Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Città a mano armata
Città a mano armata
Città a mano armata
E-book340 pagine5 ore

Città a mano armata

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Le indagini segrete sui casi più scottanti della storia criminale italiana

Introduzione di Carlo Bonini

Chi non ha provato, almeno una volta, il desiderio di conoscere come funziona un’indagine, di seguirne lo svolgimento, su strada e negli uffici dei commissariati di polizia o dei reparti speciali? Ebbene, questo libro, scritto a quattro mani da un noto scrittore e giornalista di “nera” e da un esponente di spicco della sezione Omicidi della squadra mobile di Roma, raggiunge proprio questo scopo: raccontare “dall’interno” inchieste più o meno note sui fenomeni criminali romani e non, dalle sanguinose scorribande di Giuseppe Mastini agli atroci delitti della Banda della Magliana, dalle tante truffe alle guerre tra gang per il controllo del territorio. E lo fa attraverso una narrazione in prima persona, proiettando il lettore nel backstage di un ufficio di polizia, facendogli vivere gli imprevisti, i colpi di fortuna, le situazioni paradossali che spesso si vengono a creare e rimettono in discussione tutto. La narrazione copre un arco temporale che va dai primi anni Ottanta fino ai giorni nostri e ricostruisce anche l’evolversi delle tecniche investigative. Con il tono del romanzo e la documentazione del saggio, Del Greco e Lugli rievocano fatti e fattacci di nera che hanno segnato e continuano a ferire Roma e l’Italia intera.

Tra Gomorra e Suburra

Le indagini più scottanti e torbide della storia criminale del nostro Paese raccontate come nessuno aveva mai fatto prima da un investigatore e un giornalista sempre sul campo
Massimo Lugli
Giornalista di «la Repubblica», si è occupato di cronaca nera come inviato speciale per 40 anni. Ha scritto Roma Maledetta e per la Newton Compton La legge di Lupo solitario, L’Istinto del Lupo, finalista al Premio Strega, Il Carezzevole, L’adepto, Il guardiano, Gioco perverso, Ossessione proibita, La strada dei delitti, Nelmondodimezzo. Il romanzo di Mafia capitale, Stazione omicidi. Vittima numero 1 e Vittima numero 2, nella collana LIVE, La lama del rasoio. Suoi racconti sono contenuti nelle antologie Estate in giallo, Giallo Natale, Delitti di Ferragosto, Delitti di Capodanno e Delitti in vacanza. Cintura nera di karate e istruttore di tai ki kung, pratica fin da bambino le arti marziali di cui parla nei suoi romanzi.
Antonio Del Greco
È nato a Roma nel 1953 ed è entrato in polizia nel 1978. Dopo i primi incarichi alla questura di Milano, è stato dirigente della Omicidi e di altre sezioni della squadra mobile romana. Sue le indagini su alcuni dei più grandi casi di cronaca nera degli ultimi anni, tra cui l’omicidio del “Canaro” alla Magliana, la cattura di Johnny lo Zingaro, il delitto di via Poma, la Banda della Magliana. Attualmente è direttore operativo della Italpol. Nel corso della sua lunga attività professionale ha ottenuto oltre cinquanta riconoscimenti personali per le sue non comuni doti investigative.
LinguaItaliano
Data di uscita11 gen 2017
ISBN9788822702906
Città a mano armata

Leggi altro di Massimo Lugli

Correlato a Città a mano armata

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

True crime per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Città a mano armata

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Città a mano armata - Massimo Lugli

    Introduzione

    Metti insieme uno Sbirro e un Cronista con le maiuscole, e trovi un pezzo del Paese e di Roma che non ci sono più. Persino nella lingua, nel dialetto tronco e spiccio che accomuna guardie, ladri e giornalai. Sì, un tempo andato. E non per limiti di età, che pure, un giorno, hanno costretto l’uno e l’altro a salutare una Questura e la redazione di un quotidiano, salvo convincerli che non era ancora arrivato il tempo dei giardinetti. Ma perché Antonio Del Greco e Massimo Lugli hanno vissuto il loro mestiere con la passione divorante – e oggi rara – di chi non ha mai smesso di guardare il mondo, la sua umanità – in questo caso, dolente, sguaiata, violenta, grottesca – con la curiosità rinnovata di chi, in fondo, non si rassegna al cinismo. Nonostante, e per definizione, si vuole sia questo il tratto che accomuna chi è cresciuto nel tanfo di nicotina, nelle notti e nelle albe stralunate di una Questura o di un marciapiede, trascorrendovi più tempo che non in casa propria. Con la propria donna e i propri figli.

