche al Nord. Certo, non era direttamente implicato il boss e le articolazioni al Nord della super cosca erano relativamente autonome, come acclarato dallo stesso processo Aemilia e dai vari sviluppi investigativi e giudiziari che ne sono seguiti. Ma le varie cellule – non solo quelle stanziate in Emilia – dovevano comunque render conto alla casa madre e come funzionava il sistema Cutro lo ha spiegato efficacemente agli inquirenti un altro collaboratore di giustizia, quell’Antonio Valerio che ha dilagato nel processo Aemilia sfoggiando riferimenti pseudo colti alla criminal pop.

    «Signor presidente, a Reggio Emilia siete tutti, nessuno escluso, sotto uno stato di assedio e assoggettamento ’ndranghetistico che non ha eguali nella storia reggiana; nemmeno i terroristi erano arrivati a tanto». Sono le parole di Valerio, pronunciate in udienza l’11 ottobre 2018 davanti ai giudici del processo. Il Tribunale le riporta come citazione emblematica, in apertura delle 3.200 pagine della storica sentenza. «La ’ndrangheta qui a Reggio Emilia – diceva ancora Valerio, secondo i giudici con una sintesi «efficace e drammatica» – è autonoma, evoluta e tecnologica… Non sono le nostre origini la discriminante, ma ciò che siamo: mafiosi e ’ndranghetisti, maledettamente organizzati». Ciò che fa specie, proseguiva Valerio parlando dell’assoggettamento, «è che la ’ndrangheta lo fa silentemente, prima di arrivare a fatti eclatanti come il ’92. Ha impresso, marchiato a fuoco con il sangue chi doveva comandare a Reggio Emilia, e poi è sceso il silenzio tombale, ciò che sa fare bene la ’ndrangheta»[3].

    Ci sono tutti gli elementi caratterizzanti dell’organizzazione criminale nata in Calabria e i suoi profili evolutivi così come li descrivono gli analisti della Dia nei dossier degli ultimi anni. Una ’ndrangheta silente, camaleontica e sempre più delocalizzata[4] che Grande Aracri, a un certo punto, sembrava volesse raccontare e descrivere, varcando anche lui la soglia della collaborazione con la giustizia. In quei giorni, hanno tremato i palazzi del potere, non solo fanti e colonnelli di un esercito irregolare che aveva colonizzato mezzo Centro Nord. Aveva qualcosa in mente Nicolino Grande Aracri, ma è stato subito smascherato dal procuratore distrettuale antimafia di Catanzaro, Nicola Gratteri, e dal suo sostituto Domenico Guarascio, poco convinti dei racconti farlocchi del boss, nel maldestro tentativo di salvare la moglie, una figlia e il fratello avvocato da nuove indagini[5]. Si è dovuto arrendere. Ancora più eloquente è stato il telegramma inviato ai familiari. «La farsa è finita».

    [1] Pier Paolo Pasolini, La lunga strada di sabbia in Successo, Milano, anno I, n. 6, 1959.

    [2] Procura della Repubblica presso il Tribunale di Catanzaro, procedimento penale n. 5946/10 RGNR – Mod. 21 DDA Fermo di indiziato di delitto (operazione Kyterion).

    [3] Tribunale di Reggio Emilia, sentenza n. 1155 del 31.10.2018, n. 8846 R.G.N.R.. n. 555/16 RG. TRIB.

    [4] Relazione del ministro dell’Interno al Parlamento, Direzione investigativa antimafia, gennaio-giugno 2020.

    [5] Procura della Repubblica presso il Tribunale di Catanzaro, Relazione circa le dichiarazioni di Nicolino Grande Aracri, 9.6.2021.

    1. Gli esordi. Quando guidava l’auto a 14 anni

    A 14 anni sa già guidare l’auto. A 15 anni ne dimostra 30. A 37 comanda in tutta la Calabria, o almeno questo sostiene durante una confessione fiume, ignaro di essere intercettato. Un raccontone autobiografico da cui fa capolino quella paura con cui ammette di aver convissuto sin da quando era un ragazzino. Per esorcizzarla, contrae i muscoli del volto su cui si disegna un ghigno che lo fa sembrare più grande della sua età. Chissà se è per paura che, quando spara, spara in faccia, col rischio di imbrattarsi di sangue le mani, il volto, i vestiti. La paura si trasforma così in violenza ferina. Di lui dicono anche che sia un killer, ma la scalata alla gerarchia del crimine deve ancora iniziare quando parla di quella paura che è costretto a vincere ogni volta e che lo farà balzare al comando di un’organizzazione che non si pone limiti. Un grumo sanguinoso di eventi sta per impastarsi mentre è ancora in nuce il progetto della super associazione mafiosa della quale avrebbero dovuto far parte tutte le cosche della Calabria mediana e settentrionale. Una rivoluzione nella geografia della criminalità organizzata calabrese perché mai nessuno aveva osato tanto. Nessuno era stato così temerario da

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