Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Vita di Cristo secondo i vangeli canonici e apocrifi
Vita di Cristo secondo i vangeli canonici e apocrifi
Vita di Cristo secondo i vangeli canonici e apocrifi
E-book478 pagine6 ore

Vita di Cristo secondo i vangeli canonici e apocrifi

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Un libro unico, un racconto che parte dall’infanzia di Gesù, narra della sua vita privata, presenta la sua vita pubblica e lo scontro con il “potere” costituito, affronta la passione morte resurrezione come un percorso dove umano e divino sono strettamente intrecciati, narra del “dopo”, ciò che è avvenuto dopo la resurrezione: “mistero di un unicuum nella storia del mondo…perché nessun altro è tornato dai morti…perché questo “ritornato” tace completamente su ciò che avrebbe senso dire. C’è un senso che ancora non abbiamo compreso, in questo silenzio?”.
La vita di Gesù è una di quelle “storie” che più appassionano uomini e donne di tutte le età e di tutte le epoche. Da alcuni anni, poi, l’”interesse per le storie cristiane” ha conosciuto un moltiplicarsi di attenzione, ma non solo: un crescendo di ritrovamenti o pseudo-ritrovamenti di Vangeli scomparsi, tombe e documenti; e soprattutto una produzione quasi innaturale di nuove interpretazioni che svelerebbero arcani e misteri nascosti da secoli. In questo libro, racconta l’autore, “non voglio aggiungere altra confusione; né è mio scopo sbrogliare la matassa (ben altro sarebbe il lavoro da compiere!); mi propongo una cosa più semplice ma, credo, di non poco interesse: entrare nella varietà delle storie su Gesù e tentare di offrire un percorso narrativo, alla ricerca non della verità su Gesù (pretesa di fronte alla quale egli stesso, probabilmente, risponderebbe come a Pilato: obbligandoci al silenzio), ma della complessità delle sfaccettature offerte dalle tradizioni che lo riguardano”.
LinguaItaliano
Data di uscita26 feb 2014
ISBN9788898473625
Vita di Cristo secondo i vangeli canonici e apocrifi

Leggi altro di Gian Franco Freguglia

Correlato a Vita di Cristo secondo i vangeli canonici e apocrifi

Titoli di questa serie (5)

Visualizza altri

Ebook correlati

Cristianesimo per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Vita di Cristo secondo i vangeli canonici e apocrifi

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Vita di Cristo secondo i vangeli canonici e apocrifi - Gian Franco Freguglia

    Gian Franco Freguglia

    Vita di Cristo secondo i vangeli canonici e apocrifi

    Collana Vaticanoterzo

    KKIEN Publishing International è un marchio di KKIEN Enterprise srl

    kkien.publ.int@kkien.net

    Sede legale: viale Piave 6, 20122, Milano

    image 1

    Prima edizione digitale: 2014

    Questo ebook è concesso in licenza solo per il vostro uso personale. Questo ebook non è trasferibile, non può essere rivenduto, scambiato o ceduto ad altre persone, o copiato in quanto è una violazione delle leggi sul copyright. Se si desidera condividere questo libro con un'altra persona, si prega di acquistarne una copia aggiuntiva per ogni destinatario. Se state leggendo questo libro e non lo avete acquistato direttamente, o non è stato acquistato solo per il vostro uso personale, si prega di ritornare la copia a KKIEN Publishing International (kkien.publ.int@kkien.net) e acquistare la propria copia. Grazie per rispettare il duro lavoro dell'autore.

    ISBN: 9788898473625

    Questo libro è stato realizzato con BackTypo

    un prodotto di Simplicissimus Book Farm

    Indice dei contenuti

    Per cominciare......

    Una serie infinita di storie e controstorie

    Molti narratori

    I molti dopo Luca...

    ... fino ad oggi

    I. LA FAMIGLIA DI GESÙ

    Una storia lunga un'eternità

    1. Anna e Gioacchino

    2. La giovane Maria

    3. Maria e gli angeli

    4. La nascita di Gesù

    5. Gesù bambino

    II. I 20 ANNI DI SILENZIO DI GESÙ

    Scarsità di notizie

    6. Il cugino Giovanni

    7. La morte di Giuseppe

    III. LA VITA PUBBLICA DI GESÙ

    Poca azione, molte parole

    8. Pietro e gli altri

    9. Le nozze, l'uomo pauroso e la donna eretica

    10. I Comandamenti secondo Gesù

    11. Gesù taumaturgo

    12. 5000 uomini affamati

    13. I farisei: la polemica con i poteri forti

    14. La missione dei discepoli e le intuizioni di Pietro

    15. Gesù racconta il Regno dei cieli

    16. Gesù annuncia che Dio è amore

    17. Gesù teologo: i grandi dibattiti

    18. Lazzaro, Tommaso e la morte

    IV. PASSIONE, MORTE E RISURREZIONE

    Il grande nucleo dei Vangeli

    19. L'ultima settimana di Gesù

    20. Giovedì: l'ultima cena di Gesù

    21. Venerdì: la notte del processo di Gesù

    22. venerdì: Gesù muore in croce

    23. Sabato: Gesù agli inferi

    24. Domenica: Gesù risorge

    V. I GIORNI DEL MISTERO

    Che cosa ha raccontato Gesù dopo la risurrezione

    25. I dialoghi con il Risorto

    VI. ANTOLOGIA DI «APOCRIFI MODERNI»

    1. Ciò che avvenne nei nove mesi della gravidanza di sant'Anna e ciò che fecero in quel tempo Maria santissima e sua madre

    2. Giuseppe chiede perdono a Maria per non averle creduto

    3. L'orto degli ulivi

    4. Dalla flagellazione all'«Ecce Homo»

    5. Dal calvario alla croce

    FONTI CANONICHE E APOCRIFE CONSULTATE

    L'autore

    Note

    Per cominciare......

