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Il vangelo secondo Don Stilo: Il prete scomodo che per forza doveva essere mafioso
Il vangelo secondo Don Stilo: Il prete scomodo che per forza doveva essere mafioso
Il vangelo secondo Don Stilo: Il prete scomodo che per forza doveva essere mafioso
E-book195 pagine2 ore

Il vangelo secondo Don Stilo: Il prete scomodo che per forza doveva essere mafioso

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Info su questo ebook


Conversazione con Francesco Kostner

Questo libro racconta la storia di don Giovanni Stilo che ad Africo, un piccolo centro in provincia di Reggio Calabria distrutto  dall’al- luvione del 1951, si rende protagonista di una straordinaria iniziativa di crescita sociale e civile. Anche la costruzione di Africo nuovo è il frutto dell’appassionata e coraggiosa battaglia di questo sacerdote, la cui opera provoca disagio, rabbia, desiderio di vendetta in chi, su posizioni politiche opposte, non riesce a contenerne l’esuberante azione. Gli extraparlamentari, che nella Locride hanno radici storiche, e in seguito gruppi di comunisti, denunciano don Stilo di connivenza con la mafia. Un pentito, che sostiene di averlo visto in un summit insieme con alcuni boss, contribuisce a mettere in moto un perverso meccanismo che, ben presto, stritola il prete di Africo. Seguono il suo arresto e diversi processi per favoreggiamento e vendita di diplomi scolastici. Dopo quattro anni, il sacerdote viene riconosciuto completamente estraneo alle vicende che gli erano state contestate.


 
LinguaItaliano
Data di uscita17 apr 2020
ISBN9788868229030
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    Anteprima del libro

    Il vangelo secondo Don Stilo - Costantino Belluscio

    Collana

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    COSTANTINO BELLUSCIO

    Il vangelo

    secondo don Stilo

    Il prete scomodo che per forza

    doveva essere mafioso

    Conversazione con
    Francesco Kostner

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Stampato in Italia nel mese diaprile 2020 per conto di Pellegrini Editore

    Via Camposano, 41 (ex via De Rada) - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.it - www.pellegrinieditore.com

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    A don Giovanni Stilo e a quanti come lui sono stati vittime della mala giustizia, perché la loro sofferenza non si rinnovi in un’Italia che desideriamo giusta, civile, democratica e dove i giudici, sereni e liberi da ogni condizionamento, tornino ad essere soggetti alla legge e di essa siano supremi garanti.

    Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati...

    Beati i perseguitati per la giustizia,

    perché di essi è il regno dei cieli... Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi...

    Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli...

    (Dal Vangelo secondo Matteo-5.1-12)

    Sono grato alle Edizioni Luigi Pellegrini per la ristampa del libro-intervista che Costantino Belluscio (ultimo atto della sua lunga esperienza di giornalista, parlamentare e uomo di Governo) ha dedicato alla vicenda umana e giudiziaria di don Giovanni Stilo. Un’iniziativa utile alla Verità, alla Giustizia, al Paese, scrisse in un biglietto che conservo gelosamente, sottolineando la non casualità delle lettere maiuscole utilizzate per quelle tre parole.

    Belluscio mi chiese di aiutarlo a scrivere la storia del sacerdote di Africo nell’autunno del 2009. Lo raggiunsi nella sua abitazione romana, a un passo dal Senato, trovandolo come sempre molto motivato, ma stanco. Molto più di quanto la voce al telefono mi avesse fatto già intuire.

    Mi avvertì che sarebbe stato diverso da come era accaduto con l’intervista pubblicata qualche anno prima, relativa alla sua collaborazione con il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, dal 1964-1970. «Devi pensarci bene», disse, «perché dovremo fare i conti con un mondo sempre più affollato di persone che non credono nella presunzione di innocenza. E potresti trovarti solo, un giorno, a fronteggiare l’assalto di adulatori di professione e servi sciocchi, di procure e giornali».

