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I grandi delitti che hanno cambiato la storia d'Italia
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E-book651 pagine9 ore

I grandi delitti che hanno cambiato la storia d'Italia

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Gli eroi civili e gli uomini dello stato uccisi da mafia, camorra e terrorismo

Negli ultimi cinquant’anni mafia, camorra e criminalità comune hanno compiuto una mattanza che non ha eguali in nessuna parte del mondo: l’Italia è il Paese con il maggior numero di vittime che appartengono alla società civile, al mondo delle professioni, alla Chiesa, alle forze dell’ordine e alle istituzioni. Il lungo elenco dei “delitti eccellenti” comprende politici, magistrati, giornalisti, docenti universitari, avvocati, poliziotti, carabinieri, parroci. Uomini che hanno scelto di mettere l’amore per la giustizia e la verità al primo posto: una scelta che è costata loro la vita. Ma l’orrore per queste esecuzioni ha scosso l’opinione pubblica al punto da far diventare queste vittime dei simboli della lotta contro le ingiustizie, un monito eterno a non dimenticare che l’indifferenza uccide. Questo libro fa luce sui delitti che hanno spesso messo in pericolo le istituzioni e talvolta cambiato in modo profondo il percorso della storia del nostro Paese.

Politici, magistrati, preti e giornalisti: uomini della società civile e delle istituzioni barbaramente assassinati

Alcuni tra i casi presenti nel libro:
Luigi Calabresi
Carlo Casalegno
Piersanti Mattarella
Vittorio Bachelet
Walter Tobagi
Giuseppe Salvia
Raffaele Delcogliano
Pio La Torre
Carlo Alberto dalla Chiesa
Rocco Chinnici
Don Peppino Romano
Salvo Lima
Ignazio Salvo

Bruno De Stefano
Giornalista professionista, ha lavorato per diversi quotidiani, tra cui il «Corriere della Sera», «Corriere del Mezzogiorno», «La Gazzetta dello sport» e «City». Tra le sue pubblicazioni per la Newton Compton La camorra dalla A alla Z; Storia e storie di camorra; La casta della monnezza; La penisola dei mafiosi; I delitti di Napoli; I boss della camorra; Napoli criminale, I boss che hanno cambiato la storia della malavita e I nuovi padrini (scritto con Vincenzo Ceruso e Pietro Comito). Nel settembre del 2012 ha vinto il Premio Siani con il volume Giancarlo Siani. Passione e morte di un giornalista scomodo.
LinguaItaliano
Data di uscita7 ott 2019
ISBN9788822738042
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    Anteprima del libro

    I grandi delitti che hanno cambiato la storia d'Italia - Bruno De Stefano

    Pietro Scaglione

    procuratore della Repubblica

    Suo malgrado è stato il primo di una lunga serie. In quel periodo, però, un evento del genere era inimmaginabile. Pietro Scaglione, procuratore capo a Palermo, fu assassinato il 5 maggio del 1971: era la prima volta che la mafia uccideva un rappresentante delle istituzioni. Quell’agguato, nel quale morì anche l’agente di custodia Antonino Lo Russo che gli faceva da autista, colse tutti alla sprovvista. Magistrati, forze dell'ordine, politici e giornalisti fecero non poca fatica a comprendere perché Cosa Nostra avesse deciso di ricorrere alle pistole e ai mitra per sbarazzarsi di un giudice che da lì a poche settimane sarebbe andato via dall’inquieta Palermo per sedersi sulla meno impegnativa ma più prestigiosa poltrona di procuratore generale a Lecce.

    Cosa aveva fatto di così grave Scaglione per costringere la mafia palermitana ad accantonare le faide interne per andare a infilarsi sull’incerto terreno dello scontro con lo Stato? Per lungo tempo a questa domanda nessuno è riuscito a fornire una risposta convincente a causa delle voci contrastanti che circolavano sulla vittima: c’è chi lo riteneva un onesto rappresentante della legge, chi un uomo dalle amicizie discutibili e spericolate. Scaglione aveva indubbiamente firmato provvedimenti importanti contro le cosche, ma nel corso della sua permanenza a Palermo aveva avuto rapporti talvolta tempestosi con le forze dell’ordine, aveva subito pesanti attacchi dai giornali e in una relazione della Commissione parlamentare antimafia si era avanzato il sospetto che avesse favorito la fuga del boss di Corleone Luciano Liggio. Un sospetto per il quale era finito davanti al Consiglio superiore della magistratura (csm) che però sentenziò che la sua condotta era stata impeccabile.

    Per poter comprendere lo scenario che fece da sfondo all’assassinio bisogna necessariamente contestualizzare i fatti. Negli anni Settanta carabinieri, polizia e magistrati lottavano contro la mafia quasi a mani nude, le leggi a disposizione non erano tali da poter assestare colpi mortali a un fenomeno che si stava espandendo e che dalle campagne si lanciava alla conquista della città. Scaglione il suo lavoro lo aveva sempre fatto pur nelle limitazioni imposte da un arsenale legislativo inadeguato; i risultati non erano mai stati pari alle intenzioni e i processi a centinaia di mafiosi si erano conclusi con un numero altissimo di assoluzioni per insufficienza di prove. E la colpa non era certo di Scaglione, che però qualche errore probabilmente lo aveva pure commesso. I detrattori sostennero che aveva indubbiamente adoperato il pugno di ferro contro alcuni boss, a partire proprio da Liggio, ma aveva tenuto una condotta meno intransigente in altri casi. Col tempo la sua figura verrà completamente riabilitata da molti suoi autorevoli colleghi, tra i quali Franco Roberti, procuratore nazionale antimafia dal 2013 al 2017:

    Conosceva Palermo e il mondo della mafia, e aveva intuito anche le trame più oscure della crescita di Cosa Nostra della quale invece ancora si ignoravano la struttura organizzativa e la composizione delle famiglie. Erano anni in cui la giustizia aveva in qualche modo le mani legate perché la legislazione contro la criminalità organizzata non era ancora adeguata, tanto che i processi di Bari e di Catanzaro nel 1969 si erano conclusi con numerose assoluzioni per insufficienza di prove. In tanti, negli anni successivi, hanno riconosciuto al procuratore Scaglione meriti e onori riconoscendo la sua figura di magistrato integerrimo e di prima vittima istituzionale della mafia come si legge anche in una relazione della Commissione antimafia del 1976 a firma di Cesare Terranova, un altro magistrato che avrebbe pagato con la vita il suo impegno contro la mafia. Giovanni Falcone scrisse che l’uccisione del procuratore Scaglione ebbe sicuramente «lo scopo di dimostrare a tutti che Cosa Nostra non soltanto non era stata intimidita dalla repressione giudiziaria, ma che era sempre pronta a colpire chiunque ostacolasse il suo cammino».¹

    Una ricostruzione dei fatti minuziosa, almeno sul piano giudiziario, non è stata possibile. Mandanti ed esecutori dell’omicidio del procuratore sono rimasti senza nome, nonostante alcuni collaboratori di giustizia – come Tommaso Buscetta – abbiano fornito elementi sui quale indagare. Ma nel 1991 il procedimento è stato archiviato e nessuno ha pagato per la morte di Scaglione e dell’agente Lo Russo.

    ***

    Avrebbe potuto accontentarsi di proseguire l’attività del padre, un facoltoso proprietario terriero, ma sceglie tutta un’altra strada. Pietro Scaglione, nato a Lercara Friddi (Palermo), è cresciuto a pane e disciplina, è uno studente modello, uno al quale piace sgobbare sui libri. Ha solo 22 anni quando si laurea in Giurisprudenza e ne ha 28 quando vince il concorso in magistratura. La sua carriera si svolge tutta a Palermo: il primo incarico è da vicepretore, poi diventa pretore e infine arriva alla procura della Repubblica come sostituto. La routine quotidiana del dopoguerra viene fragorosamente interrotta da un evento che segnerà la storia del nostro Paese.