    Una serie infinita di storie e controstorie

    Dal giorno della pubblicazione de Il Codice da Vinci sono successe molte cose nell’ambito di quello che possiamo chiamare l’«interesse per le storie cristiane»: un moltiplicarsi di prodotti editoriali su Gesù e il suo entourage; un crescendo di ritrovamenti o pseudo-ritrovamenti di Vangeli scomparsi, tombe e documenti; e soprattutto una produzione quasi innaturale di nuove interpretazioni che svelerebbero arcani e misteri nascosti da secoli.

    Tra molte cose inutili, non poche sono state anche le occasioni per tornare a parlare di un uomo che i cristiani ritengono Dio; che i musulmani ritengono un profeta; che le religioni orientali indicano come uno dei grandi Illuminati della storia; e che anche i non cristiani non possono evitare di affrontare come uno «con cui è necessario fare i conti».

    Tutto ciò, naturalmente, è un bene.

    Ma rischia anche di essere un bene molto confuso.

    Con questo libro noi non vorremmo aggiungere altra confusione; né è nostro scopo sbrogliare la matassa (ben altro sarebbe il lavoro da compiere!); ci proponiamo una cosa più semplice ma, crediamo, di non poco interesse: entrare nella varietà delle storie su Gesù e tentare di offrire un percorso narrativo, alla ricerca non della verità su Gesù (pretesa di fronte alla quale egli stesso, probabilmente, ci risponderebbe come a Pilato: obbligandoci al silenzio), ma della complessità delle sfaccettature offerte dalle tradizioni che lo riguardano.

    Molti narratori

    Dobbiamo fare innanzitutto un semplice ragionamento, che potrebbe apparire scontato, ma non lo è per nulla.

    L’evangelista Luca scrive il proprio vangelo tra il 70 e il 90 dopo Cristo. Se, come affermano gli storici, Gesù è morto nel 33 circa, sono trascorsi, dall’avvenimento che i cristiani ritengono centrale per la loro fede, quaranta o forse anche sessant’anni.

    Per comodità proviamo a considerare un tempo medio: cinquant’anni. Mezzo secolo è una distanza temporale notevole. In quel mezzo secolo molte cose sono certamente successe, delle quali però abbiamo pochissime notizie e soltanto una fonte diretta: le lettere di Paolo, di cui Luca è amico e discepolo.

    In queste lettere Paolo ha lasciato percepire più volte che la comunità cristiana soffre per la varietà delle predicazioni: non tutti, dice l’apostolo, predicano il medesimo Cristo; ossia, non tutti dicono le medesime cose riguardo a Gesù.

    Cinquant’anni sono molti e in cinquant’anni nascono molte storie. Luca è preoccupato almeno quanto lo era Paolo (che è morto a Roma, da non molti anni), e inizia la narrazione del proprio racconto evangelico con una precisa dichiarazione d’intenti che dobbiamo ascoltare attentamente:

    «Poiché molti hanno posto mano a stendere un racconto degli avvenimenti successi tra di noi [...] così ho deciso anch’io di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi».

    Molti hanno scritto. O hanno cominciato a scrivere. Chi sono questi molti? Due li conosciamo bene: la tradizione li ha chiamati Marco e Matteo, gli autori dei due Vangeli più antichi a noi pervenuti. Ma non si possono certamente dire molti. Sono due, fra i molti.

    Quanti e quali fossero questi molti che sentivano l’esigenza di raccogliere in uno scritto la vicenda e le parole del profeta galileo non ci è dato, finora, di sapere: quei molti sono, in gran parte, andati perduti.

    E una seconda domanda ci inquieta: se è vero - e non abbiamo ragione di dubitarne - che già molti avevano scritto, perché Luca sente il bisogno di fare ricerche accurate su ogni circostanza? Non bastava rimandare a quei molti?

    Ma Luca aggiunge, rivolgendosi a un lettore il cui nome è già un mistero aperto (Teofilo, in greco, significa Amico di Dio! È dunque un vero lettore o solo un nome fittizio?):

    «... ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne per te un resoconto ordinato, illustre Teòfilo, perché ti possa rendere conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto».

    Cosa dunque possiamo dedurre da queste parole? Che i racconti precedenti, per Luca, non fossero abbastanza ordinati? Che non rendessero abbastanza conto degli insegnamenti che Teofilo, l’Amico di Dio, aveva ricevuto? Probabilmente non lo sapremo mai; ma ciò che Luca ci lascia intuire è che il bisogno di narrare la vicenda di Gesù il Nazareno non smette di provocare donne e uomini di ogni tempo.

