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I nuovi padrini
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Camorra, 'ndrangheta e mafia: chi comanda oggi

Come sono cambiate mafia, ’ndrangheta e camorra negli ultimi anni, dopo arresti importanti che ne hanno decapitato i vertici?
Esistono ancora i boss o il fenomeno mafioso si è frammentato in mille realtà locali che controllano solo piccole parti del territorio? O, viceversa, è diventato globale, allungando i suoi tentacoli ben al di là dell’Italia? E chi sono oggi i capi delle cosche? Formati alla vecchia scuola di uomini d’onore, abbracciano le antiche regole dell’associazione ma ragionano su orizzonti più vasti, da mafia dei colletti bianchi. Nonostante i durissimi colpi assestati dallo Stato, con gli arresti del Gotha criminale (da Riina a Provenzano, da “Sandokan” ai capi sanlucoti), la malavita organizzata non è da considerare sconfitta, anzi. Spostando i propri affari lontano dai riflettori, infatti, i moderni padrini hanno creato un cortocircuito forse più pericoloso delle sanguinose mattanze per le strade: una nuova criminalità meno visibile, ma ancora più minacciosa, in cui l’alta finanza, la politica e il malaffare si fondono in un fatale, indissolubile intreccio.

I capi dei capi: gli uomini che controllano il crimine organizzato in Italia

Hanno scritto dei loro libri:

«Un lungo reportage nel “tenebroso sodalizio” tra preti e mafiosi.»
Attilio Bolzoni, autore di Il capo dei capi

«Un libro secco, chiaro, duro.»
Roberto Saviano


MAFIA
Cosa Nostra dopo i corleonesi: il regno di Messina Denaro e i mafiosi in doppiopetto

’NDRANGHETA
L’evoluzione della holding criminale dalla Calabria al Nord Italia, passando per Duisburg

CAMORRA
Di Lauro, Zagaria, Mazzarella, Polverino e Cava: latitanti o in carcere, i boss continuano a dettare legge


Vincenzo Ceruso
È nato a Palermo, dove vive e lavora. Laureato in filosofia, ha lavorato per circa vent’anni con la Comunità di Sant’Egidio con minori a rischio di devianza, in alcuni dei quartieri più difficili di Palermo. Collabora con il Comitato Addiopizzo e scrive di mafia su varie testate. Per la Newton Compton ha pubblicato La Chiesa e la mafia; Uomini contro la mafia; Il libro che la mafia non ti farebbe mai leggere e Dizionario italiano-mafioso, mafioso-italiano.

Pietro Comito
Vive e lavora in Calabria. Cronista di nera e giudiziaria, attualmente scrive per il «Quotidiano della Calabria». Nel 2011 è stato insignito del premio “AgendaRossa”, dedicato ai giornalisti minacciati dalla ’ndrangheta, e del premio “Paolo Borsellino” all’informazione. Ha scritto di centinaia di fatti di sangue e giudiziari in tutte le province della sua regione.


Bruno De Stefano
Giornalista, è nato a Somma Vesuviana (Napoli) nel 1966. Ha seguito la cronaca nera e giudiziaria per «Paese Sera», «Il Giornale di Napoli» e «Metropolis». Ha lavorato per il «Corriere del Mezzogiorno», «City» e il «Corriere della Sera». Tra le sue pubblicazioni per la Newton Compton, ricordiamo: Napoli criminale; I boss della camorra; La casta della monnezza; La penisola dei mafiosi e 101 storie di camorra che non ti hanno mai raccontato. È stato tra i curatori dell’antologia sulle mafie Strozzateci tutti e nel settembre del 2012 ha vinto il “Premio Siani” con il volume Giancarlo Siani. Passione e morte di un giornalista scomodo.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854162143
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    Anteprima del libro

    I nuovi padrini - Bruno De Stefano

    209

    Prima edizione ebook: ottobre 2013

    © 2012 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-6214-3

    www.newtoncompton.com

    Edizione digitale a cura di geco srl

    Vincenzo Ceruso – Pietro Comito – Bruno De Stefano

    I nuovi padrini

    Camorra, ’ndrangheta e mafia. Chi comanda oggi

    Nota dell’editore

    Questo libro fotografa la realtà attuale all’interno dei tre grandi sodalizi del malaffare – mafia, ’ndrangheta, camorra – per capire come sono cambiate le geografie criminali sul territorio e fuori dai confini regionali, dopo gli eclatanti arresti dei grandi boss avvenuti negli ultimi anni.

    I tre autori, ciascuno per la parte di sua competenza, hanno scandagliato le pagine di cronaca e i resoconti giudiziari per offrire al lettore uno sguardo innovativo su una condizione ancora poco nota alla ribalta nazionale.

    Pur provenendo da zone ed esperienze diverse, Ceruso, Comito e De Stefano ci offrono uno spaccato di sicuro interesse – e, al tempo stesso, inquietante – della malavita di questi ultimi anni, alla ricerca di una verità spesso sapientemente occultata e in continua mutazione.