    Il primo maggio del 1947 duemila contadini celebrano la Festa dei lavoratori, una manifestazione pacifica che si dovrà concludere con comizio di Giacomo Schirò, segretario della sezione socialista di San Giuseppe Jato. Quando Schirò sale sul palco ha solo il tempo di pronunciare poche parole: «Compagni, siamo qui per festeggiare il Primo Maggio, festa del lavoro�», poi succede il finimondo. Da qualche centinaio di metri di distanza qualcuno inizia a sparare con i mitra sulla folla, i duemila contadini cercano disperatamente riparo, senza rendersi neppure conto da quale direzione provengano gli spari. Sul «Corriere della Sera», l’inviato Egisto Corradi scriverà: «Urlavano i feriti, la folla impazziva, si precipitava in ogni senso, ognuno gettandosi a terra a cercare riparo tra i sassi. I pochi che nel tempestoso frangente conservarono lo spirito nitido videro dal colle vicino, Monte Cometa, uomini ritti in piedi e intabarrati, seguire immobili la scena, armi al piede. Sul terreno sette cadaveri e una trentina di feriti». Dietro la mattanza c’è il bandito Salvatore Giuliano. Alla fine si contano 11 morti e 56 feriti.

    Scaglione è il sostituto procuratore che si occupa delle indagini sulla strage da lui definita «infame, ripugnante e abominevole». E nelle carte depositate il 31 agosto del 1953, nel fascicolo Atti relativi ai mandanti della strage di Portella della Ginestra, sostiene che la carneficina fu motivata dalla «difesa del latifondo e dei latifondisti» e che Giuliano e la sua banda si esposero per accreditarsi come «i debellatori del comunismo per poi ottenere l’amnistia». Il magistrato aggiunge che Giuliano «mostrò sempre di odiare e di osteggiare» il comunismo e che con la mattanza del primo maggio manifestò la volontà di «usurpazione dei poteri di polizia devoluti allo Stato» e volle punire i contadini che cacciavano i banditi dalle campagne. Nel ricostruire quanto è accaduto il magistrato evita di cadere nella trappola dei depistaggi e va oltre, come racconta il giornalista Pietro Scaglione, nipote del procuratore:

    Mio nonno respinse il tentativo di coinvolgere il Pci – operato dagli ambienti conservatori – e archiviò per assoluta infondatezza la denuncia del giornalista Vincenzo Caputo contro il senatore comunista Girolamo Li Causi. «Giuliano non strinse mai intese con il Partito comunista, verso cui mostrò sempre la più irriducibile avversione e l’odio più tenace», sentenziò il magistrato Scaglione. D’altronde, la storia stessa del banditismo smentiva la tesi di Caputo (condivisa dal ministro degli Interni, Mario Scelba). Nei sette anni del lungo dopoguerra siciliano, infatti, i principali bersagli della banda Giuliano furono le sedi dei sindacati e dei partiti di sinistra: una strategia anticomunista e anticontadina culminata nell’orrenda strage di Portella della Ginestra. Mio nonno scagionò da qualunque sospetto anche la sinistra separatista siciliana dell’avvocato Nino Varvaro, che aderì al Blocco del Popolo, il fronte unitario delle forze socialiste e comuniste. La ragione era semplice: Giuliano «si orientò politicamente genericamente verso i partiti anticomunisti, come risultò dalle deposizioni dei suoi familiari», quindi non avrebbe mai potuto stringere accordi con il Blocco del Popolo.²

    Agli inizi del 1954 Scaglione torna sotto la luce dei riflettori quando Gaspare Pisciotta, il numero due della banda Giuliano rinchiuso nel carcere dell’Ucciardone, chiede di incontrarlo perché vuole fare delle dichiarazioni che lui stesso definisce sconvolgenti. Nonostante la controversa personalità di Pisciotta, l’incontro potrebbe essere utile per comprendere una serie di misteri che Giuliano (morto quattro anni prima) si è portato nella tomba e che riguardano soprattutto i suoi rapporti con i rappresentanti del potere, a partire dai politici. Scaglione si presenta all’Ucciardone insieme a un cancelliere che ha il compito di verbalizzare. Pisciotta però vuole parlargli a quattr’occhi; il magistrato non accetta questa imposizione, sul piano formale – e anche sostanziale – non può e non vuole farlo. Scaglione ribadisce che la presenza del cancelliere è necessaria, ma Pisciotta rinuncia a parlare chiedendo una pausa di riflessione. La pausa si rivela eterna: il 9 febbraio una mano ignota avvelena Gaspare Pisciotta con della stricnina mescolata a un medicinale vitaminico. Qualcuno, dunque, è corso ai ripari e ha ucciso il vice di Giuliano per impedirgli che rivelasse quei particolari sconvolgenti.

    L’anno dopo il procuratore indaga su un altro delitto di mafia, quello del sindacalista socialista Salvatore Carnevale, assassinato con sei colpi di lupara il 16 maggio 1955 mentre stava andando al lavoro. Scaglione riesce a incastrare gli autori del delitto che saranno poi processati e condannati in primo grado, ma il verdetto sarà ribaltato in Appello e in Cassazione e le condanne convertite in assoluzioni per insufficienza di prove. L’avvocato di parte civile era Sandro Pertini, futuro presidente della Repubblica.

    Lungo il suo percorso professionale il magistrato si imbatte in un altro evento che suscita orrore in tutto il Paese: la strage avvenuta nella borgata palermitana di Ciaculli. Il 30 giugno del 1963 un’Alfa Romeo Giulietta imbottita di esplosivo, destinata ai mafiosi della zona, salta in aria uccidendo il tenente dei carabinieri Mario Malausa, il maresciallo di pubblica sicurezza Silvio Corrao, il maresciallo dei carabinieri Calogero Vaccaro, gli appuntati Eugenio Altomare e Marino Fardelli, il maresciallo dell’esercito Pasquale Nuccio, il soldato Giorgio Ciacci.

    Quando apprende la notizia, Scaglione si fa immediatamente portare sul posto e la scena a cui assiste lo turba non poco. I colleghi delle vittime urlano che per i mafiosi ci vorrebbe la legge marziale, ma lui prova a placare la rabbia con una solenne promessa: «Anche senza legge marziale, ma nel rispetto della legge e dei diritti, noi ci impegneremo a far luce su questa grave strage». I mafiosi sospettati di aver provocato morti e feriti saranno indagati, processati e poi assolti nel processo di Catanzaro che si conclude nel 1969 con decine e decine di assoluzioni per insufficienza di prove.

