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Mamma ’ndrangheta
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E-book1.147 pagine17 ore

Mamma ’ndrangheta

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Un viaggio lungo più di un secolo tra le organizzazioni criminali che hanno infestato l’area settentrionale della Calabria. Un viaggio tra boss e picciotti prima della “picciotteria” e poi della ’ndrangheta compiuto esaminando sentenze, documenti di archivio, pubblicazioni e giornali d’epoca e ricercando, come una volta facevano i grandi giornalisti, le foto più significative di personaggi che hanno dominato città e paesi forti, a volte, di un impressionante consenso sociale.
Il libro di Arcangelo Badolati è l’opera più completa ed esaustiva scritta sulle organizzazioni criminali della provincia di Cosenza. Traccia la mappa delle cosche calabresi e la catena di comando che ne determina strategie e interessi individuando l’esistenza di due “crimini”, uno a Cirò e l’altro a San Luca, così come emerge dalle più recenti indagini condotte dalle procure antimafia di Reggio e Catanzaro.

dalla Prefazione di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso
LinguaItaliano
Data di uscita11 lug 2014
ISBN9788868222000
Mamma ’ndrangheta

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    Anteprima del libro

    Mamma ’ndrangheta - Arcangelo Badolati

    ’ndrangheta.

    I fatti

    I crimini di San Luca e Cirò. La scomunica del Papa

    Il nuovo corso della mafia calabrese inquieta e fa paura. Due crimini governano la regione: uno ha base a San Luca, l’altro, invece, a Cirò. Il primo gestisce la parte meridionale della regione, il secondo quella centrosettentrionale. Tutti e due espandono la loro nefasta influenza sul resto d’Italia, contribuendo all’affermazione d’una organizzazione criminale storicamente abituata ad agire in immersione. Oggi i volti di boss e picciotti non sono più riconoscibili come un tempo e si confondono con quelli della gente comune. I nuovi adepti frequentano le università, presidiano le segreterie politiche, ricoprono incarichi pubblici, guidano cooperative, partecipano a convegni e dibattiti come se fosse tutto normale. Vestono capi firmati, girano con la valigetta ventiquattrore, mostrano iPad e BlackBerry quasi fossero degli imprenditori di successo. La ’ndrangheta moderna guarda, infatti, ai mercati europei dopo aver conquistato e saccheggiato il Settentrione d’Italia. Investe in immobili e rileva attività commerciali nei Paesi dell’Est, in Olanda, Belgio e Spagna ripetendo la campagna d’invasione iniziata nella seconda metà degli anni ’60 in Germania, Francia del sud, Australia e Canada. E il vecchio continente si accorge dei picciotti calabresi solo con la strage di Duisburg, nel 2007, quando i vendicatori di San Luca saldano i loro conti facendo sei vittime davanti a una pizzeria.

    La parola faida, che richiama antichi metodi di giustizia privata e un «potere millenario – scriveva Corrado Alvaro – che irride tutti gli altri poteri», occupa improvvisamente le prime pagine dei giornali di tutto il mondo. La comunità globale inorridisce e prende consapevolezza di un’entità criminale che opera attraverso cellule ormai diffuse nelle aree più ricche del pianeta. Un’entità forte di peculiarità che gli analisti delle intelligence abituate a combattere il terrorismo non riescono facilmente a decriptare.

    La ’ndrangheta è infatti incredibilmente ancora antica e, contestualmente, straordinariamente moderna. Usa riti e simbologie che richiamano la Garduña spagnola, lega le proprie famiglie attraverso matrimoni incrociati, adopera i battesimi e le cresime per rinsaldare le alleanze, esercita il controllo del mondo rurale e fondiario come faceva alla fine dell’Ottocento, mostrandosi però pronta a trasformarsi in una holding planetaria quando deve trattare la commercializzazione della cocaina, infiltrarsi nei lavori delle grandi opere pubbliche, flirtare con la politica, riciclare montagne di denaro, stringere accordi con le mafie sudamericane, russe, balcaniche e orientali.

    Il governo statunitense l’ha inserita nella Black list che comprende le organizzazioni più pericolose della Terra impegnate nel narcotraffico. La Rcmp canadese, l’Fbi e la Dea americane, l’Afp australiana, la Polizia Federale Colombiana, la Bundeskriminalant tedesca, la Fsb russa, la Guardia Civil spagnola ritengono la mafia calabrese una silente ma potentissima minaccia. Perché è capace di agire come una credibile società d’affari e, al contempo, è in grado di sfoderare la potenza militare propria delle più agguerrite formazioni terroristiche.

    Mamma ’ndrangheta cambiò volto nel 1975 quando, a Siderno, fu assassinato Antonio Macrì, il boss dei Due mondi. Lui e il compare di malefatte Mico Tripodo, ucciso pochi mesi dopo nel carcere di Poggioreale da due killer di Raffaele Cutolo, bloccavano la modernizzazione di ’ndrine e locali. Una modernizzazione che reclamavano Paolo De Stefano, Antonio Pelle, Natale Iamonte e Girolamo Piromalli sin da quando erano arrivati i soldi per la costruzione della Salerno-Reggio Calabria, il raddoppio del binario ferroviario tirrenico, la realizzazione del porto di Gioia Tauro, la strutturazione della Liquichimica di Saline Ioniche.

    I tempi di Domenico Maisano, la Belva di Drosi, e Angelo Macrì, il Re dell’Aspromonte – azionisti spietati e romantici – apparivano ormai lontani. Dopo il fallimento del summit di Montalto, presieduto nel 1969 da Peppe Zappia di San Martino di Taurianova, le cosche reggine cominciarono a sperimentare spericolati scenari alleandosi con la destra eversiva in occasione della Rivolta di Reggio e si dichiararono pronte persino a partecipare al colpo di Stato ideato dal principe Junio Valerio Borghese per sovvertire l’ordine democratico. Contavano così di ottenere dal nuovo Stato favori giudiziari e maggiori capacità di manovra. Andato però a monte il golpe e finiti i moti, decisero di venire a patti con i partiti di governo e con la sola organizzazione capace di fare da filtro e collante tra il potere e le mafie: la massoneria deviata.

    I capibastone crearono un grado gerarchico – la Santa – che consentiva loro di aderire a un’organizzazione che non fosse solo la ’ndrangheta e presero a maneggiare compassi e cappucci come prima facevano con pistole e lupare. Macrì e Tripodo non avrebbero mai avallato la logica della doppia appartenenza.

    La scalata al potere economico e politico sarà una corsa senza fine in tutto il Paese. Accumulati i capitali con i sequestri di persona e le estorsioni, le cosche investiranno in droga diventando, in pochi anni, padrone del mercato mondiale della cocaina. Contemporaneamente guadagneranno spazi sempre maggiori nei subappalti delle grandi opere pubbliche in Calabria, Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia Romagna e persino in Valle d’Aosta. Nel Lazio, a Roma, Latina e Fondi investiranno tanti soldi per acquistare immensi immobili e lussuosi locali, riuscendo persino a impossessarsi del Café de Paris in Via Veneto e del Caffè Chigi nel cuore dell’Italia politica e parlamentare. Lo stile tenuto sarà però sempre quello dell’immersione, tanto caro in Sicilia a Bernardo Provenzano. I calabresi, infatti, non attaccheranno mai frontalmente lo Stato, rinunciando alla strategia stragista proposta dai corleonesi ed evitando di ricorrere agli omicidi eccellenti. In Calabria cadranno solo due magistrati: Francesco Ferlaino, avvocato generale dello Stato, ammazzato nel luglio 1975 a Lamezia Terme, e Nino Scopelliti, sostituto procuratore generale in Cassazione, ucciso a pochi passi da Villa San Giovanni nell’agosto del ’91. La loro morte rimarrà impunita.

    Due, invece, i politici particolarmente in vista assassinati in tempi differenti e per ragioni diverse: Vico Ligato, ex potente presidente democristiano delle Ferrovie dello Stato, eliminato a Bocale nel 1989, e Francesco Fortugno, vicepresidente in quota Pd del Consiglio regionale, trucidato a Locri nel 2005. Ligato pagherà il desiderio di rimettere il naso, dopo l’esperienza romana, negli affari di Reggio; Fortugno, invece, pagherà la colpa di porsi come ostacolo alle mire d’una frangia criminale locrese nel settore della sanità.