    Conosceva già la mia risposta. Sapeva perfettamente quanto mi riconoscessi (e ancor più convintamente creda oggi) nel valore giuridico, culturale e politico del garantismo. Ma sapeva anche che gli mancava poco da vivere e per questo mi chiese di accelerare i tempi. Un compito affatto semplice, vista la complessità della vicenda umana e giudiziaria di don Giovanni Stilo, ma che mi impegnai a portare a termine prima possibile. Per fortuna, Belluscio vide il libro appena qualche giorno prima di morire, il 10 febbraio 2010. Lo strinse forte tra le sue mani, dopo avere accarezzato le mie, lasciandosi andare a un sorriso liberatorio.

    Sono trascorsi dieci anni da allora e oggi, grazie a questa ristampa, è possibile non soltanto recuperare alla memoria collettiva la vera storia del sacerdote di Africo, ma apprezzare anche la passione, le idee, l’attualità di Costantino Belluscio. Colto. Illuminato. Lungimirante. Coraggioso. Pronto a scendere in campo, anche a rischio dell’impopolarità (come successe con don Stilo), pur di difendere principi e valori che riteneva giustamente intoccabili.

    Una figura che ha lasciato un vuoto incolmabile, in Calabria e nel Paese. Un esempio di coerenza e passione civile. Merce rara di questi tempi. Bui. Incerti. Anche per l’assenza di figure come Belluscio, cui non solo i socialisti, ma ogni cittadino che si riconosca nei valori della democrazia, deve essere grato.

    (f.k.)

    Presentazione

    Un contributo alla verità

    La vicenda del parroco di Africo don Giovanni Stilo arrestato, processato e condannato a 7 anni di reclusione in primo grado e in appello per associazione a delinquere di stampo mafioso ma infine assolto con formula piena, dopo 13 mesi di carcere e molti altri di arresti domiciliari e di soggiorno obbligato, è durata molto più dei cinque anni intercorsi tra l’arresto e l’assoluzione definitiva, preceduta com’è stata da una lunga campagna politica e di stampa, iniziata almeno trent’anni prima dell’arresto, più o meno da quando il fratello Salvatore aveva vinto le elezioni, capeggiando la lista della Democrazia cristiana e diventando sindaco di quello sventurato paese distrutto non si sa se più dalle alluvioni o dalle faide mafiose, politiche e giudiziarie.

    Il libro scritto a dieci anni dalla morte di don Stilo da Costantino Belluscio, che non ha mai creduto alle accuse e ha difeso il prete fuori e dentro il Parlamento fin dal giorno dell’arresto, e ricostruisce puntigliosamente la vicenda, merita di essere letto e meditato, anche per capire meglio ciò che è successo in Calabria negli ultimi trent’anni e che ha ridotto questa regione alle condizioni attuali, con una società civile sempre più depressa e impotente, senza più una classe politica degna di questo nome e con la sua ’ndrangheta che era la mafia con le pezze al culo ed è diventata la mafia più ricca e potente d’Europa.

    La vicenda di don Stilo, per quanto apparentemente periferica, si inscrive perfettamente nel terremoto giudiziario che ha distrutto la Calabria: dalla inchiesta planetaria promossa dall’allora procuratore di Palmi Agostino Cordova contro la massoneria, la massomafia, come la chiamarono, che coinvolse centinaia di indagati e persino capi di Stato esteri e cardinali e che raccolse una tale mole di documenti, intercettazioni, avvisi di reato, mandati di cattura, che non fu più possibile conservarli a Palmi e dovettero trasferirli a Roma con un camion al ministero, dove marcirono per anni, rosicchiati dai topi, finché l’inchiesta non fu archiviata per l’assoluta inesistenza e inconsistenza dei presupposti penali, fino al processo per mafia a Giacomo Mancini, non a caso rievocato da Belluscio nel suo libro, quando il figlio del fondatore del socialismo in Calabria, che è stato per trent’anni deputato e dieci volte ministro e segretario del partito socialista e sindaco di Cosenza fu processato per mafia, in base al teorema che «in Calabria non si può fare politica senza il sostegno della ’ndrangheta», e fu assolto dopo sette anni di processi, ma dalla vicenda uscì irrimediabilmente minato nel fisico, se non nel morale, e fu colpito da un ictus, fece ancora per qualche anno il sindaco di Cosenza, eletto plebiscitariamente, ma ne morì.