    I molti dopo Luca...

    Se dei molti prima di Luca non sappiamo nulla, ben diversa è invece la situazione negli anni seguenti: fra il 70 e il 200 dopo Cristo molti altri sentirono il bisogno di raccontare la vita e riportare le parole di Gesù: tra tutti, la Chiesa riconobbe come ispirata la narrazione evangelica che la tradizione attribuisce a Giovanni; ma, rispetto al periodo precedente, dove quasi tutto era andato perduto, noi oggi conosciamo un numero non indifferente di testi: sono quelli che la Chiesa ha dichiarato «non canonici» e che vengono normalmente chiamati «apocrifi».

    Due di questi racconti su Gesù hanno colpito in questi ultimi mesi l’immaginario e la fantasia della gente: quello attribuito a Tommaso apostolo e quello che ci è stato tramandato sotto il nome di Giuda, il traditore.

    Ma ve ne sono molti altri, che sono stati scritti in quel lasso di tempo che abbraccia più di un secolo. La Chiesa li ha rifiutati come non veritieri; ne ha rifiutato l’insegnamento, il contenuto dottrinale; potremmo dire, ancora con Luca, che in essi la Chiesa non riconobbe la solidità degli insegnamenti originari.

    Eppure questi racconti non smettono di inquietare e provocare il cuore e i pensieri dei credenti e dei non credenti; e nell’immaginario cristiano sono rimaste scolpite molte immagini tratte da essi: il nome dei genitori di Maria Vergine ci sono tramandati solo dagli apocrifi; come anche le vicende dell’infanzia di Maria, che peraltro sono il tema dei dipinti di una delle sedi più importanti del cattolicesimo: la basilica di Santa Maria Maggiore in Roma.

    ... fino ad oggi

    Oggi sono trascorsi 2000 anni dall’evento della crocifissione di Colui che le Chiese chiamano il Cristo; e ancora oggi molti scrivono riguardo a Lui; anzi, sembra che non si sia sentito mai così forte il bisogno di «scrivere di Gesù», di «narrare riguardo a Gesù», di interrogare la «solidità della storia e degli insegnamenti». Questo moltiplicarsi di parole può sembrare talvolta vano e solo servo del mercato editoriale; può essere. Ma noi crediamo anche che sia una ricchezza: se molti cercano, indagano, si interrogano su Cristo, sulla sua figura umana, significa che questa figura interessa ancora moltissimo. Bisogna cercare di parlarne e di scriverne in maniera sapiente, indagando con serietà; ma non bisogna aver paura della verità e delle voci che attorno ad essa si levano: la verità non è mai univoca (a una sola voce); la verità è sinfonica.

    I. LA FAMIGLIA DI GESÙ

    Una storia lunga un'eternità

    Il «figlio» secondo Matteo

    Da chi veniamo? Da chi siamo stati generati? Quali sono le radici del nostro sangue? È una domanda che ha un senso profondo per ciascuna donna e uomo che cammina nel tempo e nella storia. Poteva mancare di senso proprio solo per Gesù il Nazareno? È ben vero che, secondo l’annuncio degli apostoli, egli era Dio. Ma altrettanto vero è che aveva camminato sulla terra, come un uomo; come uomo. Da chi veniva, dunque? Quali erano - pur dovevano esserci! - le radici del suo sangue?

    L’evangelista che va sotto il nome di Matteo rivela d’acchito, all’inizio stesso del suo racconto, quanto sia importante per lui mostrare come il sangue di Gesù affondi nella millenaria storia del popolo di Israele. Così egli esordisce nel suo Vangelo:

    «Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo.

    Abramo generò Isacco,

    Isacco generò Giacobbe, che Dio chiamò Israele (i corsivi sono nostri).

    Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli;

    12 è il loro numero, il numero delle tribù di Israele.

    Giuda generò Fares e Zara da Tamar,

    che ingannò il suo sposo fingendosi prostituta.

    Fares generò Esrom, Esrom generò Aram, Aram generò Aminadab,

    Aminadab generò Naasson, Naasson generò Salmon, Salmon generò Booz da Racab,

    Booz generò Obed da Rut, che non era una donna d’Israele, ma una ragazza del popolo di Moab. C’è dunque anche sangue straniero, nella storia di Cristo!

    Obed generò Iesse,

    Iesse generò il re Davide,

    che fu profeta e poeta ed esempio per ogni re futuro. Eppure anch’egli fece il male quando divenne schiavo della passione per la moglie di Uria: ne fece uccidere lo sposo, perché ella fosse sua.

    Dalla moglie di Uria Davide generò Salomone, il più sapiente dei re d’Israele.

    Salomone generò Roboamo, Roboamo generò Abìa, Abìa generò Asaf,

    Asaf generò Giosafat, Giosafat generò Ioram, Ioram generò Ozia, Ozia generò Ioatam, Ioatam generò Acaz,

    Acaz generò Ezechia, che alzò a Dio un lamento affinché non lo lasciasse morire giovane.

    Ezechia generò Manasse, il peggiore dei re d’Israele. Manasse generò Amos,

    Amos generò Giosia,

    Giosia generò Ieconia e i suoi fratelli, al tempo della deportazione in Babilonia.