    In questo contesto di famelica, moderna managerialità rivolta a colonizzare territori e mercati lontani non mancheranno, tuttavia, le faide e le stragi compiute da boss e picciotti per imporsi nei propri territori d’origine. Nel maggio ’91 un duplice omicidio sconvolgerà l’Italia: a Taurianova due commercianti saranno uccisi davanti a un supermercato – stanno vendicando la morte del mammasantissima Rocco Zagari. I killer infieriranno sul cadavere di una delle vittime tagliando la testa, lanciandola in aria e facendo poi un macabro tiro al bersaglio. Moriranno, negli anni ’90, oltre a capibastone ingombranti pure donne e bambini innocenti, a riprova che la ’ndrangheta non osserva alcun codice comportamentale come da più parti si è invece, erroneamente, favoleggiato. Papa Francesco che il 21 giugno del 2014 compirà una visita pastorale a Cassano, dove nel gennaio dello stesso anno è stato ucciso e bruciato un bimbo di tre anni, Cocò Campolongo, scomunicherà gli ’ndranghetisti. Dirà il Pontefice di fronte a 250.000 fedeli: «Coloro che nella loro vita seguono questa strada del male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati!». È un atto senza precedenti nella storia della chiesa cattolica.

    Capitolo primo

    La letteratura e la criminalità

    1.0 Letteratura e criminalità

    Gli scrittori calabresi dell’ultimo secolo hanno provato a comprendere e raccontare le dinamiche e i fenomeni che, nel territorio regionale, hanno determinato la nascita e il prosperare di organizzazioni criminali piccole o grandi, guidate da uomini carismatici e spesso senza scrupoli.

    Banditi, briganti e mafiosi hanno animato e condizionato la vita sociale ed economica di contrade, paesi e città in epoca precedente e successiva all’unità d’Italia. Molti intellettuali – a onor del vero con alterne fortune – hanno eseguito studi accurati sul fenomeno passato alla storia con il nome di brigantaggio: alcuni, soprattutto moderni, in chiave revisionistica; altri, in tempi meno recenti, provando a raccontare le varie fasi di un fenomeno cruciale della storia del nostro paese. Tra gli autori del Novecento, il solo Nicola Misasi – scrittore rivoluzionario e di cultura coraggiosa – si è imposto un’analisi oggettiva dei fatti, senza lasciarsi influenzare dalla comoda versione confezionata dai cantori di regime per ammantare di retorico patriottismo il nostro Risorgimento.

    Misasi già durante il regno dei Savoia ha, infatti, narrato l’epopea dei briganti operando in controtendenza e, mosso da una passione civile ineguagliabile, ha provato a spiegare le ragioni e le passioni che avevano spinto uomini e donne di Calabria a ribellarsi alle invasioni e alle repressioni. Misasi ha sfidato con i propri scritti regnanti e le caste politico-militari affinché fosse riconosciuto alla sua gente il diritto d’essere ricordata per quello che era: una popolazione annessa e mortificata. L’Unità d’Italia significò, infatti, per i calabresi, coscrizione obbligatoria, nuove tasse e ripetute violenze dei soldati settentrionali: interi paesi incendiati, contadini e preti uccisi, donne violentate.

    Lo scrittore, nato a Paterno Calabro in provincia di Cosenza, fu un narratore militante: il primo a raccontare di briganti coraggiosi e romantici come Giosafatte Talarico, il farmacista che lavò col sangue l’infamia subita dalla sorella e si consegnò poi, invitto, alle autorità in piazza Prefettura a Cosenza. Nicola Misasi smentì con fermezza la storiografia savoiarda che dipingeva il ribellismo calabrese come animato da rozzi assassini; senza timori riverenziali, denunciò il fallimento della rivoluzione risorgimentale e il sostanziale inganno che ne era derivato.

    Nel suo Il romanzo della rivoluzione scrisse a chiare lettere: «nuovi signori si erano sostituiti ai Borboni portando nel governo stesse arti e stesso metodo». Commentando il libro Senza dimani aggiunse: «questo libro non è un romanzo, è una difesa di un popolo generoso, calunniato dagli storici della rivoluzione. Né più né meno».

    Allo Sparviere, personaggio della sua opera Cronache del brigantaggio, affidò invece la descrizione dell’animus dei briganti silani:

    Se essi urleranno di dolore sotto il nostro pugnale pensate a quanti gemettero di dolore sotto le loro scudisciate; a quanti dei nostri morirono di fame, di freddo, di febbre nelle capanne, vittime dell’avarizia, dell’ingordigia, della ferocia dei nostri padroni. Eppoi anche noi dobbiamo vivere di un po’ di vita allegra per un anno, per un mese, per un giorno, non importa.

    Nicola Misasi morì nel 1923, a 73 anni: Benito Mussolini volle onorarlo con i funerali di stato. Era stato maestro di Michele Bianchi, ministro di regime ai lavori pubblici.

    1.1 Il fenomeno ’ndrangheta

    Il fenomeno ’ndrangheta, a differenza del brigantaggio, è sempre stato animato dalla volontà dei suoi massimi esponenti di accumulare ricchezza secondo forme illecite. Corrado Alvaro, autore tra i più grandi del Novecento italiano, ne parlò nel suo racconto L’onorata società, pubblicato nel 1955, anno dell’operazione di bonifica della Calabria affidata al questore Carmelo Marzano.

    Alvaro sottolineando l’inadeguatezza della classe dirigente nell’offrire occasioni di riscatto alle popolazioni stremate dalla disoccupazione e dall’emigrazione, scriveva:

    Quando una società dà poche occasioni di mutare stato, far paura è un mezzo per affiorare.

    Dalle pagine del Corriere della Sera, commentò poi l’azione repressiva decisa dallo Stato. Il suo pensiero, dopo quasi sessant’anni, è ancora attuale:

    Non è un semplice problema di polizia, né si tratta di mettere sotto accusa o in stato di assedio una intera provincia. La norma per un’azione seria potrebbe dettarla l’esame di come si è comportata la classe dirigente da 50 anni. Questo non è tutto ma potrebbe essere molto utile.

    Leonida Repaci, intellettuale originario di Palmi e ideatore del Premio Viareggio affrontò, invece, il tema della malavita in Santazzo il tempesta: splendido racconto in cui è ricostruita la storia di Santo Scidone, primo vero boss della ’ndrangheta calabrese, anch’egli palmese, che verrà assassinato con un colpo di fiocina da un giovane pescatore al quale voleva imporre il pizzo sulla vendita del pescespada. Santazzo è un uomo feroce e generoso che, dopo il terremoto del 1908, impose ai detenuti del carcere in cui era recluso d’intervenire in favore della popolazione. Nello scritto convivono i due volti del mafioso: quello dell’uomo apparentemente capace di provare sentimenti e l’altro, inquietante, del personaggio violento e senza scrupoli.

    Leonida Repaci

    Saverio Strati invece, nel Selvaggio di Santa Venere, definisce la ’ndrangheta «un’associazione dedita esclusivamente alla consumazione di delitti». Nel Diavolaro racconta di Santo, un malavitoso che entra molto giovane nella «Onorata società» e ne diventa il capobastone usando la violenza e flirtando con il potere. Ma il contributo più significativo offerto dalla letteratura calabrese sul tema della criminalità organizzata viene da Saverio Montalto che, nonostante la ripubblicazione delle sue due opere più importanti (La famiglia Montalbano e Matrimonio clandestino), rimane un intellettuale colpevolmente dimenticato.

    Santazzo Scidone sulla barca, in piedi al centro, alla Marinella di Palmi

    Montalto parlerà della criminalità calabrese in La famiglia Montalbano, romanzo scritto nel 1945 ma pubblicato postumo nel 1973, che ebbe una chiara influenza su Leonardo Sciascia rintracciabile ne Il giorno della civetta. I protagonisti dell’opera appartengono a una mafia spietata, potente e impunita. Una mafia tremendamente moderna che coinvolge il sindaco del paese, il parroco, il medico, gli avvocati, i proprietari terrieri. Nelle sue descrizioni tutti sono amici degli amici. Gli uomini della famiglia non hanno onore: trescano, fanno affari, gestiscono il potere e non risparmiano i più deboli.

    Lo scrittore rivela nella sua opera l’esistenza dei tre mandamenti della ’ndrangheta: ionico, tirrenico e reggino. Tre aree geografiche riconducibili ad altrettanti penitenziari: Locri, Reggio Calabria e Palmi. Una strutturazione territoriale e governativa che le cosche si sarebbero date e che troverà conferma, 65 anni dopo, nella maxinchiesta Crimine condotta dalla Procura distrettuale di Reggio Calabria.