    Ci sono stati magistrati in Calabria che sono arrivati a teorizzare che bisognava «azzerare la classe politica calabrese e una nuova classe politica esisterà solo quando saranno cresciuti i bambini che ora fanno le scuole medie». E ci sono riusciti innescando decine e decine di processi durati anni e anni e definiti pomposamente operazioni, l’operazione Aspromonte, l’operazione Olimpia, con l’emissione contemporanea di 500 ordini di cattura, l’operazione Galater, hanno distrutto la Democrazia cristiana e il Partito socialista, poi hanno dato addosso a Alleanza nazionale, con una retata a Reggio Calabria, dove hanno notificato 38 avvisi di reato, hanno arrestato due ex deputati, hanno sequestrato un giornale, arrestandone il direttore e un collaboratore e un coraggioso e combattivo avvocato, che fu definito dal Presidente della Repubblica l’Ambrosoli del Sud, e coinvolgendo nelle indagini il sottosegretario al ministero della Giustizia e il vice presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, tutti accusati di complottare contro la magistratura per favorire la mafia, tutti alla fine assolti, ma distrutti nella salute, nell’onore e nella carriera. Con il risultato che la vecchia classe politica calabrese è stata distrutta, al centro, al centrosinistra, a destra, ma la nuova non è nata, e la ’ndrangheta ne ha preso direttamente il posto, padrona del territorio, dei centri di potere, della sanità.

    Gli strumenti di questa gigantesca epurazione sono stati i pentiti, i falsi pentiti della ’ndrangheta definiti per la loro ferocia e le loro falsità belve senza pelo, da questo Franco Brunero, pluripregiudicato e cocainomane, l’accusatore di don Stilo, di cui parla a lungo Belluscio nel libro, agli accusatori di Mancini, quel Franco Pino che durante il processo aveva depositato a suo nome nelle banche di Cosenza, alla luce del sole, sette miliardi delle vecchie lire e li prelevava tranquillamente per finanziare le sue attività criminali, a quel Giacomo Achille Lauro, definito dai magistrati entusiasti di lui «il Tucidite della ’ndrangheta», che con le sue rivelazioni aveva riscritto tutta la storia di Reggio Calabria e della Calabria intera, che spillò allo Stato svariati miliardi reinvestiti nel commercio della cocaina, finché, dopo anni, fu smascherato e arrestato.

    Sui pentiti la Calabria detiene un record mondiale, l’unica pentita al mondo che dallo Stato ha ricevuto, oltre che l’immunità, la protezione e lo stipendio, la medaglia d’oro del Presidente della Repubblica per i suoi meriti di collaboratrice di giustizia, quella Rosetta Cerminara che sostenne di essere stata teste oculare dell’omicidio di un ispettore di polizia e accusò del delitto il suo ex fidanzato e un suo amico, che furono arrestati processati e condannati, e poi si scoprì che al momento del delitto Rosetta era dal parrucchiere. Che tutto si era inventato per vendicarsi del fidanzato che l’aveva lasciata, che gli assassini erano altri, i due innocenti furono scarcerati, ma uno dei due morì di cancro contratto mentre era in carcere, mentre Rosetta si è tenuta i soldi dello Stato e la medaglia d’oro.

    I magistrati che si sono serviti di questi pentiti sono sempre gli stessi, il sostituto procuratore Roberto Pennisi che detta il programma per azzerare la classe politica, il Carlo Macrì che arresta don Stilo e di lui parla Belluscio nel libro, il Salvatore Boemi che definisce Mancini «quell’uomo malato di politica» e il suo sostituto Giuseppe Verzera, il Vincenzo Macrì che continua da anni a coordinare la politica antimafia in Calabria assieme al suo sostituto Francesco Mollace, quel Lembo, collega di stanza di Vincenzo Macrì, processato e condannato a Messina per la gestione irregolare del falso pentito Sparacio, e tanti altri che hanno fatto come e peggio di costoro, e su di loro ci sono decine di interrogazioni parlamentari, decine di ispezioni ministeriali, decine di denunce al Csm, che vanno dall’accusa di aver firmato sentenze censurabili a quelle di abuso di potere a quelle di aver violato i limiti di tempo e di competenze nell’occupazione degli uffici a quelle di aver gestito abusivamente e oltre i tempi consentiti i pentiti e di averne abusivamente trattenuto i verbali degli interrogatori.