    Quel che è accaduto a Ciaculli provoca sconforto nel procuratore, una frustrazione che aumenta con l’impossibilità di punire chi aveva commesso un atto così terribile. Racconterà il figlio Antonio:

    Ricordo che quella sera mio padre rientrò a casa sconvolto da quella strage. Erano anni particolarmente difficili per la magistratura e gli organi politici. Non esisteva ancora un delitto specifico di associazione di tipo mafioso, ma la semplice associazione a delinquere. Erano completamente assenti i moderni strumenti tecnologici e informatici, e non esistevano i metodi investigativi di oggi, l’omertà era dilagante, il materiale probatorio dell’epoca si componeva di rapporti di polizia che, basati spesso su voci e indiscrezioni, non reggevano poi in dibattimento. La mafia per molti politici non esisteva e quando se ne ammetteva l’esistenza, lo si faceva ritenendola un fenomeno emergenziale. Sullo sfondo però di un compulso scenario di assassini e stragi.³

    Pur non avendo strumenti legislativi all’altezza della gravità della situazione, il procuratore il suo lavoro contro la mafia lo fa ugualmente:

    Scaglione recita dure requisitorie contro la banda Giuliano. È lui l’autore del rapporto La Barbera e del 54 + Torretta, faldoni fondamentali per istruire il grande processo alla mafia di Catanzaro. Scaglione è uno dei pochi siciliani a battersi per la legge antimafia del 1965 e per il soggiorno obbligato da infliggere ai mafiosi anche in mancanza di difesa. Misure che colpiranno proprio quel Luciano Liggio fuggito dalla clinica romana. Non è per nulla casuale che il primo mandato di cattura del capo dei corleonesi porti la firma di Pietro Scaglione.

    Il nome del procuratore è legato a un altro mistero rimasto irrisolto, la scomparsa di Mauro De Mauro, giornalista del quotidiano «L’Ora», sequestrato nel giugno del 1970 e mai più tornato a casa. Stando alla testimonianza del collega Bruno Carbone, pochi giorni prima di finire inghiottito nel nulla, De Mauro era andato a parlare con Scaglione per riferirgli di aver saputo qualcosa di grosso:

    Il giornalista in quella estate del 1970 si mostra molto nervoso e preoccupato. Poi un giorno confida al giovane suo allievo Carbone: «Ho una cosa per le mani che sconvolgerà l’Italia». Ma De Mauro per riservatezza professionale non rivela la notizia a nessuno. Passano giorni e roso dall’incertezza De Mauro chiede consiglio al compagno di banco che gli suggerisce: «Vai dal procuratore Scaglione, raccontagli tutto». E De Mauro così fece in un tardo pomeriggio di quel settembre del 1970. Al ritorno dalla procura dirà a Carbone: «Grazie, ora mi sento sollevato». Sparirà per sempre pochi giorni dopo. Per l’Arma dei carabinieri la pista della scomparsa di De Mauro è sempre stata legata alla droga. È accertato che il colonnello Dalla Chiesa consegnò un dossier con dei nomi a Scaglione. Un dossier che il procuratore non volle consegnare all’Antimafia alimentando molti sospetti sul suo ruolo nel coordinamento delle indagini su De Mauro. Il magistrato aveva covato dei rancori sulla posizione del giornale rispetto alla fuga di Liggio, mentre «L’Ora» imputava a Scaglione personali responsabilità sulla tragica sparizione del suo cronista.

    Che De Mauro sia andato dal procuratore a raccontargli ciò che sapeva lo confermerà anche il giudice istruttore Cesare Terranova qualche anno dopo. Terranova racconterà che De Mauro bussò alla porta del suo ufficio per salutarlo e per annunciargli che aveva scoperto qualcosa di grosso e che quella mattina sarebbe andato in procura.

    ***

    Con quello che succede a Palermo, la carriera di Scaglione è assai movimentata. Ma quando tutto sembra procedere senza intoppi particolari, inciampa su un personaggio che lui conosce benissimo: Luciano Liggio. Il procuratore è stato tra i primi a indagare sul boss di Corleone ed è stato lui a proporre il soggiorno obbligato. Solo che per un pasticcio tra il magistrato e la polizia, Liggio non viene arrestato in tempo e riesce a scappare da una clinica romana. La vicenda finisce con il questore Paolo Zamparelli che viene trasferito e con Scaglione che finisce davanti al Consiglio superiore della magistratura. Al cospetto dei colleghi, il procuratore si difende con tutte le energie che ha, respinge le accuse di aver dolosamente contribuito alla fuga del padrino e alla fine riesce a essere convincente. Il csm però opta per una soluzione salomonica: non c’è nessun procedimento disciplinare né qualcos’altro che somigli seppur vagamente a una punizione. C’è, invece, una promozione – o, secondo i maliziosi, un trasferimento – a procuratore generale di Lecce. In Puglia dovrà trasferirsi prima dell’estate del 1971.

    Ma all’estate del 1971 Pietro Scaglione non ci arriva. Chi ha deciso di ucciderlo, sceglie il luogo e l’ora in cui è più vulnerabile. Scaglione è un abitudinario, e questo facilita il compito degli assassini: sanno perfettamente che ogni mattina il magistrato va al cimitero per pregare sulla tomba della moglie Concetta Abate. È un appuntamento fisso, oramai, da quattro anni. La mattina del 5 maggio il magistrato si intrattiene con il figlio Antonio a casa fino alle 10:00. Poi l’autista Lo Russo va a prelevarlo per portarlo al cimitero. Intorno alle 11:00 il magistrato esce dal camposanto, fuori c’è l’autista che lo aspetta, davanti alla macchina di servizio, una Fiat 1100. I due si avviano verso il palazzo di Giustizia, ma all’altezza di via Cipressi – una strada assai stretta – una Fiat 850 costringe Lo Russo prima a rallentare e poi a fermarsi con il muso della vettura quasi di fronte al muro: dall’auto scendono tre persone armate che sparano a ripetizione. Scaglione e l’autista muoiono sul colpo. Il commando risale a bordo della 850 e si dilegua. Non ci sarà nessun testimone che si farà avanti per dire di aver visto o sentito qualcosa di utile alle indagini.

    L’agguato di via Cipressi è un fatto gravissimo. Siamo nel 1971 e fino ad allora mai nessun magistrato era stato assassinato. Non è una vicenda solo palermitana, tant’è che scuote l’intero Paese. All’indomani dell’omicidio, i colleghi di Scaglione indicono una riunione al termine della quale stilano un documento:

    I magistrati del Distretto di Palermo, con l’intervento dei magistrati degli altri Distretti della Sicilia, riuniti in assemblea, profondamente costernati per l’infame assassinio che ha turbato gravemente la opinione nazionale dichiarano;

    – che la temeraria sfida non attenuerà, né rallenterà l’opera di prevenzione e di repressione della criminalità e del fenomeno mafioso; anzi ribadiscono la decisa e ferma volontà di impegnare tutta la loro abnegazione ed energia in questo difficile compito;

    – riaffermano che l’indipendenza della Magistratura costituisce garanzia insostituibile per la difesa dei fondamentali valori di libertà civile e di progresso tutelati dalla Costituzione e che, quindi, ogni paternalistica interferenza di altri Poteri non può che deprimere e svilire tali valori;

    – chiedono […] che si rinunci al metodo di risolvere i contrasti tra le varie componenti politiche determinando, tra i Poteri dello Stato, il pericolo di assurdi conflitti, dei quali l’unica beneficiaria è certamente la criminalità organizzata;

    – esigono per la decisa eliminazione del fenomeno mafioso ed anche nell’interesse della libertà e dignità di ogni cittadino e di coloro, in particolare, che sono preposti alla repressione della criminalità, che si omettano giudizi superficiali, perché privi di ogni seria documentazione, e che, insieme, cessi l’abitudine, da parte di singoli componenti di Organi responsabili, di formulare opinioni personali che sembrano impegnare quelle collegiali;

    – riaffermano con la massima chiarezza che non intendono difendere alcun privilegio di casta e che sono, quindi, pronti ad accettare, ove siano seri e fondati, tutti i possibili rilievi su effettivi abusi o disfunzioni che gli stessi magistrati sapranno valutare con giusta severità.