    L’indagine, dando forma giudiziaria alle anticipazioni dell’autore, chiarirà i ruoli delle tante ’ndrine e dei numerosi locali che affollano i litorali e l’Aspromonte, il centro e il nord del Paese, la Germania e la Francia, il Canada e l’Australia. Dai tre mandamenti nasce una direzione strategica – per usare una definizione risalente agli anni di piombo – che diventa, secondo le tesi della magistratura inquirente del terzo millennio, l’unico organismo – il Crimine – in grado di dettare linee d’azione, indicare obiettivi, autorizzare omicidi e interferire negli scontri tra famiglie durante le feroci faide: un comando unificato demandato ad autorizzare la nascita o la chiusura di locali ’ndranghetistici in Italia e nel resto del mondo. Un vertice su cui sarebbe rimasto per qualche tempo assiso con la qualifica di capocrimine Domenico Oppedisano da Rosarno, ottantenne saggio compagno della Piana di Gioia Tauro, nominato custode e sacerdote dell’ortodossia mafiosa: niente a che fare con il capo dei capi siciliano, il corleonese Totò Riina U curtu, famoso per cinismo e spietatezza. Il capocrimine calabrese di moderna definizione non è infatti sovrapponibile al presidente della commissione di Cosa nostra. E il crimine reggino non è assimilabile alla cupola isolana. Ruoli, funzioni e peso appaiono oggettivamente diversi. Da sempre.

    L’esistenza del Crimine non è dunque la scoperta investigativa del nuovo secolo. La prova letteraria e non investigativa la offre proprio Saverio Montalto, dandone conto dell’esistenza già negli anni quaranta del secolo scorso. In quelle pagine, scritte in tempi ormai lontani, l’autore nativo di San Nicola di Ardore racconta della riunione convocata dai maggiorenti delle cosche per decidere l’omicidio di un giovane possidente che aveva oltraggiato il boss del paese e insidiato l’amante d’un altro capobastone. Montalto, veterinario di professione, fu autore di un omicidio e di un tentato omicidio. Scrisse il testo durante la detenzione. Così illustrò la riunione tra capi:

    Dopo il Crimine di prima istanza veniva il Crimine provinciale o vertice che era a sua volta una specie di corte suprema composta dai tre capi trini che detenevano il comando dei tre circondari della provincia.

    L’autore, il cui vero nome era Francesco Barillaro, descrisse dunque con largo anticipo l’esistenza dei tre mandamenti e della commissione provinciale che definisce Crimine, proprio come faranno 65 anni dopo i magistrati antimafia di Reggio Calabria.

    L’uomo non era un chiaroveggente ma, per via della sua controversa storia personale, un obbligato frequentatore carcerario di malavitosi: è chiaro, pertanto, che il Crimine e i tre mandamenti sono un patrimonio antico della criminalità organizzata calabrese e non pura finzione letteraria. In tempi più recenti, negli anni novanta, ancora la Procura distrettuale antimafia di Reggio Calabria ha ipotizzato l’esistenza di un organismo unitario delle cosche del Reggino: una struttura verticistica chiamata Cosa nuova costituita dai membri delle famiglie più influenti dei Bellocco, Barbaro, Romeo, Iamonte, Araniti, Cataldo, Alvaro, Piromalli, De Stefano, Papalia, Pelle, Morabito, Serraino, Nirta, Mammoliti, Imerti e Condello.

    La tesi non ha trovato tuttavia riscontro processuale e non è riuscita a superare lo scoglio delle indagini preliminari. Della struttura di vertice avevano parlato i pentiti Luigi Sparacio e Gaetano Costa di Messina oltre a Filippo Barreca e Giacomo Lauro di Reggio Calabria. La tesi della magistratura inquirente si riferiva però a una struttura provinciale creata, dopo la guerra di Reggio Calabria del 1991, per dirimere le future controversie ed evitare ulteriori spargimenti di sangue. In effetti però il Crimine della ’ndrangheta esisteva già nella prima metà del Novecento; fungeva da camera di controllo e compensazione tra i locali e da tribunale in grado di emettere condanne alla pena capitale. D’altronde nel 1969, durante il famoso summit raccontato da Montalto, il patriarca Giuseppe Zappia di San Martino di Taurianova fu sorpreso dai poliziotti del questore Emilio Santillo proprio mentre spiegava ai boss riuniti tra i boschi aspromontani come la ’ndrangheta non dovesse perdere la sua unitarietà: una prerogativa che si manifestò in occasione della costruzione della Salerno-Reggio Calabria e del porto di Gioia Tauro o quando, a Razzà, i capi si riunirono per decidere la spartizione di mazzette e subappalti legati alla realizzazione della strada che avrebbe dovuto collegare l’area tirrenica a quella ionica. Furono successivamente le guerre scoppiate in riva allo Stretto, nella Locride e nella Piana di Gioia a sottrarre importanza al Crimine e ai mandamenti. Tornata la pace, invece, la vecchia struttura ha ripreso seppur con fatica a funzionare. Con buona pace di quanti, tra investigatori e studiosi, non hanno mai letto Saverio Montalto, scrittore morto in solitudine, ignorato dal mondo letterario nazionale.

    Capitolo secondo

    Le origini della ’ndrangheta e la Garduña spagnola

    2.0 La comune nascita delle mafie

    Le mafie calabrese, napoletana e siciliana hanno un’origine comune che affonda le radici nel dominio esercitato in meridione dagli spagnoli. Un dominio cominciato con gli aragonesi e proseguito, seppur in maniera discontinua, sino all’Unità d’Italia. Non è casuale infatti che la leggenda tramandata oralmente per decenni da boss e picciotti della ’ndrangheta faccia risalire la nascita dell’associazione alle vicende biografiche di Osso, Mastrosso e Carcagnosso, cavalieri iberici originari di Toledo, che fuggirono dalla Spagna dopo aver ucciso l’uomo che aveva disonorato una loro sorella. I tre uomini vissero per ventinove anni nell’isola di Favignana, dopodiché Osso decise di restare in Sicilia e fondò la mafia, Mastrosso andò in Campania e creò la camorra mentre Carcagnosso si trasferì in Calabria dove diede vita alla ’ndrangheta. I cavalieri uniscono nella fantasia popolar-criminale le tre organizzazioni delinquenziali più potenti del sud Italia e le rimandano a una matrice straniera che potrebbe non aver un reale significato oltre quello leggendario e fiabesco, se non si tenesse conto di due inoppugnabili dati.

    Il primo: l’area meridionale della nostra penisola fu per più di due secoli sotto il controllo dei regnanti spagnoli. Il secondo: proprio a Toledo, città della Castiglia, sarebbe stata fondata nel 1417 una setta segreta – la Garduña – che presentava, nella sua strutturazione interna e nei suoi rituali, evidenti analogie con le mafie nostrane. Una setta i cui codici, regolamenti, costumi e consuetudini potrebbero essere stati importati nell’antico Regno di Napoli e delle Due Sicilie proprio dalle gerarchie di governo, dai militari e dai commercianti spagnoli che, occupando questa parte dello Stivale, si sarebbero trascinati l’ombra sinistra della Garduña. Ma è esistita davvero la Garduña? Oppure siamo al cospetto solo di un mito fondativo privo di qualsivoglia riscontro storico e fattuale? Difficile offrire risposte certe. Non esistono infatti processi che ne attestino giudiziariamente l’esistenza e se ne parla per la prima volta, con dovizia di particolari, in un vecchio testo del 1844 – Misterios de la Inquisicion Española y otras Sociedades Secretas – scritto da Victor de Fereal. Un capitolo dettagliato viene pure dedicato alla consorteria nel volume Grandes cospirationes de la historia firmato nel 2005 da Camacho Santiago. Un altro testo di due importanti storici iberici, Leon Arsenal e Hipolito Sanchiz, dal titolo Una historia de las sociedades secretas españolas, ne confuta invece in toto l’esistenza attribuendone l’invenzione proprio al de Fereal. Qual è la verità? D’una misteriosa setta si ebbe un importante riferimento letterario in Rinconete y Cortadillo, novella di Miguel de Cervantes in cui è narrata la storia di due ladri apprendisti ammessi alla feroce confraternita di Monopodio attiva a Siviglia. Una confraternita nella quale i componenti si spartivano i profitti, corrompevano la polizia e il clero per guadagnarsi l’impunità e utilizzavano un preciso codice linguistico e gergale per comunicare.