    In un amarcord a tratti persino tenero, per quel suo rimpallo tra le due voci narranti che non fanno mistero di una reciproca e antica amicizia, le storie di Nera che animano queste pagine compongono un atlante a suo modo epico per quella capacità che il racconto del Male ha di farsi metafora e insieme galleria dei caratteri del genere umano. Delle miserie e del coraggio che ogni esistenza regala. E della dipendenza, quasi fisica, che finisce per fare prigioniero chi, per mestiere, quel Male tocca con mano.

    Si dice che le cose accadano solo a quegli uomini che sono in grado di raccontarle. E Antonio Del Greco e Massimo Lugli dimostrano di appartenere a questa famiglia di fortunati. Perché nella voce che ricorda i giorni di Johnny lo Zingaro, piuttosto che quelli di via Poma o del Canaro della Magliana – solo per citare alcune delle storie che leggerete – non c’è la semplice rievocazione di fatti di sangue che hanno scritto quarant’anni di cronaca. C’è l’attenzione ai dettagli, al frasario (prezioso quanto una reliquia il glossario in appendice del libro), al contesto in cui ciascuna di quelle storie si è rivelata. Sembra infatti di vederle, annusarle, alcune notti di Questura. Con il loro carico greve di sfrontatezza, machismo, metodi spicci, che da sempre distinguono i mobilieri, i poliziotti nati e cresciuti nelle squadre mobili, dai loro colleghi delle digos. Sembra di essere nella stanza del bordello di Porta Maggiore, quando Del Greco e i suoi uomini interrompono il sacerdote impegnato in un appassionato missionario con una giovane prostituta per squadrarlo nudo nel suo imbarazzo e consegnarlo al gergo della sezione Buoncostume con il caustico e insieme ammirato soprannome di don Cefalo. E sembra di essere seduto accanto a lui in una stanza della sezione Omicidi di San Vitale, quando Pietro De Negri, il Canaro della Magliana, abbocca alla provocazione di Del Greco e confessa l’orrore dell’oltraggio inflitto nel suo negozio di toletta per cani al pugile da cui aveva subito ogni genere di umiliazioni.

    Come in certi poliziotteschi degli anni Settanta-Ottanta, ci sono le sgommate delle Alfette, i calibro 9 para bellum, le puttane, i lenoni, i sòla, le paranze. In un proscenio cui fa da quinta un’infilata di dirigenti della Questura di Roma che hanno scritto un pezzo della storia della polizia italiana. Rino Monaco, Nicola Cavaliere, Rodolfo Ronconi, Nicola Calipari, Nicolò D’Angelo. Raccontati nei loro tratti più veri, perché ripuliti di ogni insincera retorica. E consegnati al lettore per quello che sono stati davvero agli occhi dei poliziotti che con loro hanno lavorato e dei giornalisti che li hanno visti e conosciuti nel loro mestiere.

    Si potrebbe rimproverare allo sbirro e al giornalaio che in questo ritratto di interni ci sia un tratto di autocompiacimento, di nostalgia passatista. Di retorica al contrario. Ma, a ben vedere, il loro racconto è invece e soltanto una prova di grande sincerità e onestà intellettuale. Perché la Questura di Roma e Roma sono state esattamente quel mondo in cui vi preparate a entrare leggendo le pagine di questo libro. Non fosse altro perché tutte le storie, a maggior ragione le grandi storie di cronaca, sono spesso figlie di un istante in cui gli uomini, guardie o ladri che siano, si rivelano in una debolezza o in un’intuizione. E i loro destini, le loro carriere, curvano in ragione di un dettaglio. Spesso figlio del caso.