    Dopo la deportazione in Babilonia, Ieconia generò Salatiel,

    Salatiel generò Zorobabele, Zorobabele generò Abiud, Abiud generò Elìacim, Elìacim generò Azor,

    Azor generò Sadoc, Sadoc generò Achim, Achim generò Eliud, Eliud generò Eleazar, Eleazar generò Mattan, Mattan generò Giacobbe,

    Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo».

    Matteo sembra non resistere all’assoluta necessità di annunciare che la storia che conduce a Gesù è imbevuta dalla storia che viene da Israele, pur con l’eccezione di Rut la Moabita. Si tratta di una storia salfivica, in cui abitano le origini stesse della chiamata del popolo (con Abramo), della fondazione del regno (con Davide) e della nuova fondazione dopo l’esilio (con Zorobabele): non c’è nessun istante della vita d’Israele che non abbia lasciato traccia in questo Gesù che sta per presentarsi al mondo.

    Eppure... c’è un «eppure» drammatico, che Matteo svelerà poco dopo: tutto il sangue e la carne d’Israele si effondono lungo la linea genealogica paterna; ma quel Gesù, figlio di vergine, appartiene più a Maria che a Giuseppe, padre soltanto putativo, padre di nome e non di fatto. In Gesù il sangue è mescolanza di materno e divino.

    Il «figlio» secondo Luca

    Luca dal canto suo sembra voler ampliare la prospettiva che abbiamo intravisto in Matteo, anzi: vuole ampliare il mondo stesso di Matteo (lo abbiamo già detto: egli vuol dare fondamento solido) e, quindi, riconduce non solo fino ad Abramo, ma fino alla creazione stessa dell’universo le origini del sangue di Gesù, le origini del seme divino:

    «Gesù [...] era figlio, come si credeva, di Giuseppe; Giuseppe era figlio di Eli, figlio di Mattat, figlio di Levi, figlio di Melchi, figlio di Innài, figlio di Giuseppe, figlio di Mattatìa, figlio di Amos, figlio di Naum, figlio di Esli, figlio di Naggai, figlio di Maat, figlio di Mattatia, figlio di Semein, figlio di Iosek, figlio di Ioda, figlio di Ioanan…».

    Fino a Natam, Luca presenta 40 generazioni di persone di cui non abbiamo alcuna altra notizia in tutta la Bibbia e che sono completamente estranee a quelle riportate da Matteo. Poi prosegue:

    «Natam era uno dei figli di Davide, figlio di Iesse,

    figlio di Obed,

    figlio di Booz, lo sposo di Rut; figlio di Sala,

    figlio di Naasson, figlio di Aminadab, figlio di Admin, figlio di Arni, figlio di Esrom, figlio di Fares,

    figlio di Giuda, uno dei dodici figli di Giacobbe, che era figlio di Isacco,

    figlio di Abramo, il padre di Israele nella fede».

    Da questo punto, le Generazioni secondo Luca risalgono oltre la chiamata di Abramo, fino alla fondazione del mondo:

    «Abramo era figlio di Tare, figlio di Nacor,

    figlio di Seruk, figlio di Ragau, figlio di Falek, figlio di Eber, figlio di Sala, figlio di Cainam, figlio di Arfacsad,

    figlio di Sem, che con Cam e Jafet era

    figlio di Noè, e fu all’origine del popolo dei semiti, mentre Cam è il capostipite dei camiti (i popoli dell’Africa) e Jafet della razza europea.

    Noè era figlio di Lamech, colui che portò nel mondo la vendetta;

    Lamech era figlio di Matusalemme, l’uomo che visse più a lungo di ogni altro;

    Matusalemme era figlio di Enoch, che fu elevato in cielo prima di morire;

    Enoch era figlio di Iaret, figlio di Mallea,

    figlio di Cainam, figlio di Enos,

    figlio di Set, il terzo figlio di Adamo,

    che fu il primo figlio di Dio».

    Luca fa dunque risalire la genealogia di Gesù fino ad Adamo; ma anche in questo caso, secondo la linea più debole, quella paterna. Di Maria, la madre, colei che ha offerto il suo ventre per la generazione, qui non c’è alcuna traccia. E, in questa assenza di tracce nella linea materna, ecco che s’apre la prima grande domanda e la prima grande necessità dei narratori antichi: quella sulla genealogia della madre; quella da cui partiremo anche noi, in questo viaggio alla ricerca dei molti racconti che sono nei molti libri scritti prima e dopo quello di Luca, per desiderio di conoscere quale siano «il sangue e la carne» o quale sia «lo spirito» nel quale questo Gesù detto il Cristo è stato generato.

    1. Anna e Gioacchino

    [fonti: VANGELO ARABO DELL’INFANZIA; PROTOVANGELO DI GIACOMO; PAPIRO BODMER; NATIVITÀ DI MARIA, VERSIONE ARMENA INCOMPLETA; MS. DI CHARTRES; VANGELO DELLO PSEUDO-MATTEO; CODICI HEREFORD E ARUNDEL]

    Secondo le storie delle dodici tribù di Israele c’era un certo Gioacchino, uomo estremamente ricco. Le sue offerte le faceva doppie, dicendo: «Quanto per me è superfluo, sarà per tutto il popolo, e quanto è dovuto per la remissione dei miei peccati, sarà per il Signore, quale espiazione in mio favore». Giunse il gran giorno del Signore e i figli di Israele offrivano le loro offerte. Davanti a lui si presentò Ruben, affermando: «Non tocca a te offrire per primo le tue offerte, poiché in Israele non hai avuto alcuna discendenza».