    Tutte interrogazioni e denunce, tranne qualche eccezione, che si sono arenate o sono state imboscate.

    E ci sono accuse reciproche tra procura e procura, tra procuratore e procuratore, tra procuratore e sostituti, tra sostituti e sostituti, con i carabinieri spediti da una procura a sequestrare gli atti giudiziari dell’altra e viceversa, come nel recente caso De Magistris.

    Nell’ultimo dibattito svoltosi in Parlamento, durante la scorsa legislatura e il governo Prodi, il sottosegretario alla Giustizia, l’insospettabile Luigi Li Gotti, che è stato l’avvocato del famoso Tommaso Buscetta e di molti altri pentiti ed è stato recentemente eletto senatore nelle liste di Antonio Di Pietro, ha dichiarato testualmente, rispondendo agli interroganti, che «la Giustizia in Calabria è ridotta a un maleodorante verminaio».

    È in questo contesto che bisogna leggere e collocare il libro di Costantino Belluscio, a prescindere dalla sua appassionata e coraggiosa difesa di don Giovanni Stilo. Non può che far bene alla causa della verità e della Giustizia.

    Lino Jannuzzi

    Prefazione

    Ricordando don Giovanni Stilo

    Il 7 dicembre 1988 il Santo Padre Giovanni Paolo II mi nominò vescovo di Locri-Gerace. In quel tempo la vicenda di don Giovanni Stilo era alla ribalta nazionale. Arrestato a Montecatini, dove si trovava per le cure termali, veniva ritenuto responsabile di irregolarità nella gestione della Scuola Magistrale, con intrecci mafiosi. Don Stilo era parroco di Africo nuovo. Naturalmente, come il buon padre di famiglia ha cura di tutti i suoi figli, specialmente di coloro che vivono in difficoltà, così il vescovo, quale buon pastore, deve avere cura di tutte le sue pecorelle, in modo speciale di quelle che restano impigliate tra le spine. Avvertivo, pertanto, il dovere di far sentire a don Giovanni la mia amorevole vicinanza, ancor prima di essere consacrato vescovo. Gli scrissi, esortandolo ad aver fiducia nella giustizia divina e ricordandogli, col Manzoni, che Dio non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per procurarne loro una più grande e più certa. Intanto, ordinato vescovo, feci il mio ingresso nella diocesi di Locri-Gerace la sera dell’11 marzo 1989. Al mattino del 12, prima di salire a Gerace, ottenni di incontrare don Stilo che, proprio in quel mattino, veniva accompagnato dalle forze dell’ordine in esilio forzato.

    Non avevo mai visto fisicamente don Stilo prima di allora. Fu un incontro cordiale nel quale manifestò la sua gratitudine e protestò la sua innocenza, irradiando le note contraddistintive di una personalità forte e compatta. Lo incoraggiai e lo esortai ad aver fiducia, ma soprattutto a riscoprire e a vivere con fedeltà il suo sacerdozio, quale partecipazione alla missione salvifica di Cristo. Naturalmente, come è noto, seguirono processi lunghi e contrastati, ma alla fine don Giovanni Stilo uscì completamente scagionato.

    Dopo qualche tempo ed una pausa di assestamento e rassicurazione della comunità, lo reintegrai nell’ufficio di parroco, proprio ad Africo, dove ricominciò, con rinnovato ardore, la sua missione pastorale. È chiaro che sullo sfondo di questa intricata vicenda io mi sono posto un interrogativo: perché è avvenuto tutto ciò? La risposta la trovo nella mia esperienza, maturata in quegli anni difficili, ma anche esaltanti, della mia permanenza nella Locride. In modo diretto, infatti, ho potuto verificare la personalità complessa e assai forte di don Giovanni Stilo. Dotato di intelligenza vivida e buona preparazione professionale, riusciva con parola tagliente a penetrare la mente dell’ascoltatore e a muovere il cuore all’adesione, sollecitata sempre con singolare passione. Nella semplicità di un contesto popolare, qual era la vecchia Africo

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