    Anche se i colleghi parlano apertamente di un agguato mafioso, molti altri fingono di non aver capito qual è la matrice del delitto. In uno speciale che il quotidiano «Avvenire» dedica all’assassinio del magistrato e dell’agente Lo Russo, si leggono reazioni imbarazzanti. Alle esequie nessuno degli intervenuti cita mai la parola mafia, come se non fosse chiaro a tutti che Scaglione doveva essere rimasto impigliato in una trappola tesa da boss e picciotti:

    Gianni Flamini annota sul taccuino sette interventi: Bellavista (presidente dell’Ordine degli avvocati), Lauro (procuratore aggiunto di Palermo), Montaldo (presidente di sezione della corte d’Appello), Marchello (sindaco di Palermo), Pennacchini (sottosegretario alla Giustizia), Guarnera (procuratore generale della Cassazione) e Piraino Leto (presidente del tribunale di Palermo). In due ore, mai viene pronunciata la parola mafia. Mai. Alcune perle: «La nostra è una società pervertita e ubriacata dalla materia, bisogna restaurare l’ordine etico» (il sindaco). «Questo misfatto è l’espressione tipica dell’anarchismo sociale del nostro Paese» (il sottosegretario). Commenta Flamini, più affranto che indignato: «Una parata di discorsi più figlia dei mali isolani che della realtà». Il titolo di «Avvenire» non nasconde nulla: «Solenni funerali per Scaglione ma… Nessuno ha parlato di mafia».

    L’assassinio del procuratore provoca un certo disorientamento sia negli ambienti investigativi che nei palazzi del potere. È la prima volta che la mafia ha osato colpire un uomo delle istituzioni, e risulta difficile comprendere perché abbia voluto alzare unilateralmente il livello dello scontro. Le indagini, intanto, non fanno nessun passo avanti mentre sulla vittima si addensano delle ombre. Non si tratta del chiacchiericcio che in genere cammina parallelamente a determinati omicidi ma della ricostruzione di Giorgio Pisanò, senatore del Movimento sociale italiano e agguerrito componente della Commissione parlamentare antimafia. Secondo l’esponente missino, il magistrato ucciso a Palermo non era una figura proprio adamantina. Pisanò demolisce la memoria di Scaglione, con particolare riferimento alla fuga di Luciano Liggio. Ecco cosa scrive nella relazione:

    Conclusione finale: se Liggio, scandalosamente assolto a Bari, poté restare indisturbato per cinque mesi e tornare poi tranquillamente alla latitanza nonostante un mandato d’arresto emesso contro di lui, lo si dovette alle decisioni e agli atteggiamenti presi dal Procuratore capo di Palermo, Pietro Scaglione e dal Capo della polizia Angelo Vicari. Il tutto nel quadro più vasto di una fitta rete di omertà e di complicità tra mafia, gruppi politici e poteri pubblici che gli avvenimenti successivi alla fuga di Liggio hanno ulteriormente convalidato.

    Le parole di Pisanò sono pesantissime. Sostiene che l’assassinio del magistrato non abbia nulla a che vedere con l’intransigenza che pure gli veniva riconosciuta da più parti, e punta il dito sui rapporti che la vittima coltivava con personaggi considerati contigui a Cosa Nostra:

    Ma la meccanica del duplice, feroce omicidio, gli stretti rapporti tenuti da Scaglione nei lunghi anni della sua permanenza a Palermo, quale Procuratore capo, con gruppi di potere e con uomini che risultano collegati all’organizzazione mafiosa (Lima, Gioia, Ciancimino, eccetera), la protezione da lui indubbiamente concessa al Liggio dopo l’assoluzione di Bari, tutto porta ad avvalorare la tesi che il magistrato sia stato soppresso perché entrato in urto con i «vertici» della mafia o perché travolto in un gioco interno di supremazie. Certo è che Pietro Scaglione non venne assassinato per questioni personali, né per vendetta da qualche pregiudicato da lui incriminato. Tutte le indagini accuratamente svolte per ancorare il delitto a moventi di questo genere non hanno avuto alcun esito. Vero è, invece, che l’agguato nel quale Scaglione restò ucciso porta il segno tipico del delitto mafioso: una squadra di killers, a viso scoperto, in pieno giorno e un crepitare «di raffiche fulminanti», (oltre cento colpi in pochi secondi) contro i bersagli umani colti di sorpresa nell’interno della vettura. La stessa, precisa, identica «tecnica» usata tanti anni prima da Luciano Liggio per togliere di mezzo il suo ex capo mafia e protettore dottor Navarra. E, come allora, lo scomparire dei sicari nel nulla, l’omertà totale, il silenzio terrorizzato dei testimoni che, nel caso specifico del delitto Scaglione, c’erano stati ed avevano visto tutto.

    Una tesi severa, quella di Pisanò, che però anni dopo non sarà condivisa da alcuni autorevoli esponenti della magistratura come Pietro Grasso, a capo della Direzione nazionale antimafia dal 2005 al 2012:

    Ricordo le prime campagne di delegittimazione sulla figura del magistrato. Ricordo che circolarono certe voci per gettare ombre sulla sua attività: calunnie poi categoricamente smentite dalle indagini successive. Scaglione aveva sempre tenuto un atteggiamento coerente e rigoroso nei confronti di una criminalità che allora era ancora difficilmente decifrabile come mafiosa.¹⁰

    In linea con la chiave di lettura di Grasso anche il giudizio di Alberto Polizzi, avvocato palermitano e vicepresidente del centro studi politico-sociali intitolato al giudice Cesare Terranova. Polizzi conferma, seppur indirettamente, che quelle su Scaglione erano voci infondate:

    Per ricordare quel momento e quella tragica scomparsa però è necessario andare ancora più indietro. Agli anni in cui la mafia fa il salto di qualità e da entità agricola presente nei feudi, con le sue leggi e il suo terrore, passa al prolifico business della droga, con l’appoggio di sponde politiche e istituzionali consapevoli e conniventi. Erano anni di impreparazione. Lui si rivelò sin dall’inizio un magistrato moderno, il suo è stato un operare lucido. E sono convinto infatti che il suo omicidio è stato innanzitutto un intervento punitivo e preventivo, un necessario disegno mortale come ce ne furono altri dopo di lui. Lo ricordo come un uomo molto cordiale, ma essenziale, cortese ed estremamente riservato. Privo di protagonismi o autoesaltazioni. Ricordo la grande professionalità e la preparazione giuridica, e il suo impegno in campo umanitario, sempre senza nessuna retorica, di cui in pochi sanno. Lui non faceva conferenze stampa, parlava con le sue iniziative giudiziarie.¹¹

    ***

    Sette anni dopo, siamo nella primavera del 1978, tra i primi a rivelare un movente per l’assassinio del magistrato è Giuseppe Di Cristina, boss di Riesi (Caltanissetta), componente dello schieramento che all’interno della mafia siciliana sta subendo l’aggressività di un gruppo particolarmente violento, quello dei Corleonesi che fa capo a Luciano Liggio (finito in carcere nel 1974) e agli arrembanti Totò Riina e Bernardo Provenzano. Di Cristina, detto la Tigre, ha paura di essere ammazzato e allora decide di pentirsi raccontando molti segreti di Cosa Nostra al maggiore dei carabinieri Alfio Pettinato. Tra le confidenze fatte all’ufficiale, c’è anche quella sull’agguato del 5 maggio del 1971: secondo Di Cristina «Liggio ha fatto uccidere il procuratore Scaglione per le iniziative e le attività che il magistrato stava prendendo e che avrebbero potuto risolversi a favore di Rimi, suoi antagonisti ed avversari, aderenti al sodalizio dei Badalamenti»¹².