    Gioacchino ne restò fortemente rattristato e andò ai registri delle dodici tribù del popolo, dicendo: «Voglio consultare i registri delle dodici tribù di Israele per vedere se sono io solo che non ho avuto posterità in Israele». Cercò, e trovò che, in Israele, tutti i giusti avevano avuto posterità. Si ricordò allora del patriarca Abramo al quale, nell’ultimo suo giorno, Dio aveva dato un figlio, Isacco. Gioacchino ne restò assai rattristato e non si fece più vedere da sua moglie. Si ritirò nel deserto, vi piantò la tenda e digiunò quaranta giorni e quaranta notti, dicendo tra sé: «Non scenderò né per cibo, né per bevanda, fino a quando il Signore non mi abbia visitato: la mia preghiera sarà per me cibo e bevanda».

    (Protovangelo di Giacomo)

    Anna, la moglie di Gioacchino, innalzava due lamenti ed esprimeva due pianti, dicendo a se stessa: piangerò la mia vedovanza. Anna indossò un abito di lutto e all’ora nona del giorno discese nel suo giardino, sedette sotto un albero d’alloro e pregò Dio dicendo:

    «Signore, Dio dei miei padri, ricordati della mia miseria e benedicimi come hai benedetto l’utero di Sara dandole una discendenza con Isacco».

    (Natività di Maria, versione Armena incompleta)

    Né Luca né Matteo, come si è visto, ci tramandano la genealogia di Gesù secondo la linea materna; tanto meno Marco o Giovanni, che delle origini ‘secondo la carne’ di Gesù sembrano non interessarsi affatto.

    Dai vangeli canonici, è appurato, non conosciamo chi siano i nonni materni di Gesù; negli apocrifi, invece, essi hanno un nome preciso: lui è Gioacchino e lei Anna.

    Gioacchino è presentato con i crismi dell’uomo giusto: israelita pio e timorato di Dio.

    Circa le sue origini, alcuni testi si premurano di sottolineare l’appartenenza alla tribù di Giuda e la discendenza dalla stirpe di Davide; la sua famiglia proviene dalla Galilea, precisamente dalla città di Nazaret.

    Raggiunta l’età di venticinque anni, il pio Gioacchino prende in moglie Anna, figlia di Issacar, della sua stessa tribù. I due sono benestanti; e della loro ricchezza non trattengono che il necessario. Hanno, infatti, diviso in tre parti ogni loro avere: una parte la donano al Tempio, una parte ai pellegrini e ai poveri, e la terza parte la riservano a uso della propria famiglia. Fanno voto che, quando Dio concederà loro una discendenza, la offriranno certamente al Signore.

    «Quando Dio concederà». Poiché certamente la concederà. Questo, almeno, è negli auspici di ogni santo israelita. Per un ebreo, la discendenza corrisponde alla metà della Promessa: «avrai una terra e sarai un grande popolo». Chi non ha figli è maledetto.

    Ma Gioacchino e Anna non vogliono sembrare maledetti, non vogliono accettare questo destino che sembra incombere; e ogni anno frequentano il Tempio, a Gerusalemme, in occasione delle festività; e ogni anno il loro andare al Tempio si fa pesante sempre di più; ogni anno è un anno in più senza la discendenza; ogni anno somiglia sempre più a quell’anatema cui vogliono sfuggire.

    L’anno della scomunica

    Un giorno - vent’anni dopo il matrimonio, quando il tempo della possibile fecondità della sposa si è fatto ormai breve e, con esso, breve è ormai la speranza -, il sommo sacerdote Ruben, per quanto Gioacchino abbia sempre donato offerte in doppia quantità, lo ferma alle porte del Tempio; per quell’anno gli vieta di offrire per primo l’oblazione: non avendo ancora generato né maschio né femmina in Israele dalla moglie Anna, Gioacchino non può che essere con ogni evidenza esecrabile agli occhi Dio.

    Grandemente rattristato, dunque, e pieno di vergogna davanti al popolo e alla sua gente (i familiari, i servi, gli amici…); ben sapendo che i giusti delle dodici tribù di Israele hanno tutti avuto una stirpe - a partire dal patriarca Abramo che nel suo ultimo giorno generò Isacco - Gioacchino si allontana dal Tempio del Signore. Camminando mestamente verso casa, decide di fuggire e di non mostrarsi più alla moglie Anna: cosa potrebbe dirle? Accusarla della sterilità? La ama troppo per metterla alla gogna.