    Arriverete in fondo per scoprire non solo molti inediti, ma anche che ad Antonio Del Greco e Massimo Lugli quel tempo che ora raccontano manca come l’aria. Essere riusciti a raccontarlo come hanno fatto è la prova che né l’uno, né l’altro hanno disarmato. Del Greco, dal giorno in cui ha restituito tesserino, pistola e manette, continua ad occuparsi, in altro modo, di sicurezza. Lugli, dal giorno in cui ha salutato noi di «la Repubblica», non ha smesso un solo giorno di scrivere. E l’una e l’altra, a giudicare dal risultato, sono due buone notizie.

    Carlo Bonini

    1. Il bandito del terzo turno. Johnny lo Zingaro

    Mai vista una cosa così. Il cortile della Questura straripante di gente, una folla di poliziotti inferociti che urlano, maledicono, minacciano vendetta, grida di Ammazziamolo, cronisti e fotografi appostati alle finestre, un cordone di divise, quei pochi agenti che non hanno perso il controllo, che tenta come può di arginare la marea…

    E noi in mezzo.

    Quella notte del 24 marzo 1987 non la dimenticherò mai, campassi cent’anni. E le botte che ho preso, a ripensarci, mi fanno ancora male.

    Sul sedile posteriore della nostra macchina, ammanettato con le mani dietro la schiena, sudato, congestionato e terrorizzato, c’era uno dei criminali più spietati che abbia mai incontrato nei miei oltre quarant’anni di polizia: Giuseppe Mastini, ventisette anni, alias Johnny lo Zingaro, un nome e un soprannome che, per chi ancora se lo ricorda, evoca sangue, omicidi, evasioni, fughe, rapine, sparatorie, inseguimenti. Roba da Dillinger all’amatriciana anche se allora c’era poco da scherzare. Molti anni dopo, un gruppo rock nostrano chiamato Gang (un nome che è tutto un programma) gli ha perfino dedicato un pezzo: «Venderà cara la pelle / Johnny non si arrenderà / né finestre né mura né celle / mai potranno fermare / la sua libertà».

    Quando leggo queste cose mi vengono sempre in mente le famiglie delle persone che ha ucciso (almeno tre, nel caso di specie, come diciamo in polizia), quindi è meglio che il commento lo lasci a qualcun altro e che torni a raccontare di quella notte infame.

    L’idea era quella di portare l’arrestato negli uffici della mobile, al secondo piano del palazzo di via San Vitale, Questura di Roma, dove ho passato i miei migliori anni di servizio. Impossibile. L’accesso alle scalette che conducono all’ascensore è bloccato da un gruppone di agenti che cerca di lanciarsi contro la macchina e farsi giustizia sommaria. Deplorevole, d’accordo. Ma l’ultima vittima di Johnny lo Zingaro era un poliziotto, Michele Giraldi, assassinato a freddo mentre prendeva la radio per controllare la targa dell’auto dello zingaro in fuga, e un altro collega se l’era cavata per un soffio (con ferite tanto gravi da renderlo inabile al servizio per sempre). In quegli anni di furia e di sangue, tra banditi scatenati e terroristi rossi e neri pronti a sparare, noi sbirri vivevamo col dito sul grilletto, il cuore in gola e l’adrenalina a mille… Tutto questo per spiegare (non per giustificare) che gli animi facevano presto a saltare come fuochi d’artificio. Insomma, mezza Questura era lì decisa ad andare per le spicce. E noi funzionari non riuscivamo a trattenere la rabbia degli agenti scatenati, eravamo due boe nel mare in tempesta. Un mare che minacciava di sommergerci, assieme al fermato, proprio adesso che eravamo finalmente riusciti a mettergli le manette ai polsi.