    Miguel de Cervantes

    Cervantes racconta che i novizi erano chiamati fratelli minori, mentre i più attempati e abili compagni di malefatte fratelli maggiori. La setta era insomma strutturata in due nuclei, proprio come ieri lo era la Garduña secondo de Fereal e come lo sono oggi le cosche della ’ndrangheta, i cui locali sono costituiti dalla società minore e dalla società maggiore. Della prima fanno parte picciotti e sgarristi, dell’altra i quadri dirigenti dell’associazione mafiosa. Le analogie tra la setta sivigliana, la fantomatica Garduña e la ’ndrangheta sembrano dunque evidenti. Prima tuttavia di approfondire comparativamente le strutture delle diverse associazioni criminali, è utile tornare agli spagnoli e alla loro lunga dominazione in Italia, cominciata con Alfonso i d’Aragona che governò il Regno di Napoli (di cui la Calabria era parte) sino al 1458. Alla sua morte lo scettro passò al figlio, Ferdinando i, detto don Ferrante, il cui controllo si estendeva fino alla punta estrema della Calabria; Giovanni ii, invece, ereditò la guida della Sicilia e della Sardegna.

    Don Ferrante preservò l’unità del Regno anche a dispetto di tentativi di rovesciamento promossi da influenti prìncipi campani. Nei momenti di difficoltà, come già era stato per il padre Alfonso, fu sostenuto da Giorgio Castriota Scanderbeg, valoroso combattente albanese. In quel periodo, peraltro, numerosi schipetari avevano iniziato a emigrare nel cosentino per sfuggire al giogo musulmano che stava stritolando il Paese delle aquile. Il successore di Ferdinando i fu, nel 1494, Alfonso ii: il primogenito. In quello stesso anno Carlo viii di Francia invase il Regno di Napoli e costrinse gli aragonesi a rifugiarsi in Sicilia. I fuggiaschi chiesero e ottennero l’appoggio del monarca spagnolo Ferdinando il cattolico: egli inviò in loro aiuto un contingente militare guidato da Gonzalo Fernández de Córdoba che affrontò le truppe francesi proprio in Calabria. In opposizione a Carlo viii, nel frattempo, fu costituita una Lega ispirata da Papa Alessandro vi e da Massimiliano d’Asburgo che sconfisse il re francese a Fornovo. Alfonso ii d’Aragona, intanto, perì in battaglia e nel 1495 gli successe il figlio Ferrandino che conservò il potere per appena un anno.

    Al trono aragonese salì perciò, nel 1496, Federico i, fratello di Alfonso ii e secondogenito di Don Ferrante. Il nuovo re dovette subito fare i conti con le pretese sul Regno di Napoli di Luigi xii duca d’Orléans, erede del potere da Carlo viii. Ferdinando il cattolico divenuto intanto anche padrone della Castiglia si accordò con i francesi per chiudere definitivamente la partita e spartirsi l’Italia. Il Regno di Napoli, a discapito degli aragonesi, fu diviso tra le due corone: al monarca francese andarono Abruzzo, Terra di Lavoro e il titolo di Re di Napoli; Puglia e Calabria, invece, furono annesse alla Spagna. Federico i, ormai costretto a subire le altrui iniziative militari e diplomatiche, si rifugiò dapprima a Ischia e, in seguito, stipulò la cessione della propria sovranità a Luigi xii in cambio di alcuni feudi nell’Angiò. Tuttavia le frizioni tra francesi e spagnoli continuarono per via dell’indefinita questione legata al possesso del Contado del Molise a cui aspiravano entrambe le forze contendenti. Nella confusione del momento, Ferdinando il cattolico scatenò le truppe stanziate in Calabria e Puglia che, condotte da Gonzálo Fernandez de Córdoba, scacciarono dal Mezzogiorno gli uomini del duca d’Orléans. Ferdinando divenne così signore incontrastato del Regno di Napoli e si proclamò erede legittimo dello zio, Alfonso i, attribuendosi anche la corona aragonese di Sicilia. Da quel momento l’intero meridione d’Italia rimase, sino al 1713, sotto l’influenza della corona spagnola che vi istituì un vicereame.

    2.1 I viceré

    Il primo viceré fu proprio Gonzalo de Córdoba cui succedettero Juan de Aragón, che legiferò contro l’usura e il gioco d’azzardo, e Raimondo de Cardona che tentò invece di importare nel Regno di Napoli la temuta e feroce Inquisizione spagnola. La corona di Spagna, nel frattempo, passò da Ferdinando a Carlo v. Questi abdicò nel 1555 e divise i suoi possedimenti fra Filippo ii – cui lasciò la Spagna, il Regno di Napoli, la Sicilia e la Sardegna – e Ferdinando i d’Asburgo cui conferì l’Austria, la Boemia e l’Ungheria.

    I vicereami che si instaurarono sotto Filippo ii furono segnati da operazioni belliche e pestilenze drammatiche come quella che, tra il 1575 e il 1576, investì prepotentemente anche Cosenza. Il viceré del tempo era Íñigo López de Hurtado de Mendoza che, oltre alla peste, dovette affrontare gli assalti compiuti dalla flotta di Murad iii, sultano ottomano che saccheggiò le località costiere del sud Italia. I turchi in più occasioni compirono autentiche razzie (come quella di Trebisacce) e costrinsero il viceré a disporre la militarizzazione delle coste. Il 16 luglio del 1599 Fernando Ruiz de Castro succedette a de Mendoza e affrontò con ancora più decisione il pericolo delle continue incursioni turche in Calabria.

    2.2 Uccialì e Campanella

    Nella seconda metà del Cinquecento, tra i più temuti pirati saraceni c’era Uluch Alì Pascià, un rinnegato nato a Le Castella (Isola Capo Rizzuto) col nome di Giovanni Galeni, preso prigioniero dai turchi nel 1536 e poi convertitosi all’Islam. L’uomo, dopo aver sposato la figlia d’un satrapo arabo, divenne comandante di una spietata flotta corsara che, addirittura, sopravvisse alla celebre battaglia navale di Lepanto. Uluch Alì, che la gente calabrese chiamava Uccialì, divenne pascià di Algeri e Tunisi. Di lui parla Miguel de Cervantes nel Don Chisciotte definendolo un «buon uomo» dotato di «grande umanità» verso gli schiavi cristiani presi prigionieri: il grande scrittore spagnolo apprese la storia di Uccialì durante la sua schiavitù in Africa presso i pirati turchi.

    Un altro importante riferimento letterario – molto più recente – in cui emerge la figura di Uccialì si ritrova in Altai, romanzo firmato nel 2011 da Wu Ming, collettivo di scrittori, per Einaudi.

    Ma durante il vicereame di Fernando Ruiz de Castro, oltre ai problemi di sicurezza cagionati dai pirati saraceni vi fu pure un tentativo di rivolta.

    Tommaso Campanella

    Tommaso Campanella organizzò, infatti, una congiura per instaurare una repubblica che avrebbe dovuto avere come capitale Stilo, piccolo centro dell’area ionica del Reggino. Il filosofo, che già era stato prigioniero del Sant’Uffizio e confinato in Calabria, riuscì a fomentare una congiura che coinvolse l’intero Ordine domenicano della regione, gli Agostiniani, i Francescani e le diocesi di Cassano e Reggio Calabria. Fu il primo tentativo di rivolta in Europa contro l’Ordine dei gesuiti che, sotto il dominio spagnolo, aveva assunto un ruolo centrale. Il progetto di Campanella però non ebbe successo.

    Il filosofo fu tradito e scoperto, quindi costretto a fingersi pazzo per sfuggire prima alla condanna a morte, poi all’ergastolo.

    2.3 I fermenti culturali e le corti giudiziarie

    Nel 1511, durante la dominazione iberica, Aulo Giano Parrasio fondò l’Accademia Cosentina. L’istituzione culturale trovò in Bernardino Telesio, Pirro Schettino e Sertorio Quattromani i suoi maggiori animatori. La città dei Bruzi era all’epoca capoluogo dell’intera regione (lo rimase fino al 1562) e sede della più importante corte giudiziaria. Altre Accademie letterarie sorsero nel medesimo periodo: a esempio, quella dei Naviganti a Rossano e degli Inquieti a Maida. La Calabria del tempo era divisa in Citra e Ultra e si espandeva, come oggi, dal massiccio montuoso del Pollino sino all’Aspromonte. La vastità del territorio indusse presto gli spagnoli a istituire, a Catanzaro, una seconda sede giudiziaria necessaria ad amministrare le questioni afferenti la Calabria meridionale Ultra.