    Vincenzo Ceruso

    Mafia

    Cosa Nostra dopo i corleonesi: il regno di Messina Denaro

    e i mafiosi in doppiopetto

    A mio figlio Federico,

    perché possa crescere

    in un mondo senza boss

    vecchi e nuovi.

    Prologo

    Matteo Messina Denaro non è solo.

    Il padrino di Castelvetrano, vero erede del capo corleonese Totò Riina, latitante da circa vent’anni, ha ancora intorno a sé una cerchia di fedelissimi che ne protegge gli spostamenti e ne tutela gli investimenti, nonostante le decine di arresti effettuati dalle forze dell’ordine. Non solamente mafiosi dalla coppola storta. Esiste un cerchio magico – un giro di mafiosi, uomini d’affari, imprenditori, politici e massoni – per i quali la libertà del delfino di Totò Riina è la garanzia di equilibri socio-economici consolidati. Soprattutto, Messina Denaro ha di nuovo interlocutori affidabili a Palermo. Il boss trapanese non ha la forza – nessuno l’ha mai avuta, d’altronde – per governare sulle diverse cosche che compongono la mafia siciliana senza i fratelli del capoluogo. Per questo motivo, il vuoto di potere che si era prodotto nella Cosa Nostra palermitana gli creava più di un problema. Dopo gli arresti di Provenzano, Lo Piccolo e Raccuglia, e dopo l’operazione Perseo, nel 2008, che ha sgominato i grandi vecchi del tenebroso sodalizio, tanti hanno detto e scritto che la mafia sarebbe stata ridotta a un coacervo di bande, simile alla galassia dei gruppi camorristici, pertanto più facilmente debellabile. Insomma, un’organizzazione praticamente finita, la cui influenza sarebbe stata ormai limitata ad alcune enclave della Sicilia occidentale, senza più influenza nei circoli del potere che conta. Una litania che si ripete, con alcune varianti, da quando è nato questo mostruoso ibrido di violenza criminale, ideologia sicilianista, ritualità massonica e borghesia parassitaria. Con ciò non intendo sostenere che la mafia non finirà mai. Avrà fine quando verrà eliminato il sistema di potere nel quale si muove. O, per essere più concreti, quando la maggioranza di uomini e donne, che pure non la sostengono, deciderà di passare dall’accettazione silenziosa a una ribellione fattiva. Fino ad allora, Cosa Nostra non cesserà di riprodursi, come un virus che si adatta alle mutate condizioni ambientali. Ora una nuova generazione di capi è pronta al comando. I più giovani – gli eredi – sono cresciuti. Alcuni sono noti. Quelli che erano appena nati, o erano ragazzi, all’inizio degli anni Ottanta, sono pronti ad affrontare le sfide di una mafia totalmente rinnovata. Si sono formati alla scuola di anziani uomini d’onore siculo-americani, amano le regole antiche dell’associazione ma ragionano sugli orizzonti di un’economia mondializzata, parlano spesso un inglese fluente e si comportano da speculatori del mercato globale. Diversi di loro sono tornati dall’estero per riprendere il posto appartenuto ai padri. Non sono rientrati per una questione sentimentale, o perché provassero nostalgia del profumo della zagara e del colore del mare. Fuori dalla Sicilia si possono tranquillamente condurre affari, controllare i canali del narcotraffico, guadagnare valanghe di denaro, ma se si vuole il potere, se si vuole decidere davvero nell’organizzazione, si deve tornare nell’isola. Alcuni sono stati processati e, in qualche caso, prosciolti. Altri ancora hanno finito di scontare la loro pena. Gli anni di carcere trascorsi in silenzio valgono quanto una medaglia al valore, per i colonnelli dell’organizzazione criminale. Ormai a piede libero, risponderanno al richiamo della foresta, da parte di cosche sempre più bisognose di leadership? Per conoscere il loro profilo e per riallacciare i fili di una memoria storica e investigativa, il modo migliore è tornare sulle pagine di processi ormai quasi dimenticati. Bisogna riandare alle inchieste di Giovanni Falcone e del pool antimafia, che istituì il primo maxi-processo a Cosa Nostra, iniziato il 10 febbraio 1986 e terminato il 16 dicembre 1987. La situazione, ovviamente, non è ferma ad allora. Rispetto a un quarto di secolo fa, per esempio, non si può più dire che le indagini abbiano «appena dischiuso uno spiraglio sui complessi rapporti che legano l’organizzazione del crimine col potere economico e politico»¹. Se non tutto, sappiamo ormai quanto è necessario conoscere su questi rapporti, almeno per poterli contrastare in modo concreto. Altra questione è se alla magistratura e alle forze dell’ordine sia stato consentito di agire efficacemente, per recidere questi legami vergognosi. Si può dire, in moltissimi casi, che venire a conoscenza di provati e duraturi legami di contiguità tra esponenti della classe dirigente e il sodalizio mafioso non ha intaccato abitudini consolidate fin dall’Unità d’Italia. Il corpo nazionale, semplicemente, non ha saputo formare i necessari anticorpi.