    Rino Monaco, il capo della mobile di allora, si guarda intorno nella bolgia e decide che l’unica strada possibile è quella che porta alle camere di sicurezza, le celle sotterranee sulla destra del cortile, entrando. Per arrivarci, dal punto dov’eravamo, saranno stati cinquanta metri… Un incubo.

    Scendiamo dalla macchina tenendo Mastini basso e cercando di proteggerlo dai colpi e subito si scatena l’inferno. Pugni, calci, ginocchiate, sputi, schiaffoni, tirate di capelli. Lo Zingaro s’acquatta, tremando, e quasi se la fa sotto; noi, praticamente sopra di lui, ci prendiamo le legnate. Qualcuno, di sicuro, ne approfitta per vendicarsi di un cazziatone, un turno di servizio prolungato, un permesso negato, insomma, tutti quei problemi che nascono inevitabilmente tra funzionari e agenti: giù botte, tanto siamo di spalle e, nella calca, non vediamo da dove arrivano.

    Il mio collega Nicolò D’Angelo, che diventerà, molti anni dopo, questore di Roma, quasi sviene quando una ginocchiata lo centra all’occipite, io rimedio un paio di cazzottoni così duri che sul ring, visto che sono pugile dilettante, non ho mai incassato di peggio, i nostri ragazzi della mobile tentano di arginare la folla e alla fine, grazie al cielo, riusciamo a guadagnare le celle di sicurezza, scaraventiamo dentro un Giuseppe Mastini più morto che vivo e ci sbrachiamo un po’ a riprendere le forze e a leccarci le ferite. Finita?

    Magari. Quella notte folle, assurda, irripetibile aveva ancora parecchie sorprese in serbo ma ora… flashback.

    Due giorni prima

    «Dottò, hanno rapinato la raffineria Fina, in via degli Idrocarburi… mi sa che è sempre lui, quello stronzo».

    La telefonata dalla sala operativa non mi sorprese neanche un po’. Ormai era un continuo. «Il bandito del terzo turno», lo chiamavano quelli del 113 perché, di solito, entrava in azione di sera, durante il terzo turno di servizio, ai distributori di benzina, il suo bersaglio preferito. Era dall’8 marzo, giorno della festa della donna, che andava avanti. Da solo o a volte assieme a una ragazza bruna e scarna, il bandito arrivava alle stazioni di servizio, spianava un grosso revolver, prendeva i soldi e scappava mentre le volanti scattavano sul posto. Quella volta gli andò male perché, nella fretta, intascò solo spiccioli e si fece sfuggire ottanta milioni di allora in contante, ma riuscì comunque a filarsela praticamente sotto il nostro naso. Inutili i soliti posti di blocco a raggiera per intercettare l’auto in fuga, inutili le battute e i pattugliamenti a settore. Niente di niente. E ancora non sapevamo a chi stavamo dando la caccia.

    I carabinieri invece sì. E, come succedeva a quei tempi, si guardavano bene dal dircelo. Ma questo è niente, visto quello che successe dopo.

    A questo punto, però, bisogna che mi decida a raccontare questa storia dall’inizio. Già perché la carriera criminale di Giuseppe Mastini, classe 1960, da Bergamo, nomade giostraio di etnia sinti – gli zingari stanziali italiani – era iniziata molto, ma molto prima. Parecchio prima che io arrivassi alla Questura di Roma, quinta sezione Antirapine della squadra mobile.

    Mastini Giuseppe, come scriviamo nei nostri verbali, si trasferisce a Roma all’età di dieci anni e comincia subito a darsi da fare. Vive in una roulotte coi suoi, dà una mano ai genitori con la giostra e inizia a frequentare la mala del Tiburtino, i barabba di allora col saccagno sempre in saccoccia e la baiaffa seppellita da qualche parte per poterla tirar fuori quando ce n’era bisogno. Tostissimi.