    Scomunicato da un popolo che lo accusa e respinto da Dio stesso che non lo esaudisce, al povero Gioacchino non resta che nascondersi e scomparire. Si ritirerà nel deserto, celandosi tra i pastori del suo gregge; lì pianterà una tenda sui monti, per digiunare quaranta giorni e quaranta notti, mormorando tra sé:

    «Non scenderò mai più da questo luogo, né per mangiare né per bere, fino a quando il Signore Dio mio non mi abbia dato un segno della sua benedizione. Mi ciberò solo della mia preghiera, e mia bevanda saranno le mie lacrime».

    Il pianto di Anna

    Passano cinque mesi.

    I testi apocrifi lasciano per un poco Gioacchino per soffermarsi su Anna; la presentano come una donna vestita a lutto, il cui lamento, duplice, è l’espressione della tragedia della sua condizione.

    Da un lato ella continua a dolersi nel profondo del cuore lamentandosi della propria sterilità:

    «Dio ha chiuso il mio utero - dice a se stessa - e non mi ha concesso di generare una stirpe in Israele»; ma, dall’altro, negli ultimi mesi a quel dolore s’è aggiunto quello della scomparsa dell’amato sposo. Quel Dio che non le ha concesso figli, ora le toglie anche il marito, dileguatosi chissà dove, forse morto, senza che lei possa avergli neppure dato degna sepoltura.

    Sterile e vedova, ormai in una casa vuota di figli e di marito, Anna si aggira smarrita e scarmigliata come una tragica figura omerica fra stanze che risuonano di assenza di vita, perduta in un luogo che non sa più riconoscere: non è più casa, non è più famiglia se mai lo è stata; e dispera che lo potrà mai essere in futuro. Persino un’ancella, di nome Juthine, le rinfaccia la sua condizione come prova del fatto che Dio l’ha disprezzata.

    La narrazione del dramma sta per raggiungere l’apice: un giorno - «il gran giorno del Signore» - tolte le vesti del lutto, Anna si lava il capo e, indossato l’abito da sposa, alle tre del pomeriggio scende nel giardino a passeggiare. Qui vede una pianta di alloro e, sedutasi sotto di essa, alza una mesta invocazione a Colui che chiama Signore del giardino:

    «Dio dei miei padri, ascolta la mia preghiera.

    Benedici me

    come hai benedetto la madre Sara donandole il figlio Isacco.

    Come hai esaudito la sua preghiera, esaudisci anche me

    e rivolgi il tuo sguardo a questa ancella».

    Terminata questa breve invocazione, la donna alza gli occhi al cielo e, vedendo sulla pianta di alloro un nido di passeri, dà inizio a uno struggente lamento, che sembra confermare una follia incipiente:

    «Chi mi ha generato?

    In che razza di utero sono mai stata concepita? Sono nata già maledetta davanti ai figli di Israele, oltraggiata e bandita dal Tempio del mio Dio.

    A chi sono simile io?

    Non agli uccelli del cielo, che fecondi ti benedicono, Signore.

    A chi sono simile?

    Non alle bestie, che feconde ti benedicono, Signore. Non alle belve, perché persino le belve sono feconde e ti benedicono, Signore!

    Neppure a queste acque sono io somigliante: a volte calme, a volte agitate,

    le acque e i pesci che in esse hanno vita sono feconde e ti benedicono, Signore.

    A chi sono simile io? Alla terra?

    Ma non produce essa pure i suoi frutti, secondo le stagioni e ti benedice, Signore?

    Quello che hai creato lo hai creato nella tua sapienza, o Signore;

    ricordati che per creare e rinnovare il genere umano tu hai benedetto i nostri padri,

    affinché generassero la stirpe cui apparteniamo».

    Anna è al centro del proprio dramma e della consapevolezza di donna: è come se ella percepisse se stessa come unica sterile in un intero universo capace di trasformare l’amore in fecondità: lei, unica esclusa dal dono della benevolenza di Dio, lo prega di esserle propizio. Quella che sembra una follia, ha infine un sussulto: fin dal principio della sua unione con Gioacchino, entrambi hanno fatto voto di offrire al Signore nel suo sacro Tempio il figlio o la figlia che egli avrebbe loro concesso. Forse, questo, Dio non lo dimenticherà.

    L’angelo della montagna

    Così sembra accadere.

    Nel momento medesimo in cui Anna prega e piange e grida al cielo la propria disperata speranza, un angelo del Signore appare in una grande luce a Gioacchino ad annunziargli che il Signore ha finalmente esaudito le insistenti preghiere:

    «Dio si vendica dei peccati degli uomini, non della natura umana» dice l’angelo: «Quando egli rende sterile il grembo di una donna, lo fa perché in esso prenda forma in modo ancora più mirabile la vita: solo da questo straordinario evento gli uomini sapranno riconoscere che ciò che da essi nasce non è puro frutto del loro piacere, ma manifestazione di un dono divino».

    Rivela poi all’uomo che la moglie concepirà nel grembo una figlia, che chiameranno Maria; così per Anna accadrà come al tempo dei patriarchi: come a Sara, che aveva generato Isacco da Abramo; come a Rachele che aveva generato Giuseppe da Giacobbe; come a Sansone e Samuele che erano pure figli di madre sterile.

    L’angelo continua la sua profezia e comanda che la fanciulla, quando nascerà, venga dedicata al Signore; lei che è piena di Spirito santo fin dall’utero di sua madre, generata miracolosamente da una donna sterile, resterà vergine eppure darà alla luce un figlio, il figlio dell’Altissimo, chiamato Gesù, salvatore di tutte le genti.