    La tigre di Riesi potrebbe quindi rivelarsi una buona fonte per inquadrare il caso Scaglione. Potrebbe ma non lo fa, e non per colpa sua: Di Cristina muore in una imboscata tesagli il 30 maggio 1978 mentre aspetta il bus a una fermata. Per gli inquirenti è una sciagura: era una fonte più che attendibile e, oltre a parlare di Scaglione, aveva anche riferito che Cosa Nostra stava progettando l’omicidio del giudice istruttore Cesare Terranova, che sarà assassinato nel settembre del 1979.

    Poi sulla scena arriva Tommaso Buscetta, il boss dei due Mondi, che nell’estate del 1984 decide di collaborare con il giudice Giovanni Falcone. Nelle sue torrenziali dichiarazioni c’è spazio pure per l’omicidio del procuratore: la sua ricostruzione è in linea con quanto aveva riferito Giuseppe Di Cristina al maggiore Alfio Pettinato. Della versione fornita da Buscetta ci sono tracce nella ordinanza-sentenza del maxi processo di Palermo Abbate Giovanni +706:

    Sulle cause dell’uccisione di Pietro Scaglione la versione di Giuseppe Di Cristina è stata ribadita in toto da Tommaso Buscetta. Secondo Di Cristina, Luciano Liggio aveva decretato l’uccisione di Pietro Scaglione a causa delle iniziative da questi assunte che avrebbero potuto risolversi a favore dei Rimi, alleati di Gaetano Badalamenti e avversario del Liggio. Anche Tommaso Buscetta ha indicato la medesima causale del delitto Scaglione per averla appresa in carcere da Gaetano Badalamenti, nel dicembre 1972. Il procuratore Scaglione stava indagando sulla presunta donazione di una casa da parte di Serafina Battaglia, leale ed accanita accusatrice dei Rimi e di altri (Vincenzo Rimi era autorevolissimo uomo d’onore della famiglia di Alcamo), a favore del figlio di uno degli accusati, allo scopo di suggellare la ritrattazione e di dimostrare l’infondatezza della iniziale chiamata. A questo punto, Luciano Liggio decideva di uccidere Pietro Scaglione e lo faceva personalmente, insieme con Salvatore Riina e un terzo individuo non identificato. In siffatta maniera, Liggio, che si riteneva un perseguitato dal procuratore Scaglione, otteneva un duplice scopo: adombrare il sospetto che il magistrato fosse stato ucciso perché si stava adoperando per alleggerire la posizione processuale dei Rimi; creare difficoltà ai Rimi, nei cui confronti il procedimento penale ancora non si era concluso definitivamente, e quindi, in ultima analisi, allo stesso Gaetano Badalamenti. Ebbene, chiunque abbia ricordo di quanto è accaduto dopo l’omicidio di Pietro Scaglione non può riconoscere che la diagnosi di Di Cristina e di Buscetta è, perlomeno, meritevole di attenta considerazione. […] È certo, comunque, che sul punto le dichiarazioni di Di Cristina e di Buscetta coincidono singolarmente, benché le loro fonti di informazioni siano diverse.¹³

    Da quanto si legge nella sentenza-ordinanza sembra evidente che il procuratore sia stato ammazzato semplicemente perché aveva fatto la sua parte.

    Al maxi processo Tommaso Buscetta consegna un’altra tessera del puzzle: sostiene che i vertici di Cosa Nostra, da Tano Badalamenti a Stefano Bontate, non sapevano della decisione di ammazzare il magistrato, la cui eliminazione era quindi stata decisa in maniera autonoma dai Corleonesi:

    Io non saprei definirlo l’omicidio di Scaglione, ma è l’inizio di una serie di attentati contro lo Stato. Di attentati terroristici, non mafiosi. […] L’organizzazione all’epoca non era un’organizzazione già formata, era in embrione, era una cosa che cominciava a formarsi. Perché a dire del Badalamenti, se è vero, e io credo che un uomo d’onore non mente su certe cose, lui non lo sapeva. E anche il Bontate stesso non sapeva dell’eliminazione del giudice Scaglione.¹⁴

    Nel marzo del 1987, sulla base delle confessioni di Buscetta, finalmente si compie un sensibile passo in avanti in direzione della verità. Il giudice istruttore Paolo Martinelli, del tribunale di Genova, emette comunicazioni giudiziarie a carico di Luciano Liggio, Pippo Calò, ritenuto il cassiere di Cosa Nostra, e Gerlando Alberti. Ma è solo una illusione perché la giustizia non riuscirà mai a portare alla sbarra esecutori e mandanti. La pietra tombale sull’inchiesta arriva nel gennaio del 1991, quando il giudice istruttore di Genova Dino Di Mattei proscioglie dalle accuse Gaetano Fidanzati, Gerlando Alberti e il figlio, Salvatore Riina, Luciano Liggio, Pippo Calò, Francesco Scaglione, Pietro D’Accardio e Francesco Russo. La sentenza di proscioglimento equivale a un mesto sventolio di bandiera bianca, una resa inevitabile di fronte alla fragilità delle prove raccolte:

    Non è stato possibile individuare nei confronti di questi imputati gli elementi convincenti di accusa, come ad esempio il rinvenimento delle armi usate o testimonianze dirette, che giustifichino il passaggio alla fase dibattimentale. Nonostante l’impegno investigativo e istruttorio, nonostante i molteplici tentativi rivolti a saggiare terreni nuovi di indagine, nonostante il tempo trascorso, non sono stati acquisiti elementi non solo di certezza ma neppure di probabilità sul movente del duplice omicidio e sulla identità dei suoi autori. Un crimine di così alto valore simbolico, commesso in pieno giorno in una zona di Palermo controllata dalla organizzazione mafiosa, che non avrebbe mancato di reagire punendo gravemente eventuali invasori del territorio, è stato concepito e attuato da elementi che a quella organizzazione appartenevano.¹⁵

    Voci, allusioni, accuse mai provate: il procuratore – in vita e in parte da morto – ha dovuto subirne tante. Ma il Consiglio superiore della magistratura ne ha difeso tenacemente la memoria e in uno speciale dedicato alle vittime del terrorismo e della mafia ha così descritto la figura di Scaglione:

    Vi furono tentativi di mafia diretti a offuscare la figura del Procuratore. Come ricordò Paolo Borsellino nel 1987, la mafia decise, a partire dall’omicidio di Scaglione, «una campagna di eliminazione sistematica degli investigatori che avevano intuito qualcosa. Le cosche sapevano che erano isolati, che dietro di loro non c’era lo Stato e che la loro morte avrebbe ritardato le scoperte. Isolati, uccisi, quegli uomini furono persino calunniati. Accadde così per Scaglione…». Come è stato scritto, a partire dall’omicidio del Procuratore Scaglione, la «costante di ogni delitto eccellente della mafia consisterà nel fatto che prima, oppure dopo il tritolo o il piombo, scatta sempre un’opera di delegittimazione volta a indebolire la figura della personalità uccisa». L’uccisione del Procuratore Scaglione – come scrisse a sua volta Giovanni Falcone – ebbe sicuramente «lo scopo di dimostrare a tutti che Cosa nostra non soltanto non era stata intimidita dalla repressione giudiziaria, ma che era sempre pronta a colpire chiunque ostacolasse il suo cammino».¹⁶

    1 www.raiscuola.rai.it/articoli-programma-puntate/diario-civile-pietro-scaglione-la-prima-vittima/37363/default.aspx

    2 «Famiglia Cristiana», 22 dicembre 2011.