    Nel 1582, tuttavia, i notabili di Reggio Calabria chiesero che la Udienza – così si chiamava – fosse trasferita in riva allo Stretto; nel 1584 il re Filippo ii acconsentì alla richiesta. Dieci anni dopo, però, nel 1594 la Udienza venne di nuovo trasferita. Per poco tempo fu insediata a Seminara e, quindi, di nuovo a Catanzaro. Le guerre campanilistiche avvenute in tempi molto più moderni presentano dunque importanti precedenti storici tra il Cinquecento e il Seicento.

    La prima fase della dominazione iberica si concluse nel 1706 con l’occupazione austriaca del meridione. Gli spagnoli tornarono a dominare il Regno di Napoli nel 1734 con Carlo iii di Borbone – figlio di Filippo v re di Spagna e di Elisabetta Farnese – che fece il suo ingresso nel capoluogo partenopeo il 10 maggio 1734.

    Ferdinando vi, intanto divenuto re di Spagna, morì nel 1759 e lasciò lo scettro del potente regno al fratello Carlo iii che, a sua volta, abbandonò Napoli e nominò suo successore il terzogenito, Ferdinando iv.

    L’avventura dei monarchi spagnoli nel meridione si chiuse il secolo successivo, con l’Unità d’Italia. L’occupazione piemontese del Regno delle Due Sicilie segnò la fine dell’epopea dei Borbone. I Savoia soffocarono nel sangue la resistenza delle popolazioni servendosi del corpo militare dei bersaglieri. Il processo di annessione, nella cui prima fase Giuseppe Garibaldi svolse un ruolo cruciale, si completerà con la consumazione di feroci crimini ai danni di uomini, preti, donne e persino bambini. Le promesse di libertà, ridistribuzione delle ricchezze e maggiore giustizia sociale non trovarono, in seguito, alcuna concretezza. I massoni e i rivoluzionari che avevano appoggiato la guerra contro i Borbone si riscoprirono strumentalizzati e traditi: la già precaria funzionalità delle istituzioni periferiche, inoltre, peggiorò e le attese del popolo non furono quasi mai soddisfatte. La sfiducia nel nuovo Stato crebbe a dismisura e nel contempo nacquero forme di amministrazione privata della giustizia, esercitate dal patriziato locale attraverso la manovalanza criminale che gestiva i latifondi. Sorsero anche associazioni delinquenziali che, approfittando dei vuoti lasciati dal Regno d’Italia, s’impadronirono d’intere porzioni di territorio imponendo il pagamento del pizzo a commercianti, ambulanti e professionisti. Nacque, insomma, la picciotteria.

    2.4 Garduña, camorra e ’ndrangheta

    L’esistenza di una setta criminale d’ispirazione spagnola è indicata in letteratura, per la prima volta, in uno scritto risalente al 1726 dal titolo: Barlume di fatto a ragioni a pro di tre poveri soldati alemanni del reggimento Odiveier come sicari e proditori da porsi a’ piedi di S.E. l’eminentissimo Althann. L’autore del testo – come riferisce nel 1862 l’intellettuale e scrittore Marc Monnier – dopo aver esaminato gli abusi compiuti dai soldati spagnoli durante la dominazione, scrive:

    Quello che era peggio è che quei tali allora militari di sì corrotti e diabolici costumi tiravano seco buona parte di sgherri e malandrini del paese, che uniti con un altro infame genere di certi bastardi di soldati, chiamati giannizzeri dalli stessi spagnoli idalghi e d’onore aborriti, li quali per vilissimi uffizi fatti avessero, tutti col Don appellavansi, col confondersi il nome di cavaliere tra i ribaldi, e male a quel povero cittadino che non li rispettava, sendone giunti sino a ritirarsi in chiesa, con certi bigliettini componeano di consideranti somme i benestanti, minacciandoli in mancanza della vita.

    Dallo scritto si evince dunque che i militari spagnoli corrotti avevano costituito – con sgherri e malandrini di paese – un’associazione che pretendeva denaro dai benestanti. I malfattori si fregiavano del titolo di don per confondersi tra la popolazione e giustificare atteggiamenti da cavalieri. Lo scritto riportato da Monnier dimostrerebbe l’esistenza nel meridione d’Italia di una setta criminale già attiva nel 1600, fondata sugli stessi princìpi della misteriosa Garduña iberica nata, secondo Victor de Fereal, nel 1417 a Toledo e poi sviluppatasi anche a Siviglia, Barcellona, Cordoba e Madrid e in seguito esportata nel Regno delle Due Sicilie.

    La tesi è argomentata con convinzione dallo stesso Monnier che nei suoi studi individuava «tanti punti di somiglianza» tra la Garduña e la camorra napoletana. Lo scrittore sosteneva, infatti, che fossero stati riuniti sotto il vessillo di una sola associazione delinquenziale «i baratori di carte, i ladri nelle vie, i tirannelli delle prigioni e tutti i sanguinari del paese». La consorteria di malfattori, durante il vicereame spagnolo, compiva le stesse violenze e metteva a segno le medesime estorsioni che egli aveva successivamente riscontrato nel Regno delle Due Sicilie, in cui visse tra il 1861 e il 1862. La setta criminale ispirata al modello della Garduña era composta da associati che ricoprivano gradi e ruoli diversi. Gradi e ruoli già emersi nella penisola iberica e di cui parlò – come accennato nel paragrafo precedente – Miguel de Cervantes in Rinconete y Cortadillo: una novella ispirata da un mirato studio compiuto dal letterato spagnolo, tra il 1588 e il 1603, durante un suo lungo soggiorno a Siviglia. L’autore del Don Chisciotte riferisce che il capo, che si chiamava Monipodio, aveva ordinato ai suoi sodali di destinare una piccola parte dei proventi dell’attività criminale per «l’olio di una santa venerata in città». Stessa pratica che, dalla seconda metà del Cinquecento fino a tutto l’Ottocento, i camorristi napoletani compivano in favore dell’olio posto davanti ai quadri raffiguranti la Madonna esposti nelle prigioni del Regno. Scrive, infatti, il viceré di Napoli Cardinale Gran Vela il 27 settembre 1573:

    A nostra notizia è pervenuto che dentro le carceri della Vicaria si fanno molte estorsioni dai carcerati facendosi pagare l’olio per le lampade votive e facendosi dare altri illeciti pagamenti.

    Monipodio – nel racconto di Cervantes – custodiva un registro in cui trascriveva le commissioni dei clienti. E pure la Garduña descritta più tardi da de Fereal si occupava di amministrare privatamente la giustizia, infliggendo punizioni corporali come lo sfregio e compiendo vendette. Non solo: Cervantes documenta che la setta era costituita da novizi, chiamati fratelli minori, che dovevano compiere azioni criminali, recapitare ordini e messaggi per conto dei loro superiori sia in giro per la città sia nelle prigioni e provvedere a molte altre incombenze. I fratelli maggiori avevano invece accesso a ciò che confluiva nella cassa comune ed erano identificati attraverso un soprannome. Simili, anche se non del tutto sovrapponibili, i ruoli svolti dagli adepti della Garduña.

    Il capo dei sivigliani, cioè Monipodio, distribuiva il frutto delle attività criminali fra i confratelli e ne destinava una parte per la corruzione di giudici e guardie. Identici i compiti e i ruoli svolti dall’altra parte del Mediterraneo dai malavitosi dell’associazione delinquenziale attiva a Napoli tra la fine del Cinquecento e l’Ottocento. Può dunque dedursi, sulla base dell’esame degli scritti di Cervantes, de Fereal e Monnier, che esistessero almeno in principio evidenti analogie tra la setta di Siviglia, la fantomatica Garduña e la camorra campana. Come vedremo, nello stesso statuto della consorteria napoletana, redatto il 12 settembre 1842 e ritrovato dalle forze di polizia dell’epoca, si riconoscono elementi di collegamento significativi in tal senso, almeno riguardo all’origine, come le domande e le risposte di seguito riportate confermano:

    D. Ditemi un poco: di dove discende la società?

    R. Spagna, Napoli e Sicilia.

    D. E come ebbe origine?

    R. Da tre cavalieri: uno spagnolo, uno napoletano e uno siciliano.

    I medesimi riferimenti alla Spagna riaffioreranno nel Novecento anche in codici e leggende riferibili alla ’ndrangheta calabrese e alla mafia siciliana.

    2.5 Lo statuto

    Nella penisola iberica, come detto, avrebbe agito per quattro secoli la Garduña sulla cui reale esistenza si è aperto un dibattito mai pienamente risolto.