    Be’, Johnny fa subito capire a tutti che anche lui ha la stoffa del duro e a soli undici anni ha già un furto e una sparatoria con la polizia alle spalle. Il 30 dicembre 1975, quindicenne, aggredisce un tranviere, Vittorio Bigi, assieme a un complice della sua stessa età, Mauro Giorgio. Il tranviere abbozza una reazione, i due baby killer gli sparano a bruciapelo. Poi tentano di nascondere il cadavere e scappano. Il corpo verrà ritrovato una settimana dopo, il giorno dell’Epifania (questa storia è costellata di ricorrenze simboliche), in via delle Messi d’Oro, al Tiburtino. Il 15 gennaio scatta l’ordine di custodia per rapina e omicidio e il giorno successivo Mastini, ormai senza scampo, si costituisce. Per l’assassinio del tranviere, considerato che è minorenne e tutto il resto, si beccherà undici anni di carcere ma è chiaro come il sole, fin da subito, che non ha alcuna intenzione di scontarli.

    Al minorile, infatti, lo Zingaro resta esattamente due settimane. Il 2 febbraio, assieme ad altri quattro giovanissimi detenuti, tra cui il suo complice nel delitto, organizza un agguato alle guardie carcerarie. Il gruppo le assale, le stordisce con i sostegni metallici delle brande e si dà alla fuga. Inizia la lunga serie di evasioni che costelleranno la storia crudele di Giuseppe Mastini. Tanto per dare un’idea del personaggio, per chi non l’avesse ancora inquadrato, riporto il profilo tracciato dagli educatori del carcere di Casal del Marmo.

    Il giovane è dotato di un’aggressività mai riscontrata in alcun ragazzo recluso in questo carcere. In lui abbiamo notato la totale assenza di interessi e l’estrema difficoltà di dialogo con coetanei e adulti. Era aggressivo e violento senza motivi apparenti: picchiava, aggrediva, diceva parolacce, bestemmiava.

    Ho reso l’idea del tipo? E consideriamo che, allora, era soltanto un ragazzino…

    Il giorno dopo la fuga, Johnny si costituisce di nuovo. Trasferito all’Aquila, scappa anche di lì, il 24 settembre 1977, ma viene riacciuffato pochi giorni dopo. Divenuto maggiorenne, visti i trascorsi, finisce nel penitenziario di Pianosa, carcere duro, ma nell’81 è ancora uccel di bosco. Torna a Roma e per qualche anno non se ne sa più niente (noi sbirri, almeno). Lo beccheranno finalmente nell’83, dopo un inseguimento stile Fast and Furious sul raccordo anulare. Nella macchina che aveva rubato c’erano un fucile a canne mozze, due pistole, munizioni, otto passamontagna, rotoli di nastro adesivo e due divise della guardia di finanza. A cosa servisse tutto quell’arsenale, ufficialmente, non si è mai saputo, ma di sicuro non stava organizzando una festa di beneficenza. L’ipotesi principale era quella di un sequestro di persona, reato che andava forte in quegli anni, poi sostituito gradualmente dai rapimenti lampo, che continuano anche oggi anche se spesso le vittime neanche li denunciano… Ma torniamo a Johnny.

    Uno così, una volta che siamo riusciti a metterlo al sicuro, in cella dovrebbe restarci chiuso a doppia mandata fino alla fine delle condanne che gli si erano accumulate sul groppone, semplice no?

    Neanche per idea.

    Nel maggio 1986 Giuseppe Mastini è ancora a Rebibbia, accompagnato da un benevolo rapporto degli assistenti sociali in cui si legge che il ragazzo è maturato, ha bisogno di sostegno, vuole cambiare strada e bla bla bla. Nel febbraio dell’87 ottiene un permesso premio di otto giorni e io ancora sto qui a domandarmi se gli psichiatri che hanno scritto quel cumulo di assurdità e il giudice di sorveglianza che ha firmato la scarcerazione si siano sentiti almeno un po’ in colpa, dopo quello che è successo… Come quelli che hanno aperto la cella ad Angelo Izzo, il mostro del Circeo, poco prima che uccidesse altre due donne, zia e nipote… ma a questo punto è meglio che ritorni alla storia di Johnny visto che, ormai, siamo arrivati a quel maledetto 8 marzo e al bagno di sangue che ne è seguito.