    Le carte processuali del secolo scorso possono aiutare per orientarci in mezzo a una selva di capimafia che affollano le odierne cronache giudiziarie e sembrano spuntare dal nulla, ma hanno alle loro spalle generazioni di picciotti. Bisogna scavare, per esempio, tra i cognomi che si rincorrono nel memorabile Rapporto dei 162, redatto in quindici mesi di indagini da polizia e carabinieri, tra il 1981 e il 1982. Un lavoro investigativo teso a capire chi si nascondesse dietro i sicari che seminavano di cadaveri le strade siciliane. Il Rapporto fotografava la mafia dell’epoca e descriveva l’ascesa dei corleonesi e dei loro alleati, iniziata con l’eliminazione di Salvatore Inzerillo e di Stefano Bontate. Leggendo i nomi dei capi delle fazioni allora in lotta, comprendiamo molto sulla mafia di oggi e sui nuovi soggetti che ne decidono le odierne strategie criminali. In città scarseggiano i capi, ma le truppe sono ancora numerose e agguerrite. Il clan dei brancaccioti, per esempio, non ha perso il proprio potenziale militare. Un tempo, le cosche che fanno capo al mandamento di Brancaccio erano sotto il dominio dei terribili fratelli Giuseppe e Filippo Graviano. E oggi? Quel che è certo è che i perdenti della guerra di mafia degli anni Ottanta, capeggiati dal clan degli Inzerillo-Gambino, hanno negoziato con i corleonesi e con le famiglie di Palermo la fine del loro esilio americano. Vedremo quale svolta epocale rappresenti il ritorno in Sicilia dei cosiddetti scappati. Spesso questi personaggi si trovano a loro agio in una mafia nuova, in cui è cresciuto notevolmente il peso decisionale dei cosiddetti colletti bianchi; professionisti-mafiosi che spesso assumono le redini delle cosche o si rapportano da pari a pari con i padrini e i loro omologhi politici, come racconta la vicenda del manager della sanità Michele Aiello o dello stimato architetto Giuseppe Liga. Nel Rapporto dei 162 appare la prima definizione della ormai celebre espressione zona grigia, con parole che non hanno purtroppo perduto alcuna attualità a trent’anni di distanza:

    Essa è costituita da una molteplicità di protettori di mafiosi, favoreggiatori, conniventi, informatori, debitori per denaro o per favori ricevuti, ricattati, intimiditi ecc., non soltanto nell’ambito naturale della malavita comune, ma anche in tutti gli altri settori della società: dagli uffici pubblici statali, regionali, provinciali e comunali ai centri di potere politico, alle banche, ai consorzi, ai grandi enti pubblici e privati, alle grosse società private o a partecipazione pubblica. I gangli vitali della mafia sono costituiti da questa zona grigia che la legge non riesce se non epidermicamente a colpire per la sua vastità ed inesauribilità.²

    Molti dei protagonisti di quella stagione criminale sono morti, o seppelliti sotto una montagna di ergastoli. Non tutti, però. Diversi di loro hanno attraversato le condanne e gli anni di galera, continuando a scalare i gradini del sodalizio mafioso. Altri ancora, i più giovani, non hanno atteso invano. Gli eredi hanno raccolto il testimone. Hanno aspettato pazientemente il loro turno, fino a quando non è arrivato.

    Sono i nuovi boss della mafia siciliana.

    I segreti di Matteo Messina

    Denaro, l’ultimo corleonese

    Io ho conosciuto la disperazione pura e sono stato solo, ho conosciuto l’inferno e sono stato solo, sono caduto tantissime volte e da solo mi sono rialzato; ho conosciuto l’ingratitudine pura da parte di tutti e di chiunque e sono stato solo, ho conosciuto il gusto della polvere e nella solitudine me ne sono nutrito; può un uomo che ha subito tutto ciò in silenzio avere ancora fede?

    Credo di no.³

    Matteo Messina Denaro

    La Valle del Belice è il cuore del suo regno.