    La Garduña si fondava su di un vincolo di omertà che imponeva agli adepti il principio della segretezza. Tale dogma era fissato nelle prime righe dello statuto dell’associazione criminale:

    La casa della Garduña è la notte profonda; l’alimento della Garduña è il segreto; la vita della Garduña è il sangue dei suoi nemici. Così sia.

    L’oscurità della notte, dunque, il buio come naturale custode dei segreti; l’oscurità, ancora, come espressione metaforica del silenzio; il sangue invece come richiamo al costante esercizio della violenza. Infine il così sia, tipica chiosa di ogni preghiera cattolica, come espediente semantico usato per ammantare di religiosità la consorteria e conferirle inviolabile sacralità.

    Il documento fondativo della Garduña sanciva, dunque, che

    tutti i fratelli devono morire piuttosto martiri che delatori sotto pena della degradazione, espulsione dalla confraternita e persecuzione.

    Il testo fu sequestrato, secondo Victor de Fereal, nel 1822 nella casa di Siviglia dell’ultimo capo: Francisco Cortina, l’«hermano mayor». Dall’esame del documento riportato dallo scrittore emergono le regole della consorteria e la conferma della sua estensione in molte città della Spagna e nei territori italiani dominati dalla corona aragonese. Il suo primo articolo stabiliva che

    ogni uomo onorato che possiede occhio acuto, fine orecchio, gamba snella e punto lingua, può divenir membro della Garduña. Possono divenirlo altresì persone rispettabili di una certa età, che desiderano servire l’associazione.

    Il secondo fissava un ulteriore importante principio: l’apertura della consorteria alle donne.

    L’associazione riceve sotto la sua protezione ogni matrona che avrà sofferto per la giustizia come pure accoglierà quelle che saranno presentate da qualche fratello.

    I successivi sei articoli configuravano la scala gerarchica che, dal basso verso l’alto, era così composta:

    Confratelli minori

    Chivatos, a cui erano affidati compiti di osservazione o di trasferimento di messaggi ma era proibito usare il pugnale, se non per difendersi, fino a quando non imparavano il mestiere. Essi salivano di grado compiendo azioni utili all’intera organizzazione; durante il periodo di apprendistato la consorteria garantiva loro cibo, alloggio e paga.

    Postulanti, addetti a raccogliere soldi e imporre la protezione. Parte del ricavato delle loro azioni era destinato alle spese di giustizia e alla celebrazione di messe religiose in onore dei trapassati appartenenti all’organizzazione.

    Guapos o Floreadores, forti fisicamente e in grado d’imporsi negli scontri fisici. Erano formidabili spadaccini, in grado di muoversi in differenziati ambienti sociali e pronti ad uccidere dietro corresponsione di denaro.

    Punteadores, incaricati di uccidere eventuali nemici o compiere azioni delinquenziali.

    Fuellas, uomini non più giovani, dall’aspetto rispettabile incaricati di gestire i bottini e la cassa, infiltrarsi in vari ambienti (compresa la Chiesa) e fornire informazioni all’associazione. Essi erano autorizzati a muoversi con grande libertà ed erano delegati alla gestione della cassa e della contabilità dell’associazione.

    Le donne erano divise in corbeteras e in sirenas: le prime, classiche matrone, controllavano direttamente le seconde, giovani vispe e provocanti utilizzate per sedurre le malcapitate vittime di rapine e furti.

    Confratelli maggiori

    Capataces o maestros che partecipavano alla cerimonia di iniziazione dei nuovi adepti ed erano responsabili di interi territori provinciali. Nominati tra i punteadores con almeno sei anni di anzianità e buone referenze. Erano, insomma, dei veri e propri capi.

    Hermano mayor: il capo assoluto della Garduña, personaggio molto influente dalla doppia vita, che poteva addirittura risultare inserito nella stessa corte del re.

    Nello statuto redatto a Toledo nel 1420, «terzo anno della costituzione della onorevole confraternita», era inoltre scritto che gli appartenenti al sodalizio dovevano riconoscersi attraverso parole d’ordine pronunciate in linguaggio gergale e invece nelle ore notturne, in circostanze particolari, attraverso l’imitazione dei versi di alcuni animali.

    I confratelli portavano tatuati sul palmo d’una mano tre punti colorati che li rendevano riconoscibili e li caratterizzavano.

    La consorteria aveva inoltre un "fondos generales", cioè una cassa comune in cui confluiva stabilmente un terzo degli introiti ottenuti da ciascuna delle azioni delinquenziali compiute: queste risorse venivano utilizzate per corrompere giudici, esponenti delle forze territoriali di polizia, offrire sostentamento agli adepti e compiere investimenti utili alla crescita dell’organizzazione.

    2.6 La storia segreta della setta

    La Garduña durante la sua secolare storia assunse, secondo quanto riferisce de Fereal, la struttura di un ordine religioso o, meglio ancora, di una vera e propria società segreta, riuscendo a contare sull’appoggio di giudici, direttori delle prigioni, responsabili delle forze militari. Nelle procedure di affiliazione dei suoi adepti ricorse a forme esoteriche e simbolismi che si richiamavano alla religione cattolica. La formula che doveva essere recitata nel corso della cerimonia d’iniziazione di un nuovo affiliato era, difatti, la seguente:

    Per i dolori di Maria e per il sangue del suo figlio, nostro Signore, versato per noi, io giuro di non tradire mai la confraternita della Garduña, né alcuno dei fratelli dell’ordine; di non divenire mai membro della giustizia, a detrimento dei fratelli garduñi e di non adoperare mai il mio pugnale contro alcuno di essi se non per legittima difesa. Iddio mi aiuti secondo la sincerità del mio giuramento, e mi punisca se io vi manco.

    Sfruttando questo alone di fittizia religiosità assunse strumentalmente la denominazione di Santa Garduña. Alcuni studiosi spagnoli ritengono che l’associazione criminale, per un certo periodo, fu anche braccio armato della Santa Inquisizione, che intese ripulire con la violenza la penisola iberica dalle influenze che le dominazioni arabe avevano determinato in campo economico, culturale e confessionale.

    La consorteria – setta o confraternita comunque la si intenda definire – scelse d’altronde come sua protettrice e ispiratrice la Vergine di Cordoba che, sostennero i teorici dell’organizzazione, attraverso la sua intermediazione aveva consentito alla Garduña di compiere la sua missione suprema: difendere la purezza del sangue spagnolo dalla contaminazione musulmana. Di più: per ammantare di spiritualità la bassezza morale dei crimini compiuti e delle vessazioni esercitate, gli uomini della Garduña legarono la storia dell’eremita Apolinario a quella della confraternita. L’asceta, che risiedeva in un luogo sperduto della Sierra Morena, era stato incaricato dalla Vergine di Cordoba, che aveva apprezzato le sue virtù d’animo e il fervore religioso, di fungere da suo messaggero per dettare alle popolazioni le volontà celesti. Apolinario predicò dunque in favore della crociata antimusulmana destinata a scacciare gli arabi dai territori spagnoli e, durante il suo cammino, reclutò un esercito di patrioti cristiani per respingere gli infedeli. La Vergine, in segno di riconoscenza per l’impegno profuso, donò all’eremita un bottone della tunica di Gesù Cristo. La reliquia, oltre al grande valore simbolico, era dotata di poteri miracolosi in grado di salvare la vita a quanti venivano catturati dagli arabi. È per questo che i componenti della Garduña elessero Apolinario come riferimento culturale e religioso.

    I rituali della consorteria furono pertanto costruiti prevedendo una raccomandazione alla Vergine prima del compimento di ogni importante azione delittuosa e la consultazione della Bibbia, innalzata al cielo in segno di devozione, prima di agire. Questa fittizia religiosità favorì il legame oscuro, accennato in precedenza, tra Inquisizione e Garduña. Le analogie tra questa quasi irreale associazione criminale nata molti secoli fa in Spagna e le associazioni mafiose meridionali italiane appaiono più che evidenti. A noi interessa porre in rilievo quelle che afferiscono alla ’ndrangheta calabrese. Esaminiamole.

    2.7 I minori e i maggiori

    I moderni clan calabresi si caratterizzano per l’esistenza di due cellule operative che compongono la cosca: la società minore e la società maggiore.

    - Società minore (a cui appartengono gli affiliati fino a un certo grado) è composta da:

    il giovane d’onore che è il neo-affiliato;

    il picciotto di giornata, che ha funzioni di osservazione e di trasferimento di messaggi;

    il camorrista, che compie estorsioni e taglieggiamenti;

    lo sgarrista di sangue, che è un contabile con licenza di uccidere e responsabilità di cassa;

    Vi è poi un direttivo di cui fanno parte:

    il capo giovane, che ha mansioni di comando;

    il puntaiolo, che si occupa di contabilità (e che semanticamente, pur svolgendo funzioni differenti, richiama il puntador della Garduña);

    Il picciotto di giornata, che informa gli affiliati di ogni novità.