    È notte fonda quando Johnny riesce a intrufolarsi in una villa di Sacrofano immersa nel buio. Paolo Buratti, trentasette anni, architetto e console italiano in Belgio, dorme con la moglie francese, Marie Veronique Michelle, che diventerà il testimone principale dell’accusa al processo. Lo Zingaro, ottenuto un permesso di otto giorni dal giudice di sorveglianza, è entrato in latitanza e si è procurato un revolver Smith & Wesson calibro .357 magnum, un autentico cannone con cui ha già messo a segno qualche rapina da strada. Adesso tenta il colpo grosso. Il padrone di casa viene svegliato da una figura da incubo che torreggia su di lui con la pistola in pugno. L’architetto non reagisce, Mastini rovista in giro alla ricerca di soldi e gioielli, racimola solo pochi spiccioli, perde la testa e spara. Paolo Buratti muore sul colpo, la moglie resta gravemente ferita, il bandito scappa, ruba un’altra macchina assieme alla sua ragazza, Zaira, e si tuffa di nuovo nella sarabanda di rapine e inseguimenti. I carabinieri, arrivati sul posto, lo identificano nel giro di pochi giorni e diramano note di ricerca via radio, con nome, cognome e segnaletica, a tutte le gazzelle. Noi della Questura lo sapremo solo molto più tardi ma, come dicevo prima, allora funzionava così e devo ammettere che neanche la polizia, in quegli anni, avrebbe meritato il premio speciale per la collaborazione tra divise. Ognuno per la sua strada e basta, ciascuno con la speranza di mettere le mani, per primo, sul ricercato: noi su un rapinatore seriale ancora senza nome, loro, i cugini, in caccia di un evaso assassino con una sfilza di precedenti penali; armato e pericolosissimo, come ripetevano, di continuo, gli operatori del 112 e del 113.

    Sono le 2:00 di notte quando un ispettore di turno mi sveglia con una telefonata a casa. Chiamata sul fisso, ovviamente, perché i cellulari, se anche qualcuno li aveva già inventati, non erano certo a portata di tutti, men che meno dei poliziotti. Il turno dei funzionari copriva un arco di ventiquattr’ore, il che vuol dire passare la giornata in ufficio e la notte a dormire, con l’obbligo della reperibilità. Appunto.

    «Antò, ci risiamo».

    Mi scrollo i residui di sonno dalla testa scuotendomi come un cane bagnato.

    «Che succede ispettò?»

    «Quello del terzo turno. Ha rapito una ragazza».

    Balzo in piedi di scatto mentre comincio già ad agguantare i vestiti.

    «Che… cioè?»

    «È successo al Flaminio. C’era una coppia che stava chiacchierando in macchina, una Lancia 2000. Il tizio arriva, punta la pistola, fa scendere lui e si prende la Lancia… e la ragazza».

    «Chi è?»

    «Si chiama Silvia Leonardi, ventiquattro anni… e tra l’altro è molto bella. Assieme al rapinatore, però, c’era anche una donna. La solita bruna secca».

    «Arrivo».

    Mi precipito in Questura e tento di coordinare le ricerche. La tecnica classica è quella di stringere la zona in una sorta di morsa a cerchi concentrici, cercando di tagliare le vie di fuga e intercettare la macchina. Sulla Lancia, nel frattempo, succedeva di tutto. E se non fosse per il dolore e il lutto che questa storia ha provocato, ci sarebbe da ridere: Johnny tenta qualche avance, con la grazia di un rinoceronte, alla giovane donna terrorizzata. «Dài, mollo ’sta piattola di Zaira e scappo con te…», le sussurra all’orecchio. La sua compagna mangia la foglia e fa una scenata di gelosia, l’auto, nel frattempo, è lanciata a centottanta all’ora sulle strade deserte, in direzione Tuscolano, mentre polizia e carabinieri tentano febbrilmente di localizzarla e…

    E un’altra tragedia in agguato.