    «Sappi che si avvereranno le cose che ti ho detto» conclude l’angelo: «Dopo aver ringraziato il Signore tuo Dio con tua moglie, tornerai nella tua casa, dove Dio santificherà il tuo seme e vi renderà padre e madre, finalmente benedetti in eterno».

    Gioacchino non sta nella pelle e ne ha ben donde: scende dalla montagna, chiama i pastori, si fa condurre dieci agnelli da offrire a Dio, dodici vitelli per i sacerdoti e cento capretti per tutto il popolo. Il mondo intero deve partecipare alla sua gioia.

    Felice per la visita dell’inviato celeste e fiducioso nel disegno di Dio si dirige senza por tempo in mezzo a Gerusalemme dove, come gli ha predetto l’angelo, si attende d’incontrare la sposa, Anna, presso la Porta d’oro.

    L’angelo della città

    Mentre Gioacchino si dirige a valle, l’angelo del Signore appare anche ad Anna, come per chiudere un cerchio; le sue parole sono un inno alla speranza e una risposta alla drammatica preghiera:

    «Anna, il Signore ha dato ascolto alla tua supplica. Tu concepirai e darai alla luce una fanciulla il cui nome risuonerà per tutta la terra, e di questa tua discendenza si parlerà fra tutte le genti: ella si chiamerà Maria e sarà benedetta sopra tutte le donne. Piena della grazia del Signore fin dalla sua nascita, resterà nella casa paterna per i tre anni del suo svezzamento. Vivrà poi consacrata al servizio del Signore e non abbandonerà il Tempio fino a quando avrà raggiunto l’età della discrezione, servendo Dio giorno e notte con digiuni e preghiere. Si asterrà da ogni cosa immonda, non conoscerà mai uomo e, vergine, genererà dalla sua grazia il Signore salvatore del mondo».

    L’angelo ordina alla donna di salire a Gerusalemme, dove potrà incontrare presso la Porta d’oro il marito Gioacchino: anch’egli le sarà restituito e le sta già venendo incontro.

    L’incontro

    La scena si chiude con un’immagine che Giotto immortalerà da par suo in uno degli affreschi della Cappella degli Scrovegni a Padova, rappresentando i due sposi mentre si stringono in un abbraccio e si donano un casto eppure appassionato bacio: Gioacchino e Anna sono giunti presso la Porta d’oro, a Gerusalemme, nel luogo designato dalla profezia angelica. Quando vede il marito, la moglie così a lungo abbandonata gli si aggrappa al collo, esclamando:

    «Adesso so che il Signore Dio mi ha benedetto. Non sono più vedova e, io che credevo di essere sterile, ho concepito nel mio grembo».

    Felici di essersi ritrovati e certi ormai della promessa divina, Gioacchino e Anna ringraziano il Signore che li ha salvati dalla loro sventurata condizione. Poi salgono insieme al Tempio a offrire i loro doni. Presso l’altare di Dio il sacerdote questa volta non trova in Gioacchino alcun peccato: il Signore lo ha finalmente visitato e perdonato, lui e Anna non sono più maledetti né agli occhi di Dio né davanti a tutte le tribù di Israele.

    Dopo aver adorato il Signore, se ne ritornano a casa, insieme, finalmente felici.

    Tutta la terra d’Israele (tutta! e non potrebbe essere altrimenti) si rallegra a tale notizia: la storia di «Dio fra gli uomini» sta cominciando a manifestarsi.

    Che altro aggiungere al racconto degli apocrifi? Una cosa soltanto: la «Porta d’oro», quel luogo d’incontro e di riconciliazione, dettaglio narrativo solo apparentemente inutile, è la medesima porta che il loro «nipote» Gesù attraverserà molti anni dopo per entrare in Gerusalemme, la Domenica delle palme, una settimana esatta prima della sua morte e risurrezione.

    ***

    DIETRO IL RACCONTO...

    La sterilità e la maledizione in Israele

    L’accenno alla difficoltà a generare una discendenza anticipa il tema di fondo che attraversa tutta la storia dei nonni di Gesù: la triste condizione di sterilità è premessa a una nascita che sarà un evento straordinario, un fatto cui i testi apocrifi sembrano voler fare riferimento, quando attribuiscono a Gioacchino lo scandaglio dei giusti delle tribù, e il riconoscimento in Abramo del modello primo di una sterilità che potrebbe miracolosamente essere tramutata in fertilità dall’intervento divino (Gn 17,6-7.15-21;18,10-15). Gioacchino, questo israelita cui è negata la benedizione divina, questo marito che non riesce ad essere padre e che dispera di sé a confronto con l’irraggiungibile modello del patriarca Abramo, sembra quasi inconsciamente additarlo quale segno di una speranza cui egli comunque tende e aspira. Come Dio non ha abbandonato lo sposo di Sara, forse non abbandonerà nemmeno lo sposo di Anna!

    Quaranta giorni...; cinque mesi...