    - Società maggiore (a cui appartengono i gradi superiori) è formata da:

    il santista, che può infiltrarsi nei gangli della politica, dello stato e della massoneria nell’interesse dell’associazione;

    il vangelo;

    il quartino o trequartino;

    il quintino;

    il crimine o associazione.

    Nella società maggiore la direzione strategica è composta da quattro figure:

    Il capo società, nome che nei codici della fine del 1800 è attribuito – come risulta nello statuto trovato a Seminara nel 1897 – anche al maestro. Un termine, quest’ultimo, evidentemente mutuato dall’antica definizione di maestros ereditata dalla fantomatica Garduña. Con il termine dialettale mastro è addirittura indicato, alla fine del primo decennio del 2000, Giuseppe Commisso, capo dell’omonimo e prestigioso clan mafioso di Siderno, intercettato mentre viene chiamato a dirimere i contrasti insorti tra i picciotti d’origine calabrese attivi nella lontana Australia.

    Il contabile, responsabile dei fondi del sodalizio e che appare perfettamente assimilabile al fuellas spagnolo. A quella del fuellas potrebbe essere pure associata la figura del santista di ’ndrangheta che, come l’avo iberico, è autorizzato a frequentare ambienti d’ogni sorta e persino le massonerie deviate per dare informazioni e garantire vantaggi alla cosca di appartenenza.

    Il crimine è invece nel locale ’ndranghetistico il coordinatore del gruppo di fuoco e appare, in questa veste, assolutamente riconducibile al capo degli antichi punteadores e guapos iberici.

    Il capocrimine, figura di raccordo tra le varie cosche operanti in zone diverse della regione e del Paese, potrebbe essere infine assimilabile all’hermano mayor della misteriosa setta castigliana.

    Anche la Garduña, come abbiamo visto, era dunque costituita da una parte riservata ai fratelli minori e una seconda ai fratelli maggiori e l’appartenenza all’una o all’altra categoria dipendeva dal ruolo che l’affiliato ricopriva nell’organizzazione.

    Nelle cosche calabresi vi sono ruoli, compiti e funzioni quasi coincidenti a quelli svolti dagli affiliati alla Garduña. Un riferimento esplicito alla penisola iberica e ai cavalieri spagnoli si ha, peraltro, in un codice ritrovato a Pellaro, in provincia di Reggio Calabria, nel 1934. Nel testo si fa risalire al 1417 la data di fondazione della fantomatica Garduña, e alla città di Siviglia, sede della setta di cui parla Cervantes, l’inizio delle vicende di Osso, Mastrosso e Carcagnosso che s’impegnarono nella liberazione di una giovinetta, chiamata nel testo Umiltà, ingiustamente imprigionata.

    Le similitudini con l’antica consorteria iberica emergono con ancora maggiore evidenza nell’analisi del funzionamento di un locale di ’ndrangheta che dev’essere costituito da almeno 49 affiliati e che è organizzato, come detto, in società maggiore e società minore: esso ha infatti la bacinella, cioè la cassa comune, nella quale confluiscono gran parte dei proventi delle attività illecite. Queste risorse servono a finanziare altre operazioni illegali (usura e traffico di droga o acquisto di beni), pagare le spese legali, il sostentamento agli affiliati e gli stipendi ai familiari dei mafiosi in regime di detenzione: l’equivalente del fondos generales della Garduña.

    A unire poi Garduña e ’ndrangheta è l’elemento imprescindibile dell’omertà. I mafiosi calabresi e i garduñi castigliani devono tenere la bocca chiusa, pena la morte. La segretezza e l’inviolabilità della setta sono fondamentali per mantenerla in vita. Quando un nuovo adepto entra a far parte del sodalizio nato nel Quattrocento deve giurare solennemente, evocando la Madonna, di «non tradire mai la confraternita», di non usare mai «le armi contro i confratelli».

    La parte finale della formula è ancora più significativa: «Iddio mi aiuti secondo la sincerità del giuramento e mi punisca se io vi manco». Nella mafia calabrese pure il nuovo affiliato giura fedeltà alla ’ndrangheta stringendo tra le dita, mentre brucia, l’immagine di San Michele Arcangelo o della Madonna di Polsi e richiamandosi, simbolicamente a importanti figure del cattolicesimo. Durante il rito il giovane d’onore calabrese ripete infatti ad alta voce «brucerò come questo santino se tradirò i compagni e la società». Identico è il richiamo al sacro, uguale il senso della cerimonia. Chi viola il vincolo dell’omertà merita la punizione. Una punizione esemplare della quale si accetta il rischio quando si entra a far parte di entrambe le associazioni criminali e che viene comminata, dal Quattrocento in avanti, sulla base di una sorta di divina autorizzazione, perché s’è infranto un patto inviolabile basato su sangue e silenzio.

    2.8 La religiosità

    Il richiamo alla religiosità è, dunque, patrimonio comune della ’ndrangheta e della Garduña. La confraternita spagnola, influenzata dal particolare momento storico legato alla necessità di liberarsi dai condizionamenti provocati dalle invasioni arabe, aveva elevato, a parere di de Fereal, la Vergine di Cordoba a suo punto di riferimento, la storia dell’eremita Apolinario a fondamento culturale e il richiamo al Signore a elemento preponderante da richiamare durante la cerimonia di affiliazione degli adepti. La Bibbia veniva inoltre innalzata al cielo nel corso del battesimo del nuovo arrivato e impugnata dal maestro al momento di assumere importanti decisioni. L’iconografia cattolica era strumentale alle funzioni della consorteria, non a caso protetta e utilizzata per un lungo periodo anche dalla Santa Inquisizione. Questo elemento di religiosità è sopravvissuto ai secoli contaminando anche la simbologia della potente mafia calabrese. Basta leggere come, nel 1941, un casolare di Presinaci (Vibo Valentia) venga consacrato per ospitare una riunione di cosca. Recita il capo società:

    Armiamoci cari compagni di coltello e di sventura, come si armarono i nostri antenati che fecero guerra in Calabria, in Sicilia e in tutto lo Stato Napoletano […]. Calice d’argento, ostia consacrata, con parole di umiltà formo la società.

    Beato Apolinario

    L’ostia consacrata e il calice usati per celebrare messa, che compaiono nel rito compiuto nel casolare, ricordano i riferimenti a Maria e a Dio presenti nel giuramento dei novizi garduñi a Toledo. La religiosità è sempre presente ed evidente. E la stessa incolpevole figura della Madonna – già strumentalizzata dalla Garduña attraverso la santa figura della Vergine di Cordoba – assume una funzione simbolica determinante nella storia della mafia calabrese. È al santuario di Polsi, infatti, che ogni anno i rappresentanti delle cosche ballano la tarantella, mangiano capretti e concordano strategie criminali. A due passi dalla chiesa dedicata alla Vergine della Montagna fu rilanciata, nel 1969, l’idea di una unitarietà della ’ndrangheta durante lo storico summit presieduto da Peppe Zappia di San Martino di Taurianova, poi interrotto dalle forze dell’ordine. Tra quelle montagne meravigliose e inaccessibili è stato intercettato e registrato, nel 2008, il capo crimine Domenico Oppedisano mentre detta le regole da osservare e le condotte da tenere in Calabria e nel mondo.

    Decine di latitanti pluriomicidi sono stati arrestati in covi pieni di immaginette sacre. Inoltre non c’è processione di santi patroni o Madonne, nelle città calabresi, in cui i maggiorenti delle cosche non pretendano di mettere il naso attraverso i comitati o le confraternite che gestiscono l’organizzazione dei festeggiamenti e il trasporto delle statue. La cerimonia stessa di affiliazione dei picciotti – come già detto – si svolge lasciando bruciare tra le dita del battezzato il santino di San Michele Arcangelo, protettore della consorteria, o della Madonna di Polsi, destinataria delle richieste di grazia di boss e picciotti. Una delle vittime della strage di Duisburg (15 agosto 2007) fu trovata in possesso di una immagine sacra bruciacchiata, a conferma che nel ristorante Da Bruno si era appena compiuta un’affiliazione. La falsa sacralità di cui s’ammanta la ’ndrangheta è dunque un chiaro retaggio d’origine spagnola. Essa rappresenta probabilmente l’evidente linea di continuità subculturale esistente con la Garduña.