    Questo lembo della provincia trapanese è divenuto noto al resto d’Italia negli anni Sessanta, quando un terremoto causò la morte di alcune centinaia di persone e sconvolse le vite di centinaia di migliaia di altre. Il terremoto che nel ’68 devastò la zona del Belice – dal nome del fiume che attraversa questa meravigliosa valle – rase al suolo i paesi di Salaparuta, Poggioreale, Gibellina e Montevago. Il giornalista Mario Francese, ucciso dai sicari di Cosa Nostra il 26 gennaio 1979, aveva spiegato in una sua celebre inchiesta come i finanziamenti per la ricostruzione del Belice, oltre mille miliardi di lire di allora, avessero costituito un tassello fondamentale per l’evoluzione della mafia in provincia⁴. Uno dei primi a comprendere l’importanza di questo passaggio epocale per la mafia è stato il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, un servitore dello Stato spesso dimenticato. Il colonnello venne assassinato insieme a un amico, il professor Filippo Costa, un onesto cittadino colpevole solo di passeggiare insieme a lui, il 20 agosto 1977. La Valle del Belice, a forte vocazione agricola, è nota da qualche anno, oltre che per il buon vino, per l’olio d’oliva Nocellara del Belice e per le grandi ricchezze archeologiche, anche per aver dato i natali a uno dei più pericolosi criminali del pianeta. Già, perché proprio qui, in questa porzione della Sicilia occidentale, si è instaurato il dominio di Matteo Messina Denaro. Egli possiede un esercito di uomini devoti e bene armati, un potere finanziario difficilmente quantificabile, i contatti giusti con l’alta politica e un apparato ideologico forgiato in oltre un secolo di tradizione mafiosa. In questa lontana periferia d’Italia, lo Stato combatte una battaglia per rifarsi del tempo perduto sul terreno della sicurezza, del mercato del lavoro e del consenso. Perché Messina Denaro non è un ricercato come tanti altri, seppure latitante da quasi vent’anni. Qui molti lo amano. Nella Valle del Belice, che è anche parte della civilissima Europa, un numero non trascurabile di persone nutre verso questo signore, condannato per stragi e omicidi, una vera e propria venerazione. Non sono solo gli affiliati, gli adepti della setta mafiosa, ad ammirare il boss. La Cosa Nostra trapanese è una creatura antica e insieme modernissima, che ha assorbito meglio delle altre ramificazioni mafiose l’impatto della repressione statale. In un certo senso, ancora oggi, a Trapani e dintorni la mafia non esiste: se non sei sui mezzi d’informazione, in fondo è come se non ci fossi. Tanto più risultano sconcertanti le recenti dichiarazioni del sindaco della città, per il quale «non bisogna parlare di mafia. Perché le si dà importanza. E poi i giovani si spaventano»⁵. Al di là delle provocazioni, una certa narrazione degli uomini d’onore ha fatto per lungo tempo da copertura alla reale pericolosità dell’associazione criminale. In questa particolare forma di letteratura, vengono posti in primo piano i singoli mafiosi, mentre viene in genere trascurato il quadro d’insieme, cioè l’Onorata società e i suoi addentellati nel corpo sociale, in cui nuota come un pesce nell’acqua. Talvolta, simile a un fiume carsico, sembra che ancora riaffiorino le opinioni che il prefetto di Trapani esponeva a proposito dei mafiosi nel 1874:

    Non può dirsi che vi sia tra costoro affiliazione. Non può chiamarsi tale quella specie di forza simpatica che li attrae tra di loro come se fossero sostanze simili. Ciascuno individualmente tende a soverchiare l’altro, a formarsi un centro proprio, né vorrebbe per amor di sé, che altri venisse a scemargli l’influenza sopra i più deboli.

    Il silenzio sulla mafia è reso possibile da alcuni elementi. Da queste parti, il numero dei pentiti è limitato e, se sai agire discretamente, al riparo di una barriera di omertà, riesci a mimetizzarti nelle pieghe della società civile, infiltrando l’economia legale e stabilendo un rapporto quasi simbiotico con vasti settori della borghesia locale. In altri termini, la mafia si è mossa attraverso quella che Antonio Gramsci chiamava, in tutt’altro contesto, l’egemonia, cioè un esercizio del potere «caratterizzato da una combinazione della forza e del consenso che si equilibrano, senza che la forza soverchi di troppo il consenso»⁷.