    3 www.palermo.meridionews.it/articolo/65300/pietro-scaglione-47-anni-fa-il-suo-omicidio-lui-fu-un-persecutore-spietato-della-mafia/

    4 Paride Leporace, Toghe rosse, Newton Compton, Roma 2009.

    5 Leporace, op. cit.

    6 www.csm.it/documents/21768/0/Nel+loro+segno/068e3eb2-ad54-4d98-92f5-ccf02aaf743d

    7 www.avvenire.it/attualita/pagine/ucciso-il-procuratore-scaglione

    8 Relazione di minoranza della Commissione parlamentare antimafia della

    vi

    Legislatura.

    9 Ivi.

    10 Pietro Grasso - Saverio Lodato, La mafia invisibile, Mondadori, Milano 2001.

    11www.palermo.meridionews.it/articolo/65300/pietro-scaglione-47-anni-fa-il-suo-omicidio-lui-fu-un-persecutore-spietato-della-mafia/

    12 Tribunale di Palermo - Ufficio Istruzione N. ZZ89/8Z R.G.U.I. ordinanza-sentenza emessa nel procedimento penale Abbate Giovanni + 706

    13 Ivi.

    14 Ivi.

    15 «la Repubblica», 22 gennaio 1991.

    16www.memoria.san.beniculturali.it/c/document_library/get_file?uuid=0e0bf0b9-78cd-43e1-aef8-3aec056ca52d&groupId=11601

    Luigi Calabresi

    commissario di pubblica sicurezza

    Due colpi, uno alla schiena l’altro alla nuca. Andò più o meno così come aveva lucidamente previsto mesi prima quando – replicando ad amici e familiari che gli suggerivano di girare armato – spiegava: «Non servirebbe a niente: se mi spareranno, lo faranno alle spalle. Non avranno mai il coraggio di colpirmi guardandomi negli occhi».

    Luigi Calabresi, 34 anni, commissario di polizia, numero due dell’ufficio politico della questura di Milano, fu ucciso intorno alle 9:15 del 17 maggio del 1972 mentre stava per andare al lavoro. Le pallottole furono l’ultimo atto di una campagna d’odio durata due anni e mezzo e portata avanti con feroce ostinazione soprattutto (ma non solo) da «Lotta Continua», organo ufficiale (prima settimanale, poi quotidiano) dell’omonimo movimento politico della sinistra extraparlamentare. Un’aggressione iniziata all’indomani della morte di Giuseppe Pinelli, 41 anni, l’anarchico sospettato di essere coinvolto nella strage di piazza Fontana a Milano avvenuta il 12 dicembre del 1969, quando una bomba nella sede della Banca dell’Agricoltura provocò 17 morti e 88 feriti. Cinque giorni dopo l’attentato, Pinelli cadde da una finestra del quarto piano della questura in circostanze decisamente poco chiare. Ma per gli esponenti di Lotta Continua, e per gli ambienti della sinistra, Calabresi era tutt’altro che estraneo alla tragica fine dell’anarchico.

    Le indagini stabiliranno che Pinelli – poi risultato completamente estraneo alla strage – era caduto in seguito a un malore e che Calabresi non era neppure presente nel momento in cui l’anarchico cadeva giù. Ma per Lotta Continua non c’erano dubbi: il funzionario di polizia era un assassino e un torturatore; era stato lui, forse addirittura con un colpo di karate, a gettare Pinelli di sotto. Le certezze degli esponenti di lc furono indirettamente alimentate dalla prima equivoca e contraddittoria versione fornita dai vertici della questura, secondo i quali Pinelli si era suicidato dopo aver capito di non avere scampo; un gesto che avrebbe sostanzialmente confermato il suo coinvolgimento nell’attentato alla Banca dell’Agricoltura. La vicenda fu gestita piuttosto male dalla polizia, il cui incerto atteggiamento invece di dissipare i dubbi finì con l’avallare il sospetto che non era vero che Pinelli non si era tolto la vita. Molti anni dopo il giornalista Mario Calabresi, figlio del commissario, sottolineerà:

    La benzina che alimentò il motore fu l’indignazione per la morte di Giuseppe Pinelli detto Pino. Molte volte mi sono chiesto come mi sarei comportato se fossi stato un giornalista allora. E la risposta è netta: mi sarei indignato. La polizia e la questura avevano il dovere di spiegare cos’era successo, senza opacità, senza reticenze, dovevano accertare con severità e chiarezza come era stato possibile che un uomo arrivato in questura sul suo motorino e rimasto sotto interrogatorio per tre giorni fosse caduto da una finestra, morendo poco dopo. Invece ci furono ambiguità, chiusure, quel pezzo di Stato per il quale lavorava mio padre, che faceva capo al Viminale e aveva sede in via Fatebenefratelli a Milano, diede una pessima prova di sé e con le sue reticenze insultò il Paese e avallò i più terribili sospetti.¹⁷

    La temperatura dell’odio nei confronti del poliziotto aumentò progressivamente: sulle colonne di «Lotta Continua» venne indicato più volte come un assassino che però non l’avrebbe fatta franca perché in qualche modo la morte di Pinelli sarebbe stata vendicata. Nei confronti di Calabresi si scatenò una violentissima campagna ma a dargli addosso non fu soltanto Lotta Continua. Contro il commissario si scagliò un plotone di illustri intellettuali e autorevoli quotidiani e periodici: tutti compatti contro quel giovanissimo funzionario di polizia. Un linciaggio a mezzo stampa che suscitò l’orrore di Enzo Tortora, il quale una decina d’anni dopo subirà più o meno un trattamento simile. Tortora e Calabresi erano amici, si frequentavano, andavano spesso a cena insieme. Sul quotidiano «La Nazione», per il quale lavorava in quel periodo, Tortora scrisse:

    Non credo che Luigi Calabresi sia stato ucciso da tre pallottole. Io credo che il commissario Calabresi sia stato ucciso dal piombo sì, ma anche dal piombo di certi giornali, che per lui avevano coniato da tempo e in esclusiva, gli insulti più atroci, i marchi più roventi e infami, che avevano allestito un retroterra ideale per un delitto. Ci fu un tempo in cui Milano era letteralmente tappezzata di scritte che dicevano: Calabresi assassino.¹⁸

    Le indagini sull’agguato del 17 maggio 1972 rimasero al palo per ben sedici anni, si riaprirono solo nel 1988 quando Leonardo Marino, componente di Lotta Continua, decise di rompere il silenzio confessando di aver partecipato all’imboscata e facendo i nomi del killer Ovidio Bompressi e dei mandanti, Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani. All’epoca del delitto, Sofri e Pietrostefani erano ai vertici del movimento di Lotta Continua, del quale erano stati tra i principali fondatori.

    La storia ci dirà che Pinelli non c’entrava assolutamente nulla con la bomba di piazza Fontana, e che Calabresi non c’entrava nulla con la sua morte. Ma i due nomi resteranno collegati per sempre, come due facce delle stessa medaglia.

    ***

    Un ragazzino intraprendente e vivace, dalle idee chiarissime. È fin dall’adolescenza che Luigi Calabresi, nato a Roma nel 1937, mostra di avere una marcia in più dei suoi coetanei. Di certo sa cosa vuole dalla vita; ad esempio non ha alcuna intenzione di seguire le orme del babbo, che fa il commerciante. Quando, dopo il liceo, decide di iscriversi a Giurisprudenza, manifesta senza esitazione altre due certezze: la laurea non gli servirà né per fare il magistrato né per fare l’avvocato. Durante gli studi si imbatte in Virginio Rotondi, un padre gesuita a capo del Movimento Oasi. È un incontro importante perché consente al giovane Calabresi di approfondire il suo rapporto con la fede che lo accompagnerà per tutta l’esistenza: crede fermamente in Dio, la sua profondità di riflessione gli consente di vivere la spiritualità senza ossessioni ma con grande trasporto.