    Due agenti del x Tuscolano stanno terminando il turno di servizio, in divisa ma su un’auto civile, una vecchia fiat 128 visto che l’autoparco in dotazione è quello che è e bisogna accontentarsi (anche adesso, del resto, le cose non sono cambiate molto, la spending review ha sforbiciato parecchio). Uno degli agenti nota la Lancia e, con l’istinto del poliziotto di razza, capisce che c’è qualcosa di strano e prende il microfono per segnalare la targa alla sala operativa, Doppia Vela 21, come la chiamiamo da sempre. Un gesto che gli costerà la vita.

    Dallo specchietto retrovisore, Giuseppe Mastini lo vede. Senza un attimo di esitazione inchioda, scende dalla Lancia, si avvicina alla 128 e apre il fuoco.

    Michele Giraldi resta ferito a morte. Il suo collega, Mauro Petrangeli, rimarrà menomato.

    Giuseppe Mastini apre lo sportello e s’impossessa delle armi in dotazione alla pattuglia: una Beretta 92 e una mitraglietta M12. Poi salta al volante della Lancia e via.

    L’operatore della sala operativa sente un gemito rauco via radio, una sorta di balbettio indistinto che andrà avanti per parecchi minuti ma non può capire che sta succedendo e pensa che qualcuno, come accadeva spesso a quel tempo, si sia intromesso sulle nostre frequenze e stia facendo uno scherzo di pessimo gusto. Mentre Giraldi, agonizzante, tenta di chiedere aiuto farfugliando frasi indistinte, l’agente del 113 perde la pazienza.

    «Insomma, falla finita, cazzo, stiamo lavorando, smettila di fare il cretino…».

    Pochi minuti dopo, una grandinata di telefonate al 113. «C’è stata una sparatoria, ci sono due poliziotti pieni di sangue». Tutte le volanti convergono sul posto mentre la macchina con Mastini, Zaira e la ragazza sequestrata punta verso la Palmiro Togliatti, uno stradone alberato all’estrema periferia sud di Roma punteggiato, allora come oggi, da prostitute e transessuali al lavoro.

    Sul ciglio della strada, ferma davanti a una cabina telefonica, c’è un’Alfa 75. Mastini la vede e decide che è il momento di cambiare macchina, visto che la Lancia è bruciata. Non sa che il proprietario, che in quel momento sta telefonando, è un brigadiere dei carabinieri. Il sottufficiale vede un tizio che tenta di fregargli la macchina ed esce dalla cabina urlando.

    Johnny gli spara una sventagliata con l’M12 mancandolo d’un soffio. Il brigadiere estrae la pistola e risponde al fuoco ma Mastini riesce a sganciarsi e prosegue la fuga, ormai tallonato da tutte le auto di polizia e carabinieri in servizio quella notte. Poco dopo, ruba una fiat 131 e si dirige verso la zona dei Castelli, i paesoni accoccolati sulle colline tra l’Appia e la Tuscolana, ormai virtualmente inglobati nelle propaggini della capitale. Non ha appoggi, non ha una strategia né una meta precisa: scappa e basta, come una belva braccata, decisa a difendersi fino all’ultimo. Una mina vagante. Con due morti e due feriti alle spalle, è già virtualmente un ergastolano, nessuna possibilità di trattativa, solo e disperato. E questo lo rende ancora più pericoloso.

    Passa un’ora, forse meno e, nei pressi di Monterotondo, Silvia Leonardi riesce a scappare. Forse è Mastini che, con un lampo di buon senso, la lascia andare. Tenersi l’ostaggio non fa altro che aggravare la sua posizione e comincia a pensare a come salvare la pelle, visto che finora gli è andata bene ma, se ci scappa un altro conflitto a fuoco, è spacciato di sicuro. La storia di sparare alle gambe va bene nei film. La realtà è diversa. E Johnny ha un poliziotto sulla coscienza: molti colleghi non vedono l’ora di fargliela pagare, in un modo o nell’altro.