    Qualche segnale positivo arriva, ogni tanto. Da Calatafimi, per esempio, il paese noto sui libri di storia per la memorabile battaglia tra i garibaldini e le truppe borboniche. Qui, nel 2009, viene arrestato Domenico Raccuglia, detto il veterinario, boss di Altofonte, che aveva scelto di trascorrere parte della sua decennale latitanza nella provincia trapanese. Al momento della cattura, esce in manette dall’appartamento che aveva ottenuto dai soliti, insospettabili cittadini compiacenti, nel centro del paese (non tanto insospettabili, a dire il vero, se il proprietario della casa è stato recentemente assolto in quanto non processabile per lo stesso reato, secondo il principio ne bis in idem). Un gruppo di ragazzi, dopo aver compreso quanto stava avvenendo, si è messo a festeggiare. È un segnale importante, da non sottovalutare, lanciato da una nuova generazione non succube dell’omertà mafiosa. Eppure, come abbiamo accennato, Messina Denaro può ancora contare sull’ammirazione di una parte di quello che, in una intercettazione, un capomafia palermitano, Nino Rotolo, chiamava «il popolino». L’amore di tanti è motivato anche dal fatto che Castelvetrano gode di un singolare privilegio, che condivide con i paesi della provincia palermitana: qui è vietato imporre il pizzo. Matteo non permette che i suoi concittadini subiscano estorsioni, ed è ricambiato con la sconfinata gratitudine di numerosi commercianti. A fianco del padrino ci sono i fedelissimi, ovviamente. C’è il nucleo ristretto (si fa per dire…) della famiglia di sangue, che ha appoggiato in molte delle sue componenti l’avventura criminale di Matteo: fratelli, cognati, cugini, zii, parenti acquisiti. Particolarmente importante è il legame con Filippo Guttadauro, che ha sposato una delle sorelle Messina Denaro e appartiene a una delle famiglie dominanti nella zona orientale di Palermo, tra Bagheria e Brancaccio. Filippo, finché era in libertà, aveva il ruolo di postino privilegiato dei messaggi tra Messina Denaro e Bernardo Provenzano. Un altro cognato di Matteo è il commercialista Michele Alagna, arrestato nel 2000, sottoposto a indagini, e fratello di Francesca Alagna, da cui il padrino ha avuto una figlia che ha chiamato come la madre, Lorenza. Il nome del commercialista ha avuto particolare risalto sui mezzi di comunicazione in quanto collaboratore di Carmelo Patti, imprenditore di successo nel settore dei cablaggi elettrici, originario di Castelvetrano e azionista di maggioranza della Valtur, di cui ha rilevato il 77% entrando in società con il Tesoro. In seguito alle rivelazioni di tre collaboratori di giustizia, il cavalier Patti è stato recentemente coinvolto in alcune indagini per presunti rapporti economici proprio con il latitante suo concittadino. E la Direzione investigativa antimafia (DIA) ha chiesto, senza ottenerlo, il sequestro di ben cinque miliardi di euro di beni a lui intestati. Secondo gli investigatori, alle origini di questo enorme patrimonio vi sarebbe proprio il legame con il boss belicino.

    Un ruolo particolarmente attivo nella cosca di Castelvetrano avrebbe avuto Salvatore Messina Denaro, arrestato durante l’operazione Golem insieme al cognato Vincenzo Panicola. Il fratello maggiore di Matteo, fino all’arresto e alla condanna per associazione mafiosa, è stato impiegato presso la filiale di Sciacca della banca Comit e, prima ancora, presso la Banca Sicula, quando questa era in possesso della potente famiglia trapanese dei D’Alì. Il latitante ha potuto contare sulla devozione di alcuni dei suoi più stretti familiari, sia per comunicare con i suoi uomini, sia per gestire una parte delle immense ricchezze guadagnate con il narcotraffico e reinvestirle negli affari leciti. Ma, al di là del nucleo familiare, la vera forza del padrino del Belice è consistita, da un lato, in un nocciolo duro di uomini d’onore, una sorta di guardia pretoriana al suo servizio, al cui vertice vi sarebbe stato Franco Luppino di Campobello di Mazara, che avrebbe tenuto i rapporti con i mafiosi palermitani; dall’altro lato, in una folla di insospettabili utilizzati per omicidi, estorsioni, intimidazioni e per riciclare una parte dei capitali illeciti. Matteo Messina Denaro è stato uno degli artefici della riorganizzazione di Cosa Nostra all’inizio del secondo millennio, a partire da un processo di compartimentazione che è servito a limitare al massimo i danni provocati dal pentitismo e dalla repressione statale. Il giudice Guido Lo Forte ha spiegato davanti alla Commissione antimafia questa nuova struttura che s’innesta, senza sostituirla, su quella antica:

    La soluzione è stata la creazione di una struttura a raggiera, in cui soltanto una persona dispone di gruppi segreti tutti separati tra loro (cioè i gruppi non si conoscono fra loro). È una struttura a raggiera, nel senso che al centro c’è il capo, che è l’unico che sa; poi da questo centro si dipartono dei raggi che non hanno alcun contatto fra loro; ciascun raggio corrisponde ad una struttura segreta, che intuisce l’esistenza di altre strutture segrete, ma non ne conosce né l’entità, né il numero, né l’identità.

    Il magistrato ha paragonato la nuova configurazione di Cosa Nostra, quasi impermeabile ai tradizionali metodi d’indagine, all’OAS, l’organizzazione eversiva francese capace di mettere alle corde l’esercito coloniale ad Algeri. La citazione storica suggerisce che questa impostazione sia nata per reagire a una situazione eccezionale, quella seguita alla stagione delle stragi del ’92-93. Ma le ultime indagini indicano come Matteo Messina Denaro abbia scelto di mantenere questi organismi occulti anche oggi, in un regime di quotidianità mafiosa. Si tratta a volte di piccoli nuclei, cellule segrete di criminali, composte da fedeli imprenditori e da killer selezionati, alle dirette dipendenze del boss.