    Non c’è nulla che non affronti con estrema serietà e impegno, e questo atteggiamento riguarda pure la sua vita privata. Il 31 maggio del 1969 sposa Gemma Capra, alla quale scrive una lettera poco prima delle nozze:

    Gemma bella, queste giornate stanno trascorrendo proprio come immaginavo. Piccole gioie, ma che mi danno tanta serenità. Il merito è sicuramente del mio angelo, che sento tanto vicino… A volte mi soffermo a considerare il mistero dell’amore, il mistero di due cuori che s’incontrano e si donano vicendevolmente per tutta la vita. È un eterno miracolo, che si compie dall’inizio del mondo e che rende due persone protagoniste di una storia bellissima, intessuta di sacrifici e rinunce, ma anche e soprattutto ricca di esperienze uniche e irripetibili… Buona notte, tesoro, prima di addormentarmi pregherò per il nostro amore.¹⁹

    Indossare la toga, si è detto, non è una prospettiva che lo seduce; piuttosto preferisce la divisa. Tant’è che entra in polizia con lo spirito di chi deve compiere una missione e dopo il corso, prima di prendere servizio, scrive una lettera ai familiari:

    Ancora qualche settimana e sarò commissario di Pubblica Sicurezza. Lo dico perché sappiate in quale mondo sto per entrare con queste mie idee. Ma è una strada che ho scelto per vocazione, perché mi piace, perché ne sono convinto, perché costituisce una prova difficile. Avrei molti modi per guadagnarmi uno stipendio, ma sono affascinato dall’esperienza che può fare in Polizia uno come me, che vuol vivere la vita profondamente, integralmente cristiana.²⁰

    Il primo incarico è alla questura di Milano, dove entra a far parte dell’ufficio politico con il compito di occuparsi della sinistra extraparlamentare. Siamo nella parte finale degli anni Sessanta e l’atmosfera che si vive nel Paese non è delle più tranquille. Anche se i suoi detrattori gli daranno dell’assassino e del torturatore, Calabresi non è un poliziotto violento, come scriverà l’amico Enzo Tortora: «Era un ragazzo di incredibile bontà, di un rigore morale, di uno scrupolo e di una umanità che lo allontanavano mille miglia dal ruolo di sbirro che certuni, per vile calcolo o per comoda polemica, gli avevano appiccicato addosso. Credeva in Dio, fermamente»²¹.

    ***

    Il 1969 è un anno difficile. C’è una conflittualità politica e sociale che si manifesta attraverso scontri nelle piazze, scioperi e cortei; anche nelle fabbriche c’è un fermento mai visto prima. Si respira un clima di tensione, ma nessuno immagina che dagli slogan o dalle scazzottate si possa degenerare fino ad arrivare ai morti ammazzati. Invece la situazione precipita vertiginosamente nel giro di qualche mese. Il 25 aprile una bomba esplode all’interno del padiglione della Fiat alla Fiera Campionaria, a Milano; tra l’8 e il 9 agosto ben otto bombe scoppiano su altrettanti treni, altri due ordigni inesplosi vengono ritrovati nelle stazioni di Milano Centrale e Venezia. Per fortuna non ci sono morti, il bilancio si ferma a una dozzina di feriti. Il peggio però deve ancora arrivare.

    L’Italia piomba nel terrore nel pomeriggio del 12 dicembre del 1969. Alle 16:37 una bomba esplode all’interno della Banca dell’Agricoltura, in piazza Fontana, nel pieno centro di Milano. Le vittime sono 17, i feriti 88: è la prima volta – e purtroppo non sarà l’ultima – che i terroristi provocano una strage. Mentre a Milano un ordigno semina sangue e morte, pochi minuti dopo tre attentati si registrano a Roma.

    Alle 16:55, in via San Basilio, a Roma, in un sottopasso della Banca Nazionale del Lavoro esplode un ordigno che ferisce 14 persone; alle 17:22 scoppio alla base del pennone all’Altare della Patria in piazza Venezia e ancora alle 17.30 all’ingresso del Museo del Risorgimento: quattro i feriti.²²

    A Milano è stato preparato un altro attentato in piazza della Scala, che però viene sventato:

    Poco prima della strage, alle 16:25, un commesso della Banca Commerciale aveva trovato nella sede di piazza della Scala una borsa che conteneva una scatola metallica. Gli artificieri la faranno saltare, cancellando una traccia che avrebbe potuto indirizzare le indagini. E ponendo il primo tassello in un mosaico di orrori, misteri e complotti che ha steso la sua ombra sulla storia nazionale.²³

    Il Paese è inorridito e disorientato, ma siamo soltanto all’alba di quelli che diventeranno gli anni di piombo. Le indagini puntano subito in una direzione, tant’è che il prefetto di Milano Libero Mazza comunica al presidente del Consiglio Mariano Rumor che la pista privilegiata è quella che conduce agli anarchici. In quelle ore non è il caso di scartare alcuna ipotesi, ma a tanti appare azzardato ipotizzare che la strage sia opera dagli anarchici: hanno sempre preferito colpire un bersaglio simbolico del potere, non hanno mai sparato nel mucchio coinvolgendo decine e decine di persone innocenti. Nonostante le perplessità, la polizia è in linea con l’analisi del prefetto Mazza e nel giro di qualche giorno vengono fermate 84 persone: la maggioranza appartiene agli ambienti anarchici e alla sinistra extraparlamentare, due soltanto all’estrema destra. Tra i fermati c’è pure Giuseppe Pinelli: di mestiere fa il ferroviere e il tempo libero lo spende ad animare dibattiti e iniziative del circolo anarchico Ponte della Ghisolfa.

    A condurre l’inchiesta è anche il commissario Calabresi, al quale tocca il compito di interrogare Pinelli. L’anarchico nega, dice di non sapere nulla della bomba che ha devastato la Banca dell’Agricoltura. Resta in questura più delle 48 ore previste dal fermo di polizia, interrogato per ore e ore. Scriverà il giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio: «Dalle ore 18:30 del 13 dicembre sino a pochi minuti prima delle 24 del 15 dicembre, egli fu sottoposto a una serie di stress, non consumò pasti regolari e dormì solo poche ore, una volta sola steso su una branda»²⁴.

    In quei giorni in questura a qualcuno sfugge di mano la situazione. Poi nella notte tra il 15 e il 16 dicembre l’anarchico cade dalla finestra del quarto piano del palazzo. L’impatto è tremendo, morirà all’1:50 in ospedale. Quando Pinelli va giù, nella stanza ci sono cinque poliziotti e un carabiniere; Calabresi, invece non c’è, in quegli istanti è nell’ufficio del dottor Antonino Allegra, il suo superiore.