    La cronologia simbolica suggerita dalla classica formula «quaranta giorni e quaranta notti» (il tempo che Gioacchino passa digiunando), così come l’altrettanto simbolico «deserto», stanno rispettivamente a indicare il tempo e il luogo dell’attesa del perfetto compiersi di un evento (si pensi ai quarant’anni del deserto dell’Esodo che preludono alla Terra promessa; o ai giorni del deserto di Gesù, che precedono la sua vita pubblica).

    In alcuni manoscritti, come ad esempio nel Codice Arundel, tali riferimenti si trasformano in una cronologia e in una geografia dai tratti più realistici: si parla di un’assenza di Gioacchino che si protrae per cinque mesi sulle montagne dove egli si è ritirato insieme ai pastori dei pascoli di sua proprietà; una condizione questa che umanizza Gioacchino entro il quadro di una vicenda personale quasi psicologicamente marcata dal suo stato di prostrata disperazione. Preghiere e lacrime, in questo senso, oltre a essere metafora di un nutrimento spirituale, paiono piuttosto il segno di un’aspirazione all’annullamento di sé totale, quasi letale, quasi una sfida a quel Dio agli occhi del quale egli si vede maledetto.

    Il «gran giorno del Signore»

    Alcuni elementi della prima fase del racconto della preghiera-lamentazione di Anna sono, a seconda delle diverse redazioni dei testi, a volte discrepanti, a volte allusivamente simbolici. Il fatto, ad esempio, che il giorno in cui la donna scende nel giardino venga da alcuni apocrifi definito come «il gran giorno del Signore», se da una parte potrebbe semplicemente stare a indicare una rituale festività, dall’altro potrebbe alludere al fatto che quello sarebbe stato per la sposa vedova e sterile il giorno in cui il Signore l’avrebbe riscattata dalla sua misera condizione.

    Coerentemente si intuisce perché alcuni testi (che noi qui abbiamo seguito nella nostra redazione) pongono indosso ad Anna l’abito da sposa, mentre scende nel giardino, come si stesse preparando al rito di un secondo matrimonio, questa volta risolutivo. In abiti da sposa o in abiti di lutto, Anna è comunque presentata come immagine di una donna che, mentre sembra sull’orlo della follia, è divisa tra una finale disperazione (le vesti a lutto) e la speranza indefinita di una nuova possibilità di amare (l’abito da sposa) e, quindi, di poter generare.

    Ma amare chi? Sposarsi con chi? E per generare chi?

    Il «Signore del giardino»

    Alla domanda appena posta forse risponde l’immagine del «Signore del giardino», questo non meglio identificabile personaggio al quale Anna eleva la sua invocazione. Potrebbe semplicemente indicare il reale proprietario del giardino, vale a dire Gioacchino stesso, il padrone di casa, lo sposo assente e forse addirittura morto per cui Anna disperatamente prega che possa tornare. Ma il termine qui utilizzato, una parola greca che non ricorre molto frequentemente nel Nuovo Testamento (Lc 2,29; At 4,24; Ap 6,10), sembra significare più propriamente «padrone e sovrano» in quanto «creatore».

    Unitamente al termine «giardino», tutta l’espressione acquista dunque un’evidente valenza simbolica, quasi a significare che Anna sta qui pregando quel signore del giardino, che è il Dio creatore del giardino edenico, culla feconda e generatrice di ogni essere, principio e fonte di ogni vita sulla terra. Lui è lo sposo per cui la donna si lava il capo e indossa il suo abito da sposa; lui è in chiave simbolica il termine ultimo e primo della sua disperata invocazione, in quanto immagine assoluta della vita che prende forma nel grembo dell’intero universo e, quindi, nel suo stesso grembo. Vista da questa angolazione, la donna che è scesa a pregare nel giardino è simile all’immagine evangelica della vergine che, attendendo lo sposo, tiene la sua lampada sempre accesa.

    Tra la sterilità di Sara e la verginità di Maria

    Esattamente come ha fatto Gioacchino con Abramo, anche Anna nella sua richiesta di benedizione fa riferimento alla madre Sara, la sterile sposa del patriarca del popolo di Israele cui Dio aveva rivolto in tarda età il suo sguardo concedendole di generare Isacco. E in questo incrociarsi di riferimenti all’Antico e al Nuovo Testamento, con l’autodefinirsi «ancella» Anna non manca neppure di fare una citazione del Magnificat, creando in tal modo un saldo parallelo di significato che, partendo da Sara e ricongiungendosi con la figura di Maria stessa, pone in stretta relazione il tema della sterilità con quello della verginità.

    Il nido

    In alcune fonti l’immagine del nido sulla pianta di alloro è corredata da dettagli importanti per comprendere appieno il lamento di Anna: nel Codice Hereford viene specificato come nel nido si trovino una madre con dei piccoli; nella Versione Armena della Natività di Maria, invece, si dice che vi si trovano solo due passeri, presumibilmente maschio e femmina. Nell’uno e nell’altro caso è comunque evidente che, sia che si tratti dell’immagine di una maternità a lei negata, sia che si tratti dell’immagine di un amore sponsale per lei andato distrutto, è la forza di questa incontrollabile emozione alla vista del nido che spinge la donna alla grave lamentazione che segue, un testo che in alcune versioni viene introdotto dalle parole

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1