    E poi c’è l’altra famiglia, il mandamento mafioso che i Messina Denaro governano ormai da oltre trent’anni: Castelvetrano. Lo stemma cittadino è costituito dalla palma d’oro dei Tagliavia, che avevano ricevuto la città in baronia da Federico II nel 1299. Per questo è chiamata palmosa Civitas Castrum Veteranum. Qui si rifugiarono gli abitanti della vicina Selinunte, nel 250 a.C., dopo la distruzione della loro città. E Garibaldi qualificò Castelvetrano con l’epiteto di generosa, per il contributo dato con i suoi picciotti alla presa di Palermo. La città è nota anche per aver dato i natali al filosofo idealista Giovanni Gentile, ma il nome latino, castrum veteranum, rimanda piuttosto ai soldati e alla guerra, a un presidio posto in terra di confine, probabilmente un insediamento militare in epoca romana o bizantina. E frontiera lo è veramente, questa piccola città di poche migliaia di abitanti, sorta come retroterra della bella Selinunte e posta alla confluenza di due valli, quella del Belice e quella di Mazara. Gente tenace, radici contadine, ma anche un’apertura al mondo che nasce dalla vicinanza al mare, dall’emigrazione che ti allontana ma al tempo stesso avvicina al mondo gli altri, quelli che restano, che iniziano ad ascoltare con familiarità il suono di paesi un tempo ignorati: gli Stati Uniti, prima di tutti, e poi il Sud America, il Venezuela, il Brasile. Ma anche l’Africa, il continente dimenticato dall’Europa e riscoperto dalle mafie di mezzo mondo (oltre che dai cinesi…). Lo storico Rosario Spampinato ha sottolineato il mutamento di qualità avvenuto nel fenomeno mafioso in seguito all’emigrazione:

    Modellandosi sulle originarie relazioni comunitarie che l’emigrazione siciliana riproduceva negli Stati Uniti, i mafiosi riuscirono infatti ad esportare in una società aperta, ma segmentata per etnie diverse come era quella americana di fine Ottocento e primo Novecento, il prodotto della loro industria maggiore, quella della violenza.

    Pure la mafia, da queste parti, ha sviluppato una vocazione al confine – un limes mafiae – fra tre consorterie: quella palermitana, quella agrigentina e quella trapanese, terminali principali dell’unica società, come amava chiamarla, asetticamente, il boss di Agrigento Giuseppe Falsone. Il sodalizio del mandamento di Castelvetrano comprende anche le famiglie di Salaparuta Poggioreale, Gibellina, Santa Ninfa, Partanna e Campobello di Mazara. Il territorio trapanese è suddiviso in quattro mandamenti che comprendono diciassette cosche. Quasi tutti i capi più importanti degli ultimi decenni sono stati arrestati. Anche il famigerato Mariano Agate, forse poco noto al grande pubblico, ma che qualcuno voleva al livello di Totò Riina per importanza dentro Cosa Nostra. Sicuramente il capo corleonese aveva a Mazara una delle basi preferite in cui trascorrere la latitanza. In carcere è finito pure il fratello, Giovan Battista. Capi temibili, gli Agate, con un ruolo di primo piano nelle nuove iniziative imprenditoriali di Cosa Nostra e i contatti giusti con la politica. Ad Alcamo avrebbero comandato invece i Melodia. Per volontà dei corleonesi sarebbe toccata a loro la successione ai Rimi, che avrebbero controllato il mandamento fin dagli anni Sessanta. I Melodia non avrebbero avuto più rivali nella consorteria e gli unici dissapori sarebbero provenuti dall’interno stesso della famiglia. Secondo le intercettazioni, i due anziani fratelli Melodia non sarebbero riusciti a mettersi d’accordo su chi dovesse avere la primogenitura mafiosa e si sarebbero contesi all’interno dello stesso clan. Alla fine le forze dell’ordine hanno risolto il contenzioso.

    A Trapani il potere sarebbe stato nelle mani di Vincenzo Virga. Ben lontano dall’agiografia del criminale con la coppola e la lupara, Virga era un imprenditore-mafioso, capace d’inserirsi in silenzio nel tessuto produttivo della città. Secondo le ricostruzioni fatte da diversi collaboratori di giustizia, sembra che nella provincia comandasse in precedenza Nicola Buccellato, di Castellammare del Golfo. In questa cittadina, snodo nevralgico per la mafia siciliana, operava una consorteria cresciuta a dismisura con i traffici di stupefacenti, grazie a un ponte storicamente consolidato con gli Stati Uniti. Qui era sempre forte l’alleanza con i potenti Bonanno di New York, anche loro originari di Castellammare, come tanti altri emigranti di inizio Novecento. Con l’avvento dei corleonesi, il potere sarebbe passato nelle mani del triumvirato Virga-Agate-Messina Denaro che, in perfetto accordo con la Commissione provinciale di Palermo (la cosiddetta Cupola), avrebbe deciso i delitti più eclatanti commessi nella provincia di Trapani. Il ruolo di rappresentante provinciale sarebbe stato infine assunto da Francesco Messina Denaro, padre di Matteo. Così come avveniva nel resto dell’isola, l’eliminazione dei rami secchi all’interno anziché indebolire l’organizzazione aveva prodotto l’effetto di rafforzare la coesione interna e di rendere Cosa Nostra una macchina di morte ancora più efficace. All’esterno, parallelamente a quanto accadeva a Palermo, furono colpiti i migliori rappresentanti delle istituzioni: Giangiacomo Ciaccio Montalto, assassinato il 25 gennaio 1983; un attentato (fallito) contro il giudice Carlo Palermo il 2 aprile 1985, durante il quale morirono Barbara Asta e i suoi due gemelli di due anni; l’uccisione del magistrato Alberto Giacomelli il 14 settembre 1988.