    La prima versione ufficiale dell’accaduto è che Pinelli si sia suicidato durante una pausa degli interrogatori: era oramai alle strette, il suo alibi stava vacillando pericolosamente e quindi ha deciso di farla finita. È una ricostruzione che non convince del tutto:

    Sulla morte di Pinelli nascono e si sviluppano aspre polemiche. Esse dilagano nel Paese e dividono l’opinione pubblica anche internazionale. Sebbene la versione ufficiale sancisca la tesi del suicidio, un dubbio resterà fino ai nostri giorni. […] La magistratura apre due procedimenti penali, il primo con l’accusa di omicidio volontario a carico dei poliziotti e del capitano dei carabinieri, presenti nell’ufficio al momento della morte di Pinelli. Contro il commissario Calabresi, che non si trovava nella stanza, il procuratore procede invece per omicidio colposo.²⁵

    Negli ambienti anarchici e della sinistra extraparlamentare nessuno crede al suicidio: la convinzione diffusa è che Pinelli sia stato buttato giù e che a farlo sia stato proprio Calabresi. Quella convinzione si propagherà in molti ambienti, in particolare in quelli di Lotta Continua, e darà vita a una sorta di caccia all’uomo che si concluderà con l’assassinio del poliziotto. Dirà Gemma Capra, vedova del commissario:

    Fu un periodo molto triste per noi; anche se, insieme, lo superammo abbastanza bene. Non ricordo con precisione quanti giorni dopo la morte di Pinelli cominciò questa diffamazione. Bisognerebbe andare a monte per capire il periodo e per come si svolsero i fatti. I gruppi extraparlamentari che in quel momento volevano la rivoluzione e rovesciare il governo se la prendevano ovviamente con l’organo dello Stato che quasi quotidianamente si vedevano di fronte, faccia a faccia: la polizia. Da qui il passo fu breve e mio marito diventò il capro espiatorio.²⁶

    Gli attacchi più feroci Calabresi li riceve da «Lotta Continua», il periodico dell’omonimo gruppo della sinistra extraparlamentare: per Sofri e gli altri non ci sono dubbi, il commissario è colpevole per la morte di Pinelli. I toni sono terribili e la campagna nei confronti del funzionario di polizia, che all’epoca ha appena 31 anni, è martellante:

    A «Lotta Continua» il suo appare il primo volto dei burattini della strategia della tensione a cui sia stata strappata la maschera. Comincia una durissima campagna scandita da editoriali e soprattutto da vignette: alla porta dell’ufficio di Calabresi si bussa col paracadute, sul davanzale è appoggiato un trampolino; Calabresi scaraventa orsacchiotti di peluche giù dal box, Calabresi con grembiule e fiocchetto getta i compagni di scuola dalla finestra, Calabresi insegna a una bimba a ghigliottinare le bambole, Calabresi cameriere ingiunge a Pinelli, di fronte a una finestra spalancata: «O ti mangi questa minestra o…».²⁷

    Sul commissario circolano voci d’ogni tipo. Sono piuttosto suggestive ed evocano oscuri intrecci di potere, inquietanti complotti tra pezzi dello Stato, legami ibridi con ambienti d’oltreoceano. E poco importa che tutte le allusioni non reggano: è sufficiente fare delle banali riflessioni per capire che si tratta di leggende divulgate ad arte. Una delle voci più ricorrenti è che Calabresi sia andato negli Stati Uniti per essere addestrato dalla cia, i servizi segreti americani. Non solo: si dice che nel 1966 il commissario avrebbe addirittura fatto da accompagnatore ufficiale al generale americano Edwin A. Walker, e che a fu lui a presentarlo al generale Giovanni De Lorenzo.

    Chi diffonde queste informazioni e, soprattutto, chi dà credito a esse non tiene conto di alcuni elementi che le rendono assolutamente inverosimili.

    Calabresi, infatti, non soltanto non sa una parola d’inglese, e quindi riesce difficile immaginarlo impegnato in un addestramento della cia; ma non è mai neppure stato in America. Al massimo si è spinto a Siviglia in viaggio di nozze, e poi in Svizzera per lavoro, ma non è mai salito su un aereo diretto a Washington o a New York. A smontare le tesi farlocche c’è poi una questione sulla quale è difficile cavillare: Calabresi si è laureato nel 1965, l’anno dopo ha fatto il corso per vicecommissario. È dunque logicamente discutibile che la cia potesse aver arruolato per qualsiasi compito un poliziotto ancora giovanissimo e inesperto. A questo proposito, scrive il figlio Mario: «Che la cia si affidasse a Roma a un neolaureato, che poi gli avesse dato l’incarico di fare da guida a Roma a un generale e che un allievo della scuola di polizia fosse il tramite tra gli americani e un golpista italiano è quasi divertente a immaginarsi, tanto è incredibile»²⁸.

    Infine, c’è un altro elemento che disintegra qualsiasi ricostruzione: quando Calabresi gli avrebbe fatto da accompagnatore, il generale Walker non era più nell’esercito; cinque anni prima, nel 1961, il segretario alla Difesa Robert McNamara (il presidente all’epoca era John F. Kennedy) lo aveva sollevato dall’incarico per le sue idee ritenute pericolosamente di destra, e lui si era dimesso.

    L’assillante campagna di «Lotta Continua» non si ferma. Il 6 giugno del 1970 il giornale scrive: «Questo marine dalla finestra facile dovrà rispondere di tutto. Gli siamo alle costole, ormai, è inutile che si dibatta come un bufalo inferocito».

    Fosse dipeso da lui, non lo avrebbe fatto. Ma sollecitato dai vertici della polizia, Calabresi decide di querelare «Lotta Continua» per diffamazione. È un gesto che produce effetti deleteri perché suscita la rabbiosa reazione del periodico (all’epoca bisettimanale) che coglie la palla al balzo per alzare vertiginosamente la temperatura dello scontro. Sul numero del primo ottobre del 1970, il giornale dedica ampio spazio al suo nemico e il livello di aggressione raggiunge picchi sconvolgenti:

    Forse abbiamo fatto un errore: siamo stati troppo teneri col commissario aggiunto di P.S. Luigi Calabresi, abbiamo permesso che su di lui si ridesse, si ammiccasse, nascesse il luogo comune, si sviluppasse l’ironia; abbiamo consentito che la cosa venisse scambiata per un gioco duro, magari, ma divertente nonostante tutto. E questo è un male, perché qualcuno ha forse potuto pensare che si trattasse di uno scherzo; e lo deve aver pensato anche Luigi Calabresi, perché altrimenti non si sarebbe permesso di fare quello che invece ha fatto; il fatto di continuare a vivere tranquillamente, di continuare a fare il suo mestiere di poliziotto, di girare indisturbato per Milano, di continuare a perseguitare i compagni e proteggere i suoi complici; il fatto, infine, di aver querelato per tre volte «Lotta Continua». Facendo questo però si è dovuto scoprire; il suo volto è diventato abituale e conosciuto per i militanti che hanno imparato ad odiarlo; la sua funzione di sicario è stata denunciata alle masse, che hanno incominciato a conoscere i propri nemici di persona, con nome e cognome e indirizzo. E questo è importante e utile. E il primo risultato è che ora verrà trascinato in un’aula del tribunale a rispondere del suo delitto. È chiaro a tutti infatti, che non sarà certo «Lotta continua» a sedersi sul banco degli imputati, a giustificarsi per averlo diffamato, ma sarà Luigi Calabresi a dover rispondere pubblicamente del suo delitto contro il proletariato. E il proletariato ha già emesso la sua sentenza: Calabresi è responsabile dell’assassinio di Pinelli, e Calabresi dovrà pagarla cara.

    Il commissario viene definito torturatore e assassino e poi ancora un servo, un esecutore del progetto dello Stato capitalista di repressione del proletariato. Sempre sul numero del primo ottobre del 1970, «Lotta Continua» pubblica pure l’indirizzo di casa del poliziotto e lo dipinge come un appartenente ai servizi segreti e al guinzaglio di qualche magistrato:

    Luigi Calabresi, commissario aggiunto di

    p.s

    ., 30 anni, abitante a Milano, in via Largo Pagano (la casa è riconoscibile perché segnata di scritte, ora cancellate, e perché vi staziona davanti una macchina con un poliziotto in borghese). Il numero di telefono non è riportato sull’elenco ma fino a poco tempo fa, su richiesta, veniva comunicato dal centralino. Stipendio dichiarato: 160 mila lire al mese. Sposato e padre di una bambina. Agente del

    s.i.d.

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