    Lo Zingaro e Zaira, intanto, decidono di disfarsi della 131 e tentano di buttarla in un burrone. È in quel momento che Silvia scappa. Zaira, probabilmente, è ben felice di liberarsi dell’intrusa, visto che si era accorta da tempo delle occhiate cupide e dei bisbigli del suo uomo. Anche lei, del resto, verrà abbandonata poco dopo. Già magra come uno scheletro, incinta di Johnny, morirà di anoressia il 17 dicembre del 1988, forse, in qualche modo, l’ultima vittima di questa storia di sangue e follia ancora lontana dall’epilogo.

    Qualunque persona dotata di un minimo di buon senso, a questo punto, avrebbe capito che la partita era persa e si sarebbe arresa. Johnny no. Lasciata la macchina, scappa a piedi verso un boschetto, sulla cima di una sorta di montarozzo, nella zona chiamata Fontanile, nei pressi di Santa Colomba di Settebagni, aperta campagna. A un certo punto, lo Zingaro butta le armi in un ruscello: una mossa strana, per uno che ha deciso di battersi fino alla fine ma, a pensarci bene, nemmeno tanto. Mastini, in primo luogo, non ha idea delle prove che, tra polizia e carabinieri, abbiamo raccolto contro di lui e sa che le due pistole e la mitraglietta potrebbero incastrarlo definitivamente, quindi via entrambe. E, in secondo luogo, ha paura. Se un poliziotto o un carabiniere l’avessero visto con un’arma in pugno, c’era da scommettere che la sua carriera criminale non sarebbe finita in carcere ma al cimitero.

    Ma, ormai, la sua fuga disperata è alle ultime battute. Un piccolo esercito di centinaia di uomini, con i soliti cani sbavanti e uggiolanti, le pattuglie a cavallo dei carabinieri e perfino un drappello di nocs in tenuta da combattimento sta cingendo d’assedio il suo ultimo rifugio. Noi poliziotti da una parte, i carabinieri dall’altro lato. Un colpo di fortuna e tocca a me, Nicolò D’Angelo e Rino Monaco avvistare per primi una testa bionda e scarmigliata che fa capolino tra le frasche. E iniziare la trattativa a distanza.

    «Mastini, arrenditi, non hai scampo. Sei circondato… Butta le armi e vieni fuori piano, con le mani in alto», sbraito maledicendo di non avere un microfono. Classica scena da film.

    Qualche istante di silenzio poi la risposta.

    «Neanche per sogno. Appena esco mi ammazzate».

    «Nessuno ti ammazza se non fai stronzate. Vieni fuori».

    «No… sono sicuro che mi sparate subito».

    E avanti così per un bel pezzo. A un certo punto, Johnny chiede di parlare con l’ispettore Marco Verrillo, che l’aveva ammanettato qualche tempo prima. Sembra strano ma succede spesso: i delinquenti stabiliscono un singolare legame agrodolce con chi li acciuffa. Non so neanche io quante strette di mano, complimenti, saluti e baci mi sono beccato da gente a cui avevo appena messo le manette ai polsi… Sta di fatto che rintracciamo ’sto Verrillo e l’ispettore, bonario come uno zio, tenta di rassicurarlo come può.

    «Mastini, sta’ tranquillo, ci sono io… Nessuno ti vuole morto. Esci».

    «Sicuro? Non è che poi…».

    «Tranquillo. Esci, ti dico…».

    E alla fine Johnny lo Zingaro esce. Appena vediamo la sua sagoma tozza che emerge dal boschetto, gli siamo addosso, lo buttiamo a terra, lo ammanettiamo e lo scaraventiamo come un pacco dentro una volante. Poi via, a sirena spiegata, verso la Questura in quel tripudio di gioia e sollievo che solo un poliziotto alla conclusione di un’inchiesta difficile può provare. Via radio, mentre filiamo a tutto gas in direzione di San Vitale, ci arrivano le congratulazioni del ministro Gava, che aveva seguito la battuta in diretta; noi, stremati e trionfanti, a scambiarci pacche sulle spalle e prese per il culo reciproche, a pregustare il trionfo del giorno dopo e tutto il resto ma…

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1