    Così come lo era, nell’Ottocento, la destinazione di una parte delle somme di denaro rastrellate dalla picciotteria in favore dell’accensione delle lampade votive, in carcere, davanti ai quadri della Madonna: le stesse alle quali già dal Quattrocento destinavano parte dei loro proventi anche i confratelli della Garduña (come racconta Victor de Fereal) e, nel Cinquecento, i detenuti del carcere della Vicaria, come scrisse il vicerè Gran Vela.

    2.9 I tatuaggi

    I tatuaggi offrono un ulteriore significativo collegamento tra la mafia calabrese e la setta iberica. I membri di entrambe le organizzazioni usavano tatuarsi pugnali, croci e catene per distinguersi dal resto della popolazione. Le immagini erano variegate anche se una, in particolare, appariva sempre sulle mani di tutti i picciotti calabresi: cinque minuscoli punti d’inchiostro, di solito collocati nella parte di pelle nell’incavo tra pollice e indice. Gli ’ndranghetisti negli anni ’40 e ’50 del secolo scorso li battezzarono come i cinque punti della malavita perché raffiguranti le cinque componenti essenziali per procedere a un’affiliazione e mantenere in vita una cosca.

    È forse questo l’elemento, soltanto in apparenza poco importante, che segna invece il punto di più precisa e incontrovertibile convergenza tra la mafia calabrese moderna e la Garduña. Anche i confratelli iberici, infatti, avevano tutti tatuati sul palmo della mano destra tre minuscoli punti d’inchiostro che rappresentavano i tre elementi costitutivi della loro setta criminale: il segreto, il sangue dei nemici e la notte profonda, momento in cui preferivano agire. Il fatto che i malavitosi calabresi abbiano continuato, sino alla metà del secolo scorso, a farsi disegnare sulla pelle i loro cinque punti di riconoscimento non può che testimoniare come l’usanza fosse un patrimonio antico, mutuato dall’organizzazione spagnola, di cui non è però certa l’esistenza con il nome datole da de Fereal.

    La Garduña – che non compare mai, infatti, nei codici della ’ndrangheta ritrovati negli ultimi cento anni – emerge sullo sfondo, quasi come un lontano ricordo, nella leggenda di Osso, Mastrosso e Carcagnosso, i tre cavalieri che la mitologia mafiosa meridionale riconosce come fondatori di Cosa Nostra, Camorra e ’ndrangheta. Sempre a Presinaci, nel 1941, così il capo società apriva la cerimonia di affiliazione di un nuovo adepto alla ’ndrangheta:

    A nome della società organizzata e fidelizzata, battezzo questo locale per come lo battezzarono i nostri antenati Osso, Mastrosso e Carcagnosso, che lo battezzarono con ferri e catene. Se fino a questo momento lo conoscevo per un locale oscuro, da questo momento lo riconosco per un locale sacro, santo e inviolabile, in cui si può formare e sformare questo onorato corpo di società.

    Riaffiorano, in questa astrusa formula, anche le parole sacro e santo care ai garduñi di Toledo che, per un certo periodo, cominciarono a definire la loro associazione la Santa Garduña in forza dei legami intessuti con la feroce Inquisizione. Ma ai tre cavalieri fa pure riferimento un certo tipo di canzone che funge tuttora da corollario subculturale all’enfatizzazione della figura degli ’ndranghetisti e dei disvalori mafiosi. Nell’album Il canto della malavita (Amiata Records, 2003) Mimmo Siclari interpreta il brano ’ndrangheta, Camurra e Mafia, che comincia così:

    ‘Nta na notti di un tempo che fu/ Tri cavalieri ddà Spagna se partiru/ Dall’Abbruzzi a Sicilia passaru / e ppoi ccà in Calabria se firmaru / Ventun anni lavuraru sutta terra / Pè fundari li reguli sociali / Leggi d’onori e di guerra/ Leggi maggiori, minori e criminali/ E sti regoli di sangue e d’omertà/ Da padre a figghiu si li tramandaru/ Chisti su i leggi ddà società [...].

    Il testo, che affonda le sue radici nella tradizione orale popolare, riprende termini che consacrano l’unione tra la setta spagnola e la mafia calabra: sangue e omertà compaiono, infatti, come el sangre e el secreto nel motto della Garduña, mentre leggi maggiori, minori e criminali sembrano evocare la ripartizione della setta iberica in confradies majores e minores.

    Illuminante, infine, l’incipit della canzone: Nta na notti di un tempo chi fu/ Tri cavalieri ddà Spagna si partiru.

    Se dunque la Garduña non è davvero mai esistita ed è frutto solo di una invenzione letteraria di Victor de Fereal – che non era un uomo ma una donna francese, madame Irene de Suberwick, la quale utilizzava uno pseudonimo spagnolo – essa è stata evidentemente assunta come lontano ed efficace mito fondativo dalla mafia calabrese. Un mito evocato attraverso l’utilizzo dell’immagine metaforica e suggestiva dei tre cavalieri.

    Capitolo terzo

    La picciotteria bruzia e l’inganno storico

    3.0 La grande bugia

    Per lungo tempo si è sostenuto che la ’ndrangheta cosentina non avesse storia né quindi, criminalmente parlando, tradizione. Non è vero. Tra il 1890 e il 1903 furono già istruiti in Calabria i primi maxiprocessi alle associazioni mafiose operanti sul territorio regionale che furono celebrati rispettivamente a Palmi, Reggio Calabria, Nicastro e Cosenza.

    C’è dunque sempre stato un vuoto storico nella ricostruzione degli accadimenti criminali cosentini riferiti al periodo tra la fine dell’Ottocento e ai primi due decenni del secolo successivo, sui quali mai era stato svolto un attento lavoro di ricerca. Era come se quest’area della Calabria fosse avulsa dal contesto che vedeva invece proliferare, in molte altre zone, la picciotteria, antesignana forma della moderna criminalità organizzata. Il buco è stato colmato da un libro di Antonio Nicaso, Nicola Gratteri e Valerio Giardina, – Cosenza ’ndrine, sangue e coltelli (Luigi Pellegrini Editore, 2009) – da un volume di Claudio Dionesalvi – Za Peppa. Come nasce una mafia (Coessenza, 2007 ) – e da uno scritto di Francesco Caravetta – Guagliuni i malavita (Luigi Pellegrini Editore, 2012).

    Tali pubblicazioni consentono di rileggere in maniera critica una fase importante della vita sociale ed economica della zona bruzia. I contenuti dei lavori letterari trovano riscontro nel materiale giudiziario custodito nell’Archivio di Stato di Catanzaro e in quello di Cosenza. Si tratta di sentenze e verbali di udienza che aiutano a ristabilire, innanzitutto, importanti verità che cozzano con le litanie intonate, per quasi cento anni, da un certo mondo politico ipocritamente indirizzato a rappresentare il cosentino come un’isola felice. Dall’articolato studio degli atti giudiziari e delle pubblicazioni dell’epoca emergono fatti e circostanze che impongono amare riflessioni.

    La prima: Cosenza vanta tradizioni delinquenziali al pari delle altre provincie calabresi e lo dimostra il maxiprocesso, celebrato nel 1903, nel quale figuravano imputate novanta persone indicate come appartenenti alla malavita cittadina. Tra queste vengono tratteggiate le figure di Stanislao De Luca e Francesco De Francesco, capibastone temuti e riveriti che con i loro accoliti amministravano la giustizia privata e imponevano il pagamento del pizzo ai commercianti. Negli archivi catanzaresi sono custoditi i verbali con le deposizioni rese in aula da Pasquale Cimino, ambulante che oggi definiremmo antiracket, che agli inquirenti rivelava: «Non mi meraviglio dell’esistenza di un’organizzazione criminale a Cosenza perché altrove ho subito la stessa sorte». Poi aggiunge: «Gli davo quotidianamente una percentuale sui profitti».

    Dunque, anche nei primi del Novecento per lavorare in tranquillità occorreva pagare la tangente alla mafia locale. Ma c’è di più. La consorteria guidata da De Luca e De Francesco aveva una sua strutturazione interna e delle gerarchie molto simili a quelle delle cosche della ’ndrangheta odierna. Lo dimostra la testimonianza resa ai giudici, in quel lontano periodo, dall’appuntato di pubblica sicurezza Ferdinando Ciaccio, cui fu affidato il compito di studiare il fenomeno e che, nella sua testimonianza, indicò pure ruoli e gradi degli appartenenti all’organizzazione:

    L’associazione ha uno statuto e delle

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