    La mafia del secondo millennio vorrebbe essere qualcosa di anonimo, una misteriosa alchimia, presente sul territorio e insieme segreta, com’era alle origini. In poche parole, un’invisibile società di mutuo soccorso. Non è raro che possa sfuggirti. Come accade a Marsala. Situata in provincia di Trapani, la cittadina ha dato il nome a un vino liquoroso che era molto amato presso l’aristocrazia ottocentesca. Il tribunale di Marsala non è noto come quello di Palermo – il palazzo dei veleni, veniva chiamato negli anni Ottanta il palazzo di giustizia del capoluogo siciliano – ma ha conosciuto alcuni dei più importanti processi di mafia degli ultimi decenni. Senza che i giornali nazionali, molto spesso, gli dedicassero più di un trafiletto. Qui ha lavorato Paolo Borsellino. Qui, per la prima volta, un killer – Vincenzo Calcara – ha ricevuto l’ordine di uccidere il coraggioso magistrato. Una volta pentito, l’uomo ha sostenuto di aver ricevuto l’ordine direttamente da Francesco Messina Denaro, allora a capo del mandamento di Castelvetrano. Intriganti le parole con cui il collaboratore di giustizia ha rievocato il patriarca della mafia del Belice, nel momento in cui prendeva le distanze dalla sua filosofia di vita:

    Messina Denaro Francesco, il mio capo assoluto, amava più della sua stessa vita, più di suo figlio Matteo e più di ogni altro affetto, quell’Idea del Male che ha partorito Cosa Nostra e che ha fatto di essa una forte Entità collegata ad altre Entità. Messina Denaro Francesco era ben cosciente del fatto che, solo mettendo in primo piano l’Entità di Cosa Nostra, avrebbe potuto fare di suo figlio Matteo un genio e un grande capo. Al contrario di Messina Denaro Francesco, io ho consacrato le mie quattro figlie a quell’Idea del Bene che racchiude tutto quanto il mio amato Dr. Paolo Borsellino amava, compresa la Verità, i valori, il coraggio e il dovere. Ed io, se non farò il mio dovere, non mi sentirò degno di pensare ai miei figli.¹⁰

    Calcara avrebbe dovuto usare un fucile di precisione per eliminare il giudice Borsellino, ma in seguito Cosa Nostra ha optato per l’esplosivo di via D’Amelio, in cui ha operato un commando di palermitani.

    Marsala è città di mafia antica, ma è anche città significativa per l’antimafia, poiché qui è stato possibile svolgere alcune indagini che altrove – nel capoluogo, dove maggiori erano le pressioni politico-mafiose – non era sempre possibile svolgere. Il giudice Paolo Borsellino qui lavorò come procuratore, anche per sfuggire ai veleni palermitani. Dopo la morte dell’amico Giovanni Falcone, vi fece ritorno per trovare i colleghi, i magistrati più giovani che si consideravano suoi allievi, come Massimo Russo, che ricorderà anni dopo una giornata particolare del 1992:

    Venne a Marsala, credo il 4 luglio del ’92. Fu una bella giornata. Respirò l’aria di Marsala e del suo ufficio. Ritrovammo un barlume del Borsellino di sempre. Salutò i colleghi. Ricordo che parlammo nel corridoio del Palazzo di giustizia. Forse di un incontro con i ragazzi di una scuola. Mi disse: «Sono preoccupato per te perché ti stai occupando dei mafiosi del trapanese. Della tua città, stai attento. I mafiosi te la fanno pagare sempre». Poi mi salutò con una raccomandazione: «Ci vuole mano d’acciaio e guanto di velluto».¹¹

    Paolo Borsellino aveva ragione ad avvertire il suo amico magistrato. I «mafiosi del trapanese» sono una razza selezionata. Sembra che anche il linguaggio usato dagli affiliati per indicare le diverse articolazioni di Cosa Nostra sia differente. Secondo Pietro Scavuzzo, ex membro della famiglia mafiosa di Vita, per indicare la cosca di un paese si usa il termine locale, alla maniera della ’ndrangheta, mentre il capo è definito reggente. Inoltre, esisterebbe nel territorio trapanese una qualità particolare di soldato di mafia, chiamato "uomo d’onore pi ‘rera" (per eredità), «con la quale si indica un soggetto che abbia avuto ascendenti nella propria famiglia di sangue collocati, per circa un trentennio, ai vertici della reggenza di Cosa Nostra nella provincia di Trapani»¹². Il collaboratore di giustizia ha spiegato:

    L’attribuzione di tale qualifica comporta il riconoscimento di taluni privilegi quale l’obbligo di presentazione all’uomo d’onore pi ‘rera di tutti gli appartenenti a Cosa Nostra, ivi inclusi gli uomini d’onore riservati (la cui affiliazione viene resa nota soltanto a una ristretta cerchia di affiliati) e azzimati (combinati solo per essere usati per qualche impresa criminale e subito dopo soppressi), e il divieto di procedere alla sua soppressione senza l’assenso della Commissione regionale.¹³

    A questa gens mafiosa avrebbe tutto il diritto di appartenere l’uomo che oggi governa il territorio trapanese e il cui nome non viene pronunciato con leggerezza nemmeno tra gli affiliati. Nelle lettere, Messina Denaro si fa chiamare Alessio che, secondo il giornalista Di Girolamo, potrebbe derivare da una contrada di Castelvetrano denominata Sant’Alessio. I carcerati, infatti, spesso usano un nomignolo per riferirsi al latitante. Il preferito sembra essere l’olio, soprattutto nel linguaggio in codice dei detenuti, in riferimento alla sua terra d’origine, celebre per l’ottima produzione di olive. Oppure dicono semplicemente iddu (lui). Insomma, si tratta di un nome pesante da gestire per chiunque. Lo sa bene anche il suo avvocato.

    Tornando a quel giorno del 1992, a Marsala si dibatteva di uno dei delitti più vergognosi nella storia di Cosa Nostra: il sequestro e l’assassinio del piccolo Giuseppe Di Matteo, un ragazzino di undici anni, rapito, trasportato come un pacco attraverso le mani di alcune decine di mafiosi e tenuto segregato in condizioni disumane per due anni, in covi sparsi per la Sicilia, prima di essere strangolato e sciolto nell’acido. Quando venne sequestrato su ordine di Giovanni Brusca, il macellaio di San Giuseppe Jato, il piccolo aveva una sola colpa: essere figlio del pentito Santino Di Matteo, detto mezza nasca. Il boss di Altofonte era stato catturato e aveva iniziato a collaborare con la magistratura. Di Matteo aveva partecipato alla strage di Capaci, in cui avevano perso la vita Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli uomini della scorta. I mafiosi del Parco, come veniva chiamata anticamente la zona di Altofonte, avevano partecipato all’attentato in maniera massiccia. Santino aveva troppe cose da raccontare, per questo era pericoloso. Il sequestro del figlio doveva servire a farlo tacere. Ma la magistratura confermò le accuse contro Brusca, e Santino non ebbe il tempo di ritrattare. Durante una delle udienze per il delitto, nel vecchio palazzo di giustizia della cittadina siciliana, risuonarono le parole di un avvocato. Si chiamava Fabrizio Pizzitola, ed era un giovane e brillante penalista, con studi legali sparsi per la Sicilia occidentale: nel centro di Palermo, a Partanna, in provincia di Trapani, e a Bisaquino, in territorio corleonese.

    L’avvocato Pizzitola iniziò la sua difesa con queste parole: «Oggi, considerata anche la difficoltà data […] non fosse altro dal nome dell’imputato che io assisto […] chiedo a questo collegio uno sforzo particolare. Vedere e osservare Matteo Messina Denaro senza alcun tipo di preconcetto»¹⁴.

    Possiamo comprendere la difficoltà del giurista, poiché il nome di Matteo Messina Denaro è irrimediabilmente associato ad alcune delle stragi più sanguinarie della storia d’Italia. Secondo il pentito Vincenzo Sinacori, il latitante di Castelvetrano avrebbe fatto parte di una sorta di Cosa Nostra riservata creata da Totò Riina, «una Supercosa, un gruppo ristretto a lui stesso, a Agate, a Sinacori, a Messina Denaro, a Giuseppe e Filippo Graviano […] la cui esistenza avrebbe dovuto restare segreta anche all’interno dell’organizzazione»¹⁵. Una qualche forma di «preconcetto» nei magistrati giudicanti sarebbe stata quindi comprensibile.

    Lo stesso Messina Denaro ama descriversi come un perseguitato su cui la giustizia si accanisce senza motivo. Nelle sue lettere, il boss è solito dipingersi come un capro espiatorio. Si tratta di documenti di alta letteratura mafiosa, in cui ricorrono alcuni temi, come l’abolizione dell’ergastolo, e alcune parole chiave, quali dignità, causa, correttezza, umiltà, pace, onore, onestà e uomo. L’uomo per antonomasia è il padre, Francesco Messina Denaro, che viene indicato anche con il termine «il faro». L’identificazione con il padre, di cui il figlio è debitore dei propri codici valoriali-affettivi, è frequente. Matteo lo riconosce come autentico portatore di quel sentire mafioso che è fondamentale in questo genere di narrazione, per «la sua capacità di condurre-a-sé, restringendo l’orizzonte di